Nella settimana in cui il Parlamento
italiano ha dato mandato a Conte di finalizzare l’accordo politico
raggiunto all’eurogruppo per la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (il
famigerato MES), aprendo la strada a un ulteriore rafforzamento del
meccanismo disciplinante basato sul ricatto del debito, la propaganda
europeista continua a seminare un ingiustificato ottimismo sulla base
delle risorse stanziate tramite il Next Generation EU (NGEU), anche noto
in Italia sotto il nome di Recovery Fund.
Abbiamo più volte analizzato le pecche strutturali del NGEU.
Come scritto a chiare lettere nella NADEF, il piano europeo per la
ripresa impatterà sul Pil italiano per lo 0,3% nel 2021, meno di quanto
farà la politica economica nazionale. Eppure, ci viene descritto come
una vera e propria svolta nell’architettura istituzionale europea, che
sarebbe capace di mobilitare un ammontare tale di risorse da fornire un
impulso in grado di invertire la tendenza stagnante degli investimenti
pubblici, in particolare nelle economie della periferia mediterranea. La
cosa interessante è che più andiamo avanti più ci rendiamo conto di
quanto questa narrazione tossica sia indifendibile, una volta
considerato qualche dato di realtà. Come segnala Federico Fubini sul Corriere di
qualche giorno fa, alla lunga lista di problemi del NGEU se ne aggiunge
un altro, di non poco conto. Le risorse che il NGEU fornirà
all’economia italiana per i prossimi sei anni non saranno pari a 209 miliardi, bensì a soli 120 miliardi, secondo la bozza del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) discussa in questi giorni al Consiglio dei Ministri.
Per capire la natura dei prestiti del Recovery Fund bisogna
fare un passo indietro e partire da alcuni concetti di finanza
pubblica. Si sente a volte parlare di una “manovra” di (per dire un
numero) 20 miliardi. Ma cosa si intende? Si intende dire che, rispetto a
quanto previsto nella legge di bilancio dell’anno precedente per l’anno
in corso, la somma di maggiori spese e minori entrate sarà pari a 20
miliardi. Questo vuol dire che serviranno 20 miliardi di euro di
“coperture”. E come si trovano queste coperture? Tramite maggiori
entrate (un aumento delle tasse, ad esempio), minori spese in altre
poste di bilancio, o tramite un incremento del deficit – sempre rispetto
a quanto previsto nella manovra dell’anno precedente per l’anno in
corso. Ora, la cifra di 20 miliardi non ci dice assolutamente niente sulla
natura restrittiva o espansiva della manovra. Se tra maggiori spese e
minori entrate immetto 20 miliardi nell’economia, ma contemporaneamente
sottraggo 20 miliardi tra minori spese e maggiori entrate senza far
ricorso al deficit, sostanzialmente non sto cambiando nulla rispetto
alla precedente manovra. Sto solo redistribuendo queste risorse verso
diversi utilizzi.
Il medesimo ragionamento ci permette
di dire che quando si parla di effetti economici derivanti dal NGEU, si
sta facendo un discorso fuorviante o quantomeno incompleto. Se nel mio
piano originale avevo intenzione di finanziare gli interventi per 20
miliardi ricorrendo a 10 miliardi di nuove entrate o minori spese e 10
miliardi di maggior deficit, e questi 10 miliardi di maggior deficit
sono costituiti da debiti verso l’Unione Europea piuttosto che verso i
risparmiatori privati (qualora si finanziasse la spesa, ad esempio, con
l’emissione di BTP), cambia ben poco. In altri termini, se le risorse sono sostitutive l’impatto si può dire praticamente nullo.
Diverso sarebbe il discorso nel caso in cui le risorse fossero
effettivamente aggiuntive. Se ci consentisse di fare una manovra di 30
miliardi, di cui 20 in deficit, si potrebbe dire che il NGEU ha
comportato un aumento di 10 miliardi degli interventi in deficit. Ma la
verità è che nulla ci impedisce di fare 20 miliardi di nuovo deficit
anche senza NGEU, se c’è qualcuno disposto a prestarceli. O meglio, nulla ce lo impedirebbe, se non ci fossero i Trattati europei con la loro disciplina di bilancio.
Ebbene, se consideriamo il Recovery and Resilience Facility (RRF)
– uno dei fondi più rilevanti del NGEU, con circa il 90% delle risorse
totali – sui 127 miliardi di prestiti destinati all’Italia una quota
significativa pari al 70% (88 miliardi) sarà meramente sostituiva rispetto a risorse già stanziate a livello nazionale.
La maggior parte dei finanziamenti a debito del NGEU subentrerà a
debito pubblico già stabilito e non costituisce dunque debito
aggiuntivo, ma solo una forma differente di indebitamento rispetto ai
BTP, tanto che anche i tecnici del MEF hanno escluso questa quota dalla
stima dell’impatto macroeconomico del NGEU. In altri termini, ogni euro
di questi 88 miliardi di debito pubblico “europeo” sarà un euro in meno
di fondi raccolti tramite il debito pubblico “ordinario”, con un impatto
aggiuntivo sull’economia italiana pari a zero.
Per quanto riguarda i prestiti,
dunque, le risorse aggiuntive ammontano a soli 40 miliardi. A questi
bisogna aggiungere i contributi a fondo perduto, circa 65 miliardi, che
dovrebbero essere destinati ad un aumento degli investimenti pubblici,
portando le risorse ‘aggiuntive’ a circa 105 miliardi. Fubini sostiene
infine che le risorse aggiuntive complessive arrivino a 120 miliardi,
contando anche i 15 miliardi provenienti da altri fondi del NGEU, tra
cui Horizon, React EU Just Transition Fund, sebbene non sia affatto certo che queste risorse siano tutte da ritenere addizionali.
In definitiva, anche considerando la
cifra di 120 miliardi, ci rendiamo conto che i decantati fiumi di denaro
in arrivo dall’UE nel periodo 2021-2026 corrispondono in termini
assoluti a un ammontare di poco superiore al deficit aggiuntivo
stanziato dal Governo nel solo 2020 (circa 110 miliardi), tramite gli
scostamenti addizionali previsti nei decreti Cura Italia, Rilancio,
Agosto e Ristori. Per fare un esempio, nel 2021 il Governo programma di
utilizzare 24,9 miliardi messi a disposizione dal NGEU: se escludiamo i
prestiti sostitutivi (5,6), ipotizzando che la percentuale tra risorse
aggiuntive e sostitutive sia costante in tutto il periodo, la cifra complessiva si riduce a meno di 20 miliardi,
rendendo praticamente nullo l’effetto economico del NGEU per il 2021.
Nessuna sorpresa, dunque, e ce lo dice anche il giornale dei padroni,
quando, con candore, ammette che “è evidente che i fondi sostitutivi non portano effetti concreti”.
Non solo, dunque, i 209 miliardi
sarebbero risultati del tutto insufficienti a invertire alcunché, una
volta spalmati nel sessennio, persino a detta della BCE. Non solo si istituzionalizza la condizionalità attraverso le raccomandazioni country-specific del
Semestre europeo, che inchioderanno qualsiasi futuro Governo ad
eseguire gli ordini dei guardiani dell’austerità: tagliare la spesa
pubblica, ridurre la spesa pensionistica e via dicendo. Come se non
bastasse, si conferma pure che una parte significativa delle risorse del NGEU saranno sostitutive,
ossia andranno a finanziare capitoli di spesa già previsti che
sarebbero stati finanziati tramite emissione di nuovo debito pubblico o
da un incremento del prelievo fiscale.
Continua Fubini: “Chi pensa che il livello del debito pubblico sia irrilevante, può valutare quanto segue: sta dimezzando il Recovery Fund”. Secondo
l’articolista del Corriere, quindi, il livello attuale del debito
italiano sarebbe il colpevole del dimezzamento di fatto delle risorse
aggiuntive garantite dal Recovery Fund. Peccato che questo
approccio ribalti completamente i fatti. Il NGEU nasce come risposta
alla crisi pandemica, una crisi in cui non è possibile stabilire i
responsabili: di conseguenza avrebbe dovuto essere disegnato per
sostenere tutti i Paesi membri, in particolare quelli più colpiti dalla
pandemia, tra cui l’Italia, al netto delle loro differenze in termini di
finanze pubbliche. Come si può sostenere che l’Italia non beneficerà
del NGEU per colpa del suo debito pubblico?
Viceversa, il NGEU avrebbe dovuto
rafforzare la funzione essenziale svolta dall’indebitamento pubblico
nelle fasi recessive del ciclo, in primo luogo per sostenere tutti
coloro che hanno perso il lavoro in mancanza di rinnovo contrattuale o
hanno visto crollare il proprio reddito. E invece emerge con chiarezza
che i Paesi caratterizzati da uno stock più elevato di debito proveranno
a evitare i prestiti o li utilizzeranno principalmente come forma di
finanziamento alternativa al mercato.
Ci era stato detto che l’Unione Europea avrebbe messo sul piatto fiumi di miliardi.
Tuttavia, l’accesso a questi soldi è subordinato a una condizionalità
ancora più feroce di quella del MES. Concedere sostegno a un Paese e al
contempo obbligarlo, nel medio periodo, a rientrare nei binari
dell’austerità, così come cristallizzata dal Fiscal Compact, è un controsenso rispetto agli apparenti obiettivi di rilancio economico dichiarati e propagandati, perché impedisce di raccogliere risorse aggiuntive da utilizzare per ravvivare la crescita.
Ciò nasconde la terribile razionalità implicita nelle politiche di
austerità finalizzate a promuovere nel futuro prossimo un inasprimento
dei tagli alla spesa pubblica e la prosecuzione delle politiche di
smantellamento dello Stato sociale e del ruolo attivo dello Stato
nell’economia con il conseguente indebolimento economico delle classi
subalterne. Se il NGEU è descritto come la rappresentazione plastica di
una svolta storica a livello europeo, fondata su una ritrovata
solidarietà tra i Paesi membri, un’attenta analisi rivela quanto questa
narrazione sia lontana dalla realtà. La logica conclusione di questo
ragionamento è una e una sola: le proprietà salvifiche del Recovery Fund non
esistono. La soluzione salvifica che arriva da Bruxelles è
un’invenzione buona per far dormire sogni tranquilli a chi non vuol
vedere che il progetto politico europeo ha come obiettivo principale la
disciplina impartita tramite il ricatto del debito. Ma quando ci
sveglieremo farà molto male. Sarebbe bene organizzarsi, per non farsi
trovare impreparati quando la realtà, prepotente come sempre, inizierà a
presentare il conto.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento