Le urne egiziane si aprono oggi con il peso delle violenze di
Alessandria: dopo il tentato omicidio, sabato, del capo della sicurezza
della città, Mostafa al-Nemr, sopravvissuto all’esplosione di un ordigno
che ha invece ucciso due poliziotti, ieri la polizia egiziana ha ucciso
sei persone accusate dell’attacco.
Secondo il Ministero dell’Interno si tratterebbe del gruppo Hasm,
formazione nota da un paio di anni sebbene sia stata fondata nel 2014,
di difficile attribuzione ideologica, responsabile di attacchi contro
forze armate e giudici. Per il governo si tratta di un braccio armato
dei Fratelli Musulmani che da parte loro hanno sempre negato.
La sicurezza resta un pilastro della politica di al-Sisi, con
un paese instabile e teatro di attentati da anni. Una sicurezza
declinata in stato di emergenza – che dalla Penisola del Sinai è stato
allargato a tutto il paese dopo l’attacco contro le chiese copte nella
domenica delle palme un anno fa – e inasprimento della legge
anti-terrorismo che impedisce nella pratica agli egiziani di
manifestare pensiero e scontento, ai media indipendenti di operare e
agli attivisti politici di svolgere qualsiasi forma di attività. Terzo
paese al mondo per giornalisti in prigione, almeno 25, l’Egitto conta
60mila prigionieri politici, secondo le stime delle organizzazioni per i
diritti umani.
Alla repressione si aggiunge una dura crisi economica,
ampliata dalle riforme di austerity imposte dal Fondo Monetario
Internazionale in cambio di prestiti miliardari. Taglio dei sussidi,
aumento delle tasse e dell’Iva, riduzione dei dipendenti pubblici si
sono tradotti in un’inflazione alle stelle e un aspro incremento del
tasso di povertà: quasi il 30% degli egiziani vive oggi sotto la soglia di povertà.
Nessuno si stupirà, dunque, se l’afflusso ai seggi dei 60 milioni di aventi diritto al voto sarà basso. Lo è da tempo. E le
elezioni presidenziali che si aprono oggi non danno margine di manovra:
oltre al presidente al-Sisi, in cerca del secondo mandato dopo
l’elezione del 2014, corre solo un altro candidato, Mousa Mustafa Mousa, leader del partito liberale Ghad e noto sostenitore dell’ex generale.
Sbaragliati gli altri candidati: l’avvocato di
sinistra Khaled Ali e il nipote di Sadat Mohammed Sanwar si sono
ritirati a gennaio per il boicottaggio subito e l’impossibilità di
presentare il proprio programma politico; Ahmed Shafiq, ex premier
durante i giorni della rivoluzione ed ex uomo di Mubarak, ha abbandonato
dopo pressioni governative; Sami Anan, ex capo di Stato maggiore, è
stato arrestato e al momento si trova in una prigione militare.
Si voterà fino a mercoledì, tre giorni di urne aperte, a cui
per legge dovrebbe seguire un ballottaggio il mese dopo, ovviamente
impossibile visto che a correre sono solo due candidati. I risultati, fa
sapere la Commissione elettorale, saranno resi noti il 2 aprile.
A monitorare il voto dovrebbero essere organizzazioni locali e
internazionali, selezionate dalla stessa Commissione, ma da settimane
gli attivisti locali denunciano l’impossibilità di verificare lo
svolgimento del voto per lo scarso numero di ispettori ma soprattutto
per la quasi totale assenza di una stampa libera, ormai ingurgitata da
censure, autocensure, chiusure di media.
A ciò si aggiungono le denunce di egiziani, in forma anonima, alla stampa: tentativi di acquistare i voti – 100 sterline egiziane, quattro dollari – e pressioni per recarsi alle urne,
mentre tv e radio da giorni insistono sull’importanza delle elezioni e
alcuni negozi promettono cibo gratis extra a chi voterà. Perché se la
vittoria è scontata, l’immagine di al-Sisi dipenderà da quanti andranno a
votare.
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