Le elìte dominanti continuano a diffondere la narrazione di una Unione Europea come destino ineluttabile, condiviso e progressivo dei popoli che ne fanno parte. Esattamente il contrario di quella definizione di “gabbia” di cui da tempo andiamo chiedendo e lavorando per la rottura.
Ma le oligarchie europee e la comunicazione a loro asservita (inclusa tanta falsa coscienza europeista “di sinistra”), omette sistematicamente di segnalare un dato: ogni volta e ovunque sia stato consentito l’esercizio della sovranità popolare e democratica tramite referendum, i trattati e i vincoli imposti dall’Unione Europea sono stati ripudiati. E questo sin dall’inizio dell’edificazione dell’apparato di dominio denominatosi Unione Europea, ossia la ratifica del Trattato di Maastricht nel 1992. Da questo esercizio di sovranità popolare e democratica sono da sempre stati esclusi paesi come Italia e Spagna, le cui legislazioni non hanno consentito di svolgere referendum sull’adesione ai Trattati Europei.
Questa ricostruzione storica, è utile per gli smemorati consapevoli o inconsapevoli, ed è utilissima per chi sta via via convincendosi che la rottura e la fuoriuscita dalla gabbia dell’Unione Europea e dell’Eurozona, sia un percorso del conflitto sociale e di una sinistra popolare coerente.
I primi a dire NO all’Unione Europea furono i danesi. Il 2 giugno del 1992, in Danimarca si tenne un referendum sulla ratifica del Trattato di Maastricht. La maggioranza dei danesi votarono no. Ma nel 1993, le classi dominanti fecero di tutto per vanificare il risultato e il referendum venne fatto rifare. E questa volta vinsero i sì. Anche la Francia, nel ’92, fece un referendum su Maastricht, ma in questo caso vinsero i sì, ma vinsero di pochissimo, tanto che i francesi lo chiamano “Le Petit Oui”, il piccolo sì.
Nel 1994 è la Norvegia a votare sull’adesione all’Unione Europea. E la maggioranza della popolazione votò no, tant’è che ancora oggi la Norvegia non fa parte della Ue né, ovviamente, dell’Eurozona. Sei anni dopo, di nuovo in Danimarca si svolge un referendum, questa volta sull’adesione o meno all’Euro. La maggioranza della popolazione votò no e la Danimarca non entrò nell’Eurozona. Poi è toccato all’Irlanda, nel 2001, a votare in un referendum sul Trattato di Nizza. Anche qui la maggioranza della popolazione vota no. Ma l’anno dopo, come avvenuto in Danimarca nel 1992, il referendum viene fatto rifare. E questa volta vince il sì.
Nel 2003 in Slovenia si è votato con un referendum l’adesione all’Unione Europea e alla Nato. In questo caso stravincono i favorevoli.
Nel 2005 è toccato a Francia e Olanda votare in un referendum l’approvazione o meno della Costituzione Europea. La maggioranza della popolazione sia in Francia sia in Olanda vota no. Data l’importanza dei due paesi, a quel punto la Costituzione Europea viene convertita in “Trattato di Lisbona”. Due anni dopo, nonostante il referendum, i governi lo firmano tutti, anche quello francese e olandese tradendo l’esito referendario del 2005.
Nel 2008 l’Irlanda indice di nuovo un referendum sul Trattato di Lisbona e la popolazione irlandese dice chiaramente di no. Ma l’anno dopo, anche in questo caso, il referendum viene fatto rifare perché il risultato non piace alle classi dominanti. E questa volta prevalgono i sì.
Nel 2012 la Croazia indice un referendum sull’adesione all’Unione Europea. Le urne vanno quasi vuote (votano solo il 43% degli aventi diritto). Vincono i sì con il 70% ma senza una legittimazione democratica, tanto che molti vorrebbero ripetere la consultazione. Ma a Bruxelles c’è una regola inviolabile: i referendum si ripetono solo quando vincono i no.
Nel 2015 è la Grecia a fare un referendum per decidere se accettare o meno il memorandum/tagliola della Troika europea. La maggioranza del popolo greco esprime un coraggiosissimo “Oxi” cioè no. Ma il combinato disposto tra i feroci diktat della troika e la vergognosa capitolazione del governo Tsipras (che pure aveva indetto coraggiosamente quel referendum), annullano il responso popolare.
Nel giugno del 2016 è la Gran Bretagna a votare con un referendum l’uscita o la permanenza nell’Unione Europea (la Brexit). Vince con una lieve maggioranza dei voti l’uscita dalla Ue.
Pochi lo sanno, pochi lo ricordano, tanti lo omettono, ma anche in Italia fino ad ora, c’è stato un unico referendum sull’UE: quello del 1989. La nostra Costituzione, come noto, non prevede la possibilità di indire referendum in materia di trattati internazionali, neanche consultivi. Ma allora, per farlo lo stesso e dare legittimità all’impeto “europeista”, venne fatta in Parlamento una legge costituzionale, che aveva addirittura all’articolo 2 il testo del quesito referendario.
I federalisti europei scrissero all’epoca che: “L’atto che il Parlamento italiano ha compiuto equivale ad una solenne dichiarazione da parte dello Stato di essere pronto ad abbandonare una parte della propria sovranità, in un contesto che va al di là di quello previsto dall’art. 11 della Costituzione. E quando mai, nel corso della storia, uno Stato, senza esserne costretto, si è dichiarato pronto a cedere una parte della propria sovranità per entrare a far parte di uno Stato più ampio, un grande Stato federale?”
Una legge nascosta nel cassetto subito dopo il voto, ma che prima Ross@ ed ora Eurostop sono andati a stanare per richiedere oggi – con una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare – che si possa celebrare un referendum sull’adesione o la disdetta ai trattati dell’Unione Europea. E mentre si lavora per l’Italexit si costruiscono le alleanze sociali e le interlocuzioni politiche per un’area euromediterranea alternativa alla gabbia dell’Unione Europea e dell’Eurozona. Se ne discute sabato 24 marzo a Bologna. La marcia di avvicinamento è cominciata.
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