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16/12/2020

Recovery Fund: sotto il vestito niente

Nella settimana in cui il Parlamento italiano ha dato mandato a Conte di finalizzare l’accordo politico raggiunto all’eurogruppo per la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (il famigerato MES), aprendo la strada a un ulteriore rafforzamento del meccanismo disciplinante basato sul ricatto del debito, la propaganda europeista continua a seminare un ingiustificato ottimismo sulla base delle risorse stanziate tramite il Next Generation EU (NGEU), anche noto in Italia sotto il nome di Recovery Fund.

Abbiamo più volte analizzato le pecche strutturali del NGEU. Come scritto a chiare lettere nella NADEF, il piano europeo per la ripresa impatterà sul Pil italiano per lo 0,3% nel 2021, meno di quanto farà la politica economica nazionale. Eppure, ci viene descritto come una vera e propria svolta nell’architettura istituzionale europea, che sarebbe capace di mobilitare un ammontare tale di risorse da fornire un impulso in grado di invertire la tendenza stagnante degli investimenti pubblici, in particolare nelle economie della periferia mediterranea. La cosa interessante è che più andiamo avanti più ci rendiamo conto di quanto questa narrazione tossica sia indifendibile, una volta considerato qualche dato di realtà. Come segnala Federico Fubini sul Corriere di qualche giorno fa, alla lunga lista di problemi del NGEU se ne aggiunge un altro, di non poco conto. Le risorse che il NGEU fornirà all’economia italiana per i prossimi sei anni non saranno pari a 209 miliardi, bensì a soli 120 miliardi, secondo la bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) discussa in questi giorni al Consiglio dei Ministri.

Per capire la natura dei prestiti del Recovery Fund bisogna fare un passo indietro e partire da alcuni concetti di finanza pubblica. Si sente a volte parlare di una “manovra” di (per dire un numero) 20 miliardi. Ma cosa si intende? Si intende dire che, rispetto a quanto previsto nella legge di bilancio dell’anno precedente per l’anno in corso, la somma di maggiori spese e minori entrate sarà pari a 20 miliardi. Questo vuol dire che serviranno 20 miliardi di euro di “coperture”. E come si trovano queste coperture? Tramite maggiori entrate (un aumento delle tasse, ad esempio), minori spese in altre poste di bilancio, o tramite un incremento del deficit – sempre rispetto a quanto previsto nella manovra dell’anno precedente per l’anno in corso. Ora, la cifra di 20 miliardi non ci dice assolutamente niente sulla natura restrittiva o espansiva della manovra. Se tra maggiori spese e minori entrate immetto 20 miliardi nell’economia, ma contemporaneamente sottraggo 20 miliardi tra minori spese e maggiori entrate senza far ricorso al deficit, sostanzialmente non sto cambiando nulla rispetto alla precedente manovra. Sto solo redistribuendo queste risorse verso diversi utilizzi.

Il medesimo ragionamento ci permette di dire che quando si parla di effetti economici derivanti dal NGEU, si sta facendo un discorso fuorviante o quantomeno incompleto. Se nel mio piano originale avevo intenzione di finanziare gli interventi per 20 miliardi ricorrendo a 10 miliardi di nuove entrate o minori spese e 10 miliardi di maggior deficit, e questi 10 miliardi di maggior deficit sono costituiti da debiti verso l’Unione Europea piuttosto che verso i risparmiatori privati (qualora si finanziasse la spesa, ad esempio, con l’emissione di BTP), cambia ben poco. In altri termini, se le risorse sono sostitutive l’impatto si può dire praticamente nullo. Diverso sarebbe il discorso nel caso in cui le risorse fossero effettivamente aggiuntive. Se ci consentisse di fare una manovra di 30 miliardi, di cui 20 in deficit, si potrebbe dire che il NGEU ha comportato un aumento di 10 miliardi degli interventi in deficit. Ma la verità è che nulla ci impedisce di fare 20 miliardi di nuovo deficit anche senza NGEU, se c’è qualcuno disposto a prestarceli. O meglio, nulla ce lo impedirebbe, se non ci fossero i Trattati europei con la loro disciplina di bilancio.

Ebbene, se consideriamo il Recovery and Resilience Facility (RRF) – uno dei fondi più rilevanti del NGEU, con circa il 90% delle risorse totali – sui 127 miliardi di prestiti destinati all’Italia una quota significativa pari al 70% (88 miliardi) sarà meramente sostituiva rispetto a risorse già stanziate a livello nazionale. La maggior parte dei finanziamenti a debito del NGEU subentrerà a debito pubblico già stabilito e non costituisce dunque debito aggiuntivo, ma solo una forma differente di indebitamento rispetto ai BTP, tanto che anche i tecnici del MEF hanno escluso questa quota dalla stima dell’impatto macroeconomico del NGEU. In altri termini, ogni euro di questi 88 miliardi di debito pubblico “europeo” sarà un euro in meno di fondi raccolti tramite il debito pubblico “ordinario”, con un impatto aggiuntivo sull’economia italiana pari a zero.

Per quanto riguarda i prestiti, dunque, le risorse aggiuntive ammontano a soli 40 miliardi. A questi bisogna aggiungere i contributi a fondo perduto, circa 65 miliardi, che dovrebbero essere destinati ad un aumento degli investimenti pubblici, portando le risorse ‘aggiuntive’ a circa 105 miliardi. Fubini sostiene infine che le risorse aggiuntive complessive arrivino a 120 miliardi, contando anche i 15 miliardi provenienti da altri fondi del NGEU, tra cui Horizon, React EU Just Transition Fund, sebbene non sia affatto certo che queste risorse siano tutte da ritenere addizionali.

In definitiva, anche considerando la cifra di 120 miliardi, ci rendiamo conto che i decantati fiumi di denaro in arrivo dall’UE nel periodo 2021-2026 corrispondono in termini assoluti a un ammontare di poco superiore al deficit aggiuntivo stanziato dal Governo nel solo 2020 (circa 110 miliardi), tramite gli scostamenti addizionali previsti nei decreti Cura Italia, Rilancio, Agosto e Ristori. Per fare un esempio, nel 2021 il Governo programma di utilizzare 24,9 miliardi messi a disposizione dal NGEU: se escludiamo i prestiti sostitutivi (5,6), ipotizzando che la percentuale tra risorse aggiuntive e sostitutive sia costante in tutto il periodo, la cifra complessiva si riduce a meno di 20 miliardi, rendendo praticamente nullo l’effetto economico del NGEU per il 2021. Nessuna sorpresa, dunque, e ce lo dice anche il giornale dei padroni, quando, con candore, ammette che “è evidente che i fondi sostitutivi non portano effetti concreti”.

Non solo, dunque, i 209 miliardi sarebbero risultati del tutto insufficienti a invertire alcunché, una volta spalmati nel sessennio, persino a detta della BCE. Non solo si istituzionalizza la condizionalità attraverso le raccomandazioni country-specific del Semestre europeo, che inchioderanno qualsiasi futuro Governo ad eseguire gli ordini dei guardiani dell’austerità: tagliare la spesa pubblica, ridurre la spesa pensionistica e via dicendo. Come se non bastasse, si conferma pure che una parte significativa delle risorse del NGEU saranno sostitutive, ossia andranno a finanziare capitoli di spesa già previsti che sarebbero stati finanziati tramite emissione di nuovo debito pubblico o da un incremento del prelievo fiscale.

Continua Fubini: “Chi pensa che il livello del debito pubblico sia irrilevante, può valutare quanto segue: sta dimezzando il Recovery Fund”. Secondo l’articolista del Corriere, quindi, il livello attuale del debito italiano sarebbe il colpevole del dimezzamento di fatto delle risorse aggiuntive garantite dal Recovery Fund. Peccato che questo approccio ribalti completamente i fatti. Il NGEU nasce come risposta alla crisi pandemica, una crisi in cui non è possibile stabilire i responsabili: di conseguenza avrebbe dovuto essere disegnato per sostenere tutti i Paesi membri, in particolare quelli più colpiti dalla pandemia, tra cui l’Italia, al netto delle loro differenze in termini di finanze pubbliche. Come si può sostenere che l’Italia non beneficerà del NGEU per colpa del suo debito pubblico?

Viceversa, il NGEU avrebbe dovuto rafforzare la funzione essenziale svolta dall’indebitamento pubblico nelle fasi recessive del ciclo, in primo luogo per sostenere tutti coloro che hanno perso il lavoro in mancanza di rinnovo contrattuale o hanno visto crollare il proprio reddito. E invece emerge con chiarezza che i Paesi caratterizzati da uno stock più elevato di debito proveranno a evitare i prestiti o li utilizzeranno principalmente come forma di finanziamento alternativa al mercato.

Ci era stato detto che l’Unione Europea avrebbe messo sul piatto fiumi di miliardi. Tuttavia, l’accesso a questi soldi è subordinato a una condizionalità ancora più feroce di quella del MES. Concedere sostegno a un Paese e al contempo obbligarlo, nel medio periodo, a rientrare nei binari dell’austerità, così come cristallizzata dal Fiscal Compact, è un controsenso rispetto agli apparenti obiettivi di rilancio economico dichiarati e propagandati, perché impedisce di raccogliere risorse aggiuntive da utilizzare per ravvivare la crescita. Ciò nasconde la terribile razionalità implicita nelle politiche di austerità finalizzate a promuovere nel futuro prossimo un inasprimento dei tagli alla spesa pubblica e la prosecuzione delle politiche di smantellamento dello Stato sociale e del ruolo attivo dello Stato nell’economia con il conseguente indebolimento economico delle classi subalterne. Se il NGEU è descritto come la rappresentazione plastica di una svolta storica a livello europeo, fondata su una ritrovata solidarietà tra i Paesi membri, un’attenta analisi rivela quanto questa narrazione sia lontana dalla realtà. La logica conclusione di questo ragionamento è una e una sola: le proprietà salvifiche del Recovery Fund non esistono. La soluzione salvifica che arriva da Bruxelles è un’invenzione buona per far dormire sogni tranquilli a chi non vuol vedere che il progetto politico europeo ha come obiettivo principale la disciplina impartita tramite il ricatto del debito. Ma quando ci sveglieremo farà molto male. Sarebbe bene organizzarsi, per non farsi trovare impreparati quando la realtà, prepotente come sempre, inizierà a presentare il conto.

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