di Maurizio Vezzosi
Intervista a Walimohammad Atai
Walimohammad Atai è rifugiato politico afghano in Italia, saggista e docente. È fuggito dall’Afghanistan dopo essere scampato ad un attentato organizzato contro di lui dai Talebani, dai quali tutta la sua famiglia si trova tutt’oggi ad essere perseguitata.
Alcuni mesi fa gli Stati Uniti hanno annunciato il loro prossimo ritiro dall’Afghanistan, dopo vent’anni di guerra. Quale bilancio se ne può trarre? Come cambierà l’Afghanistan con il ritiro americano?
In Afghanistan gli Stati Uniti hanno attuato una politica coerente con i loro interessi nell’area: questa ha reso l’Afghanistan dipendente non solo dal punto di vista economico ma anche politico, produttivo e militare. Ben noto è ruolo che gli Stati Uniti hanno avuto sin dall’intervento sovietico del 1979. In quegli anni il budget della CIA destinato al Paese ha raggiunto i 3,2 miliardi di dollari, rendendola l’operazione più costosa della sua storia. Gli Stati Uniti hanno organizzato i mujahidin nella cornice della loro strategia antisovietica: in seguito, con l’aiuto dell’Arabia Saudita e del Pakistan, indebolendo i mujahidin hanno favorito la nascita del movimento dei Talebani.
Con l’invasione del 2001, solo nel primo anno di guerra, sono stati uccisi più di 5.000 civili. Tra il 2001 e il 2006, secondo l’UNICEF, circa 6.500 bambini sono stati uccisi e altri 1.500 sono stati feriti. Oltre che dall’impatto diretto delle violenze, molte vite sono state segnate dalle conseguenze della povertà e del sottosviluppo. Le condizioni delle città oggi sono pessime: la gente è preoccupata, i combattimenti sono in corso in tutte le province e tanti distretti sono caduti nelle mani dei Talebani. L’esercito afghano non è abbastanza forte per combattere da solo i Talebani, che sono oggi più forti che in passato. Considerando che i negoziati non hanno raggiunto alcun accordo preciso e che sotto il profilo della sicurezza la situazione del Paese è andata a peggiorare, temo che possa addirittura prospettarsi un’altra guerra civile.
In Afghanistan l’“effetto-Biden” potrà avere una sua consistenza?
La firma, arrivata alla fine di febbraio di questo anno, dell’accordo di pace tra Stati Uniti e Talebani ha reso chiaro il fatto che prima o poi questi torneranno al potere, o che quantomeno si assisterà ad un compromesso per la condivisione del potere tra il governo di Kabul e i Talebani, che nei fatti controllano già gran parte del Paese. Ma soprattutto nelle aree urbane, come la capitale Kabul, molti afghani temono ancora il ritorno dei giorni bui del regime talebano.
I problemi politici dell’Afghanistan sono da sempre radicati nella politica regionale. In passato le campagne britanniche e russe hanno dovuto affrontare i problemi afghani così come quelli dell’intera regione. Lì si riflettono i contrasti tra India e Pakistan, tra Cina e India, tra Iran e Arabia Saudita. E ovviamente anche quelli tra Stati Uniti e Federazione Russa. Joe Biden si è detto propenso a rimanere in Afghanistan con una forza ridotta: la stessa posizione che esprimeva come vicepresidente durante l’amministrazione Obama. Non credo che gli Stati Uniti si ritireranno del tutto dall’Afghanistan.
Quali sono, a suo avviso, gli effetti prodotti dalla penetrazione di Daesh in Afghanistan?
Il terrorismo mette in ombra ogni aspetto della vita economica, culturale e politica. La comparsa di Daesh (ISIS) ha prodotto un effetto soprattutto nel Sud del Paese, ed in particolare nella provincia di Nangarhar. Daesh ha una sua struttura ben organizzata e ben equipaggiata a livello militare: ha ucciso e rapito tanti afghani, soprattutto i capi dei villaggi, le persone più benestanti, i teologi, gli intellettuali. Ogni giorno sia il personale di sicurezza che i civili perdono la vita tanto a causa di Daesh quanto dei Talebani. La maggior parte dei membri di Daesh non sono afgani: alcuni aspetti della presenza di Daesh in Afghanistan sono ancora poco chiari. Nella provincia del Nangarhar c’è addirittura chi racconta di aver visto con i propri occhi dei gruppi di Daesh salire su degli elicotteri per essere trasportati altrove.
Cosa può dire a proposito del progetto del gasdotto TAPI (Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan, India)?
Il progetto prevede di trasportare il gas naturale dal giacimento di Galkynysh in Turkmenistan alla provincia di Fazlika (Punjab) in India. TAPI dovrebbe fornire all’Afghanistan 14 milioni di m3 di gas naturale al giorno, 38 m3 al Pakistan e 38 m3 all’India, per un totale giornaliero di 90 milioni di m3. La costruzione del progetto è iniziata in Turkmenistan nel dicembre 2015 ed è stata completata nella prima metà del 2019. I lavori di costruzione sul tratto afghano sono iniziati nel febbraio 2018, mentre quelli sul tratto pakistano sono iniziati nel 2019 e dovrebbero essere completati a breve. I Talebani hanno promesso al Pakistan di cooperare e di non ostacolare il progetto nelle aree che controllano.
Qual è il ruolo dell’oppio nelle vicende afghane?
L’oppio è certamente uno dei motivi per cui il Paese si trova tutt’oggi ad essere occupato. Tra il 1979 e il 1982 la produzione di oppio afghano è triplicata. Dal 1991 l’Afghanistan detiene un quasi monopolio di questa produzione, pari a oltre il 90% di quella mondiale: fino al 1991 era il Myanmar a detenere questo primato. Dopo vent’anni di guerra permanente l’Afghanistan è ancora il più grande produttore mondiale di oppio. L’economia dell’oppio è un complicato sistema di interessi e poteri che riguarda agricoltori, operai, trafficanti, politici, apparati di sicurezza, consumatori.
Qual è ad oggi il rapporto tra la società afghana e i Talebani, e più in generale, con le dottrine jihadiste?
La povertà e la violenza continua rendono l’Afghnaistan profondamente vulnerabile. Gli afgani non hanno voluto in passato né vogliono adesso il regime dei Talebani. Il Pakistan, con l’aiuto dei Talebani, ostacola l’accesso all’istruzione agli afghani, specie alle donne ed in particolare ai Pashtun. La scarsa istruzione e l’analfabetismo di molti Pashtun agevolano la strategia politica del Pakistan: i Talebani hanno chiuso molte scuole negli ultimi mesi, sostenendo che l’istruzione laica sia contro la sharia e contro gli ideali dei mullah di Islamabad. Uno dei vertici talebani, mullah Baradar, è stato incarcerato dai servizi di sicurezza pakistani per tanti anni: solo dopo aver accettato tutte le condizioni politiche di Islamabad è stato rimesso in libertà. In Afghanistan circa la metà dei bambini fra i 9 e i 17 anni – 3,7 milioni – non vanno a scuola. Le ragazze rappresentano il 60% della popolazione minorile che non ha accesso al sistema scolastico e questa circostanza le espone a un maggiore svantaggio, aggravando la discriminazione di genere. La violenza continua, la povertà e la discriminazione contro l’universo femminile hanno fatto aumentare il numero di bambini che non frequentano la scuola: alcuni di loro, a causa della povertà, sono costretti ad arruolarsi con i gruppi jihadisti. Un altro grande problema che indebolisce l’Afghanistan è la tossicodipendeza, diffusa anche tra donne e bambini.
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