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20/03/2018

Governo, piano del Colle in tre mosse: Di Maio non sarà il premier

Giusto per essere sul pezzo con gli scenari...

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Il voto del 4 marzo ha indicato un podio, non un vincitore. E il podio, se resiste la litigiosa coalizione leghista-forzista più Giorgia Meloni, ospita il gruppo di centrodestra al primo posto con 260 deputati su 630 a Montecitorio e 135 senatori su 315 a Madama. Segue con oltre 330 parlamentari il Movimento Cinque Stelle, chiude – con un distacco rilevante – il Pd affidato al reggente Maurizio Martina e spintonato ai fianchi da Renzi. Il 4 marzo ha consegnato un’Italia frazionata, però non ha stravolto la Costituzione: chi ottiene la maggioranza in Parlamento va a Palazzo Chigi e prende in custodia la campanella da Paolo Gentiloni. Più ipotesi – cioè più percorsi – portano alla formazione di un governo. Il punto di partenza è sempre l’elezione dei presidenti di Camera e Senato. Al Quirinale sono pronti.

Parte il gruppo più forte: il centrodestra, se unito

Pasqua appena trascorsa. Il centrodestra affronta compatto le consultazioni al Colle. A Matteo Salvini conviene, anche se è tentato da un rapido ritorno al voto. Adesso è il capo di un cartello elettorale al 37 per cento, se abbraccia i Cinque Stelle e tradisce Forza Italia – ormai disarmata – rinuncia alla scalata già avviata sui forzisti e retrocede al 17% leghista. Martina non soccorre né Di Maio né Salvini con le spoglie politiche di Berlusconi: i gruppi dem, soprattutto a Palazzo Madama, sono ostaggio di un senatore toscano, Matteo Renzi. Un giorno, forse due, magari tre giorni di consultazioni: variabile innocua, a Sergio Mattarella non resta che affidare un mandato esplorativo a un esponente del centrodestra. Con pazienza, Mattarella aspetta l’esploratore e ne constata l’insuccesso.

Luigi tratta per Chigi, ma senza incarico
 

Altro giro, altra corsa. Tocca ai Cinque Stelle. Al Quirinale, e non soltanto lassù (leggi Europa e Vaticano), hanno apprezzato la versione governista del Movimento e compreso il responso degli italiani. Nel 2013, invece, fallì proprio la lettura del voto. Scartata la coppia Matteo&Silvio e non ben collocato il Nazareno, Mattarella vara il mandato esplorativo bis, stavolta per Di Maio (o per chi sceglie il M5S). Allora Di Maio sfodera il programma, il reddito di cittadinanza, l’abolizione dei vitalizi, la lotta ai corrotti e agli evasori e lo offre – erga omnes – a “chi ci sta”. Per affinità di elettorati, Di Maio citofona al Nazareno e può andare come spesso va da quelle parti: lunghe sedute di analisi collettive, mozioni di qua e di là, correnti che duellano, militanti, petizioni, grafici. A Martina suggeriscono di pronunciare una sillaba: no. Di Maio risale al Colle e, convinto della bontà delle proposte dei Cinque Stelle, può chiedere a Mattarella di cercare i consensi in aula. Il Quirinale – non per citare Martina – fornisce al Movimento la medesima risposta: no. Perché spedire Di Maio in Parlamento con un incarico vuol dire fallire e lasciare – con una bocciatura – i Cinque Stelle al governo per accompagnare l’Italia al secondo voto nel 2018. Già siamo a maggio o quasi a giugno. Angelino Alfano, che s’è preso un anno sabbatico dalla politica e non si è sfracellato assieme ai centristi il 4 marzo, è sempre ministro degli Esteri. E Maria Elena Boschi, rifugiata a Bolzano per recuperare un seggio, è sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Il Quirinale è consapevole che il modello Spagna – un anno col governo uscente – può funzionare in Spagna. Non in Italia.

La carta disperata: tutti dentro con premier terzo
 

Mattarella ha un ultimo piano: se stesso, la responsabilità, la credibilità, l’istituzione. Il Quirinale coinvolge i Cinque Stelle per plasmare un esecutivo non politico con una figura di garanzia a Palazzo Chigi – un Giuseppe Tesauro (presidente emerito della Consulta) più che un Raffaele Cantone – e fissare il voto per le due finestre disponibili del 2019 a cavallo delle elezioni europee: fine inverno o inizio autunno. Un governo benedetto dal Colle, che ingloba le richieste dei Cinque Stelle, attrae in maniera automatica i dem di Martina, la truppa di Berlusconi, la sinistra di Grasso. E la Lega? Il ruolo di opposizione unica può giovare a Salvini e pure a chi sta in maggioranza, o meglio, sostiene da fuori un governo del Colle. Qui non esiste una conventio ad excludendum per danneggiare i leghisti, ma in Europa si spaventano per Salvini, mica per Di Maio. Riaprire le urne nel 2019, e non tra pochi mesi, asseconda Renzi nel progetto di scissione dal Nazareno. L’ex segretario s’è illuso, un attimo, non di più, di controllare i gruppi dem da lontano. Non c’era riuscito neppure da vicino. Così lavora a un partito più centrista che di sinistra, una ridotta di fedelissimi, libera dai debiti del Nazareno e dai Dario Franceschini, Andrea Orlando, Michele Emiliano, pronto ad accogliere gli esuli di Forza Italia, gli elettori, non i Brunetta, appena ingoiati da una Lega Italia di Salvini. Un miraggio? Renzi ha studiato e si ricorda: “Meglio regnare all’inferno che servire in paradiso”.

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