È difficile trovare nel dibattito politico-economico nostrano e internazionale un tema più discusso di quello relativo al contenimento del debito pubblico. Sappiamo bene, infatti, come la diminuzione del rapporto tra debito pubblico e PIL sia tra le stelle polari di ogni politica suggerita da Bruxelles in merito alla governance economica dell’Eurozona. Storicamente questa preoccupazione è sfociata nella firma di trattati internazionali quali Trattato di Maastricht, Fiscal Compact, Six Pack, tutti incentrati sul contenimento di questo rapporto, che come da prescrizioni non può superare la soglia del 60%.
Diverse questioni potrebbero essere sollevate parlando di questa tematica. Tuttavia, in questo contributo ciò che ci preme è provare a rispondere ad una semplice domanda: è vero che le misure di austerità – propugnate dalle istituzioni internazionali come rimedio perfetto per questo “problema” – portano ad una riduzione del rapporto debito pubblico/PIL?
Per stabilire quale sia la risposta corretta, abbiamo bisogno di due valori, ossia sapere di che entità siano il rapporto PIL/debito (non debito/PIL, questa volta) e del moltiplicatore fiscale dell’economia di nostro interesse.
Per quanto concerne il primo indicatore, notiamo come a un alto rapporto debito/PIL corrisponde un basso valore del corrispettivo PIL/debito; ciò è intuitivo, visto che la seconda misura è semplicemente l’inverso della prima. L’Italia, ad esempio, ha un rapporto debito/PIL di circa il 130%, il che significa un rapporto PIL/debito del 77% (1/1.3 = 0.77).
Il moltiplicatore fiscale invece ci dice quanto reddito si genera a fronte di una spesa pubblica indicativa di 1 Euro. Se la spesa pubblica è molto efficace nel generare reddito aggiuntivo, allora avremo valori del moltiplicatore superiori a 1. Tradotto: per ogni Euro di spesa pubblica, otteniamo più di un Euro di PIL.
Intuitivamente, questo succede perché un Euro di spesa pubblica genera un Euro di reddito. Una frazione (ipotizziamo il 50%) di questo nuovo reddito verrà consumata, generando 50 centesimi di nuova domanda e quindi ulteriore nuovo reddito. Il 50% di questi 50 centesimi di reddito verranno consumati a loro volta, e così via, con aumenti di volta in volta più piccoli. Agli effetti sui consumi, si deve poi aggiungere anche lo stimolo creato a favore degli investimenti: per soddisfare la nuova domanda, gli imprenditori dovranno dotarsi di nuovi macchinari (l’acquisto di macchinari è ciò che in economia si definisce investimento), per poter produrre i nuovi beni che vengono loro richiesti. Dopo questa breve digressione, procediamo per piccoli passi:
1) immaginiamo di studiare le finanze pubbliche del Paese Bengodi. Questo Paese ha nel 2017 un debito pubblico di 1000 miliardi, e un PIL di 1250 miliardi (in che valuta non ci interessa). Il suo rapporto debito/PIL è quindi pari a 0.80 (80%), quello PIL/debito è pari a 1.25 (125%);
2) supponiamo che il Bengodi tassi i cittadini per 150 miliardi e spenda 150 miliardi per investimenti e consumi pubblici. Se il Governo di Bengodi decidesse di applicare una misura di austerità, ci aspetteremmo un taglio della spesa pubblica, in modo tale da renderla minore delle tasse raccolte. In questa maniera, ci troveremmo in una situazione di avanzo di bilancio pubblico. Bengodi taglia la spesa pubblica a 100: l’avanzo, differenza tasse e spesa pubblica, sarà pari a 50. Questo significa, en passim, che lo Stato sta sottraendo risorse all’economia;
3) il conseguimento di un avanzo, nel caso in cui esso venga usato per ripagare una quota del debito pubblico esistente, consente l’abbassamento del livello del debito pubblico. Usandolo per ripagare parte del debito, quest’ultimo scenderà nel 2018 a 950 miliardi (1000 – 50). La misura di austerità è quindi servita a far scendere il livello del debito pubblico;
4) cosa è successo nel frattempo al PIL del Bengodi? Per capirlo, abbiamo bisogno del valore del moltiplicatore fiscale prima menzionato. Siamo sicuri di una cosa: l’effetto secco iniziale della misura di austerità è di tagliare 50 miliardi di PIL. Il PIL passa quindi a primo impatto da 1250 a 1200 miliardi. Vediamo quindi i due possibili successivi scenari:
-) la spesa pubblica del Paese è poco efficace, il moltiplicatore è pari a 0.5. In questo caso l’impatto finale sull’economia sarà un calo di soli 50×0.5 = 25 miliardi di PIL, che perciò si attesta sui 1225 miliardi. Questo vuol dire che anche a fronte di un taglio di reddito immediato, l’economia recupera in parte la perdita e il danno è piuttosto contenuto: un altro modo per dire che il moltiplicatore è basso. Il rapporto debito/PIL è ora dello 0.77 (77%): la misura di austerità ha causato sì una perdita di PIL, ma essa è contenuta (causa basso moltiplicatore) e il rapporto tra debito e PIL è diminuito;
-) la spesa pubblica del Paese è molto efficace, il moltiplicatore è pari a 1.5. Il lato oscuro di questa situazione è che anche tagli della spesa pubblica saranno molto “efficaci”, una efficacia che si tradurrà in una sostanziale diminuzione del prodotto e del reddito del Paese in questione. Come dicevamo, questa volta l’impatto sull’economia è elevato: dopo il taglio di 50 miliardi di spesa, si ha una perdita complessiva di 50×1.5 = 75 miliardi di PIL, che passa a 1175 miliardi. Questa volta quindi il rapporto debito/PIL si attesta sullo 0.81 (81%). La misura di austerità ha fatto sì scendere il livello del debito pubblico, ma ha anche causato una caduta più che proporzionale del livello del PIL. Di conseguenza, il rapporto debito/PIL è aumentato.
Dopo esserci un po’ inerpicati per questi conti, cerchiamo di capire di cosa stiamo concretamente parlando. La sostanza è così riassumibile: se la misura di austerità è effettuata in un Paese dove il moltiplicatore fiscale è alto, essa è molto probabile che si riveli controproducente in termini del nostro supposto obiettivo, cioè la riduzione del rapporto debito/PIL. Questo perché il debito pubblico diminuisce, ma a costo di una caduta del PIL di entità maggiore; il loro rapporto quindi sale. Se il moltiplicatore è molto basso invece, il PIL cade meno in proporzione al debito, quindi il loro rapporto scende. Notiamo anche, di passaggio, come le misure che risultano efficaci nel far scendere il rapporto debito/PIL causino comunque una perdita di produzione per l’economia.
La condizione strettamente matematica ci dice che possiamo affermare ciò quando il moltiplicatore è più elevato del rapporto PIL/debito (di nuovo, da non confondere col rapporto debito/PIL).
Fuor di astrazione, cosa significa questo? Qui la questione si fa interessante: se un Paese ha un rapporto debito/PIL molto alto (per esempio la Grecia, il Belgio, l’Italia) sappiamo che di converso ha un rapporto PIL/debito piuttosto basso. Dall’altro lato, le stime più recenti sui moltiplicatori fiscali ci danno risultati con valori elevati (superiori a 1, e in diversi casi superiori anche a 2): in sostanza, gli studi segnalano come la spesa pubblica sia molto efficace nel creare reddito all’interno di una economia.
In termini del nostro discorso, queste due considerazioni sommate ci dicono una cosa: sono proprio i Paesi con elevato debito pubblico a non dover fare politiche di austerità, pena l’aumento del rapporto debito PIL. Questo perché da un lato i moltiplicatori elevati ci dicono che a un taglio della spesa corrisponderebbe una grande caduta del PIL, e dall’altro perché con un alto livello del rapporto debito/PIL (e basso PIL/debito quindi) siamo sicuri di cadere nella casistica in cui il rapporto debito/PIL cresce dopo degli interventi di austerità (che, come visto, si verifica quando il moltiplicatore è più alto del rapporto PIL/debito).
Una ulteriore considerazione riguarda il fatto che, con i livelli dei moltiplicatori stimati attualmente, anche i Paesi con rapporto debito/PIL più basso (e PIL/debito più alto) non beneficerebbero dal fare manovre di austerità. Supponiamo infatti che Teutonia, un immaginario Paese virtuoso, abbia un rapporto debito/PIL del 75% (in accordo col Trattato di Maastricht), al quale corrisponde un rapporto PIL/debito del 133% (1/0.75 = 1.33). Se il moltiplicatore stimato per Teutonia ha valore per esempio pari a 1.4 (molto plausibile, quindi), ecco che la famosa condizione di confronto ci dice che anche in Teutonia l’austerità farebbe salire il rapporto debito/PIL (dato che 1.4 > 1.33).
In conclusione, ribadiamo come la questione della gestione del rapporto debito/PIL possa essere affrontata da una miriade di sfaccettature diverse. Per amor di discussione e turandoci il naso, possiamo per un momento fingere di credere che una politica economica “sana” debba avere come obiettivo principe la riduzione di questo famigerato indicatore. Rimane comunque un dato di fatto: le politiche di austerità suggerite (o, quando i suggerimenti non erano sufficientemente convincenti, imposte) dalle istituzioni internazionali, secondo le quali il contenimento del debito pubblico deve passare da un taglio drastico della spesa pubblica, hanno clamorosamente fallito, contribuendo piuttosto ad aggravare il problema che si proponevano di risolvere. La cosa drammatica è che niente di tutto questo può sorprendere chiunque abbia un minimo di consapevolezza su come funzionano le economie reali.
Il perché queste misure siano comunque state applicate è un tema che può essere dibattuto a lungo; è tuttavia difficile non pensare che il desiderio delle classi dominanti di disciplinare i lavoratori attraverso crescente disoccupazione e salari stagnanti abbia giocato un ruolo fondamentale. Fatte passare per misure di salute economica pubblica, tali politiche aiutano in maniera spesso decisiva la classe dominante nell’indebolire il mondo del lavoro. D’altra parte, le crisi economiche colpiscono sempre in maniera asimmetrica: ci sono i vinti e ci sono i vincitori.
Nella giusta direzione va, dunque, la campagna promossa da Eurostop per l’abolizione del pareggio di bilancio in Costituzione: combattere i vincoli alla crescita imposti dall’Europa è la più efficace traduzione politica del ragionamento teorico qui svolto.
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