Ma a quel destabilizzante debutto su Lp mancava ancora qualcosa, che pure era insito nel codice genetico della band: la devozione totale al ritmo, la fusione ancor più sfrontata di primitivismo africano e futurismo occidentale, l'uso ancor più estremo dello studio di registrazione come fucina avveniristica di uno stile unico e rivoluzionario. Il tutto attraverso un linguaggio asciutto, sintetico. In due parole: new wave. Un approdo naturale per gli ex-coinquilini del loft al Lower East Side? Forse. Ma la storia ha voluto che per portarlo a compimento vi sia stato bisogno della quinta Testa Parlante, quella di Brian Eno.
Il tour peggio assortito della storia
L'incontro tra la band newyorkese e il "non musicista", appena uscito dalle sessioni di "Low" con David Bowie, avviene a Londra, durante quello che Simon Reynolds definisce "il doppio tour europeo peggio assortito della storia": Ramones + Talking Heads. A unire i due gruppi, la comune primogenitura sul palco del Cbgb, a dividerli tutto il resto: leggenda vuole che Joey Ramone e compagni non sopportassero le cassette di James Brown che Tina Weymouth propinava loro in pullman e restassero allibiti vedendo gli Heads leggere libri invece di far casino durante il viaggio. Anche la scelta del produttore li allontanerà definitivamente: mentre infatti i Ramones ripescano una vecchia gloria come Phil Spector, i Talking Heads guardano al futuro, incarnato dallo sguardo allucinato e dalle mani affusolate di mr. St John le Baptiste de la Salle Eno. "Ci ricordava un monaco gesuita, era molto affascinante", racconterà Weymouth. "Erano le quattro persone migliori che potessi sperare di conoscere", ricambierà Eno, che vedeva negli Heads – e in particolare in Byrne – una versione giovane di se stesso, con quel "desiderio di costruire musica in maniera concettuale". La bizzarra, visionaria personalità del cantante scozzese, a sua volta, trovava nell'approccio di Eno, reduce dalla precoce pietra miliare di "Before And After Science", "uno stimolante ordine per il libero fluire di influenze, fascinazioni, immagini metropolitane, archetipiche, planetarie" (cit. Mimma Schirosi, OndaRock).
Gentlemen take Polaroids
L'intuizione decisiva di Brian Eno sta proprio nel riuscire a compattare quel magma sonoro anarchico, quell'ammasso di ritmi sincopati e sghembi, in un flusso musicale coerente, più articolato e quasi sempre ballabile, enfatizzando l'irresistibile tandem basso-batteria di Tina Weymouth e Chris Frantz, ma anche il ruolo – finora defilato – del tastierista Jerry Harrison, aggiungendo nuove policromie elettroniche alla tavolozza sonora del gruppo. Un collage, o meglio un puzzle, proprio come quello della splendida copertina, realizzata da Jimmy De Sana su idea di Byrne, che raffigura i componenti della band attraverso 529 fotografie Polaroid.
"More Songs About Buildings And Food" – titolo suggerito, a suo dire, dal leader degli Xtc, Andy Partridge – esce il 14 luglio del 1978, con undici tracce, tra brani non utilizzati sul debutto (da qui il "more") e materiale completamente nuovo, frutto delle prime registrazioni effettuate dalla band ai celebri Compass Studios alle Bahamas. Man mano che le sessioni progredivano, il groove si impossessava di quelle litanie anoressiche, gonfiandole di nuove pulsazioni, con lo spirito di Fela Kuti ad aleggiare in studio (leggenda vuole che Eno avesse piazzato sul giradischi di casa proprio il suo "Afrodisiac" per spiegare a Byrne cosa avesse in mente). Funkedelia è la parola d'ordine: un'alchimia postmoderna che mescola selvaggi cerimoniali pan-etnici e nevrastenie metropolitane in stranianti collage poliritmici.
Nella giungla dei ritmi
Protesi in questo nuovo affascinante scenario, i Talking Heads si lasciano alle spalle un ultimo ponte con il passato, sotto forma dell'iniziale shuffle "Thank You For Sending Me An Angel", che riparte da dove "Pulled Up" aveva chiuso l'esordio, in una sferragliante galoppata con gli stacchi spastici della chitarra e i rintocchi della tastiera a scandire il frenetico canto-recitato di Byrne, perso nei suoi disorientati nonsense ("I'm walking 'round the world... But first, show me what you can do!"). Neanche un secondo di silenzio, e un colpo di batteria ci catapulta nella giungla di questo nuovo funky dell'ultramondo, invasato e futurista: "With Our Love" avanza minacciosa a mo' di marcia meccanica tra i colpi del basso guizzante di Weymouth – autentica "seconda voce melodica" del gruppo – e i riff di una chitarra ritmica sottile come una lama di metallo, mentre Byrne biascica un altro dei suoi mantra alienati ("Forgot the trouble, that's the trouble").
Look sbarazzino e taglio cortissimo alla Jean Seberg, Tina sale in cattedra come principale contrappunto al canto epilettico di Byrne. A partire dall'intro di "Warning Sign", dove i suoi riff rotondi preparano la strada al dialogo nevrotico tra gli arpeggi secchi di chitarra e le linea melodica della voce, con gli improvvisi cambi di ritmo ad assecondare i mutamenti d'umore di Byrne, sfumando nella cantilena finale, solo apparentemente rassicurante. È ancora Weymouth a imbastire il preludio lunare che accompagna lo scatto di chitarra e il declamare allucinato di Byrne sulla saltellante "The Girls Want To Be With The Girls", apice pop dell'album con il suo ritornello sixties che cola appiccicoso su un trionfo di luccicanti tastiere disco-music. Ed è un'altra cavalcata al basso a trainare la schizofrenica (e strepitosa) "Artists Only", dove tra folate di chitarra, scariche di synth, organi vorticosi e ritmi sincopati, il leader inscena una delle sue farneticanti pantomime, tutta giocata sulla sottile linea di demarcazione tra autobiografica parodia e alterata apologia ("I'm painting, I'm painting again/... I'm cleaning, I'm cleaning my brain... I don't have to prove... that I am creative!/ All my pictures are confused/ And now I'm going to take me to you").
Byrne spadroneggia con i suoi testi surreali che "saltavano a piè pari gli argomenti che monopolizzavano il 96% dell'attenzione del rock (amore, sesso, svariate forme di ribellione e cattiva condotta)", come ricorda Reynolds, per esplorare temi come burocrazia, televisione, animali, fobie e alienazione metropolitana, attraverso mini-film immaginari e giochi linguistici. Ed è sempre lui il mattatore in scena, con le sue interpretazioni goffe e schizoidi, tutte giocate sulle corde vocali anziché sul diaframma ("è letteralmente una Talking Head", suggerisce Rolling Stone).
Ma non c'è dubbio che sia il ritmo il sovrano assoluto dell'album: tambureggiante, ossessivo, soffocante e spesso parossisticamente cadenzato, eppure senza mai una traiettoria prevedibile, anche all'interno dello stesso brano. "Ho sempre apprezzato i ritmi un po' spasmodici e a scatti, era verso di quelli che gravitavo", racconterà Byrne. Dalla innaturale commistione tra la sua legnosità da impiegato della City e questo istinto funky deviato scaturiscono surreali numeri da dancefloor. Come "Found A Job", che chiude la prima facciata con un irresistibile crescendo funky – ancora Tina sugli scudi, in uno spettacolare corpo a corpo con la chitarra ritmica – e il quasi-rap di Byrne a raccontare la storia semiseria di una coppia che finisce con l'incanalare le sue stupide liti in un programma televisivo di successo. O come la forsennata jam disco (intellettuale, of course) di "Stay Hungry", con Byrne che riporta alla mente il canto alieno e trasognato del suo ex-compare di Cbgb Tom Verlaine (Television), aggiungendovi il suo inconfondibile tocco demenziale, in un'orgia di sintetizzatori che svariano dal soul al jazz fino quasi a lambire il prog.
Sull'orlo di una crisi di nervi
Non c'è mai un momento di tregua, in "More Songs About Buildings And Food", anche perché la tensione scorre sottotraccia in tutti i brani, persino quelli apparentemente più solari, come "The Good Thing", con il suo accattivante ritornello in crescendo sorretto da coretti scanzonati, frenetiche chitarre jangle e linee di basso sinuose, a celare il conflitto interiore sulla ricerca della soluzione migliore ("I will fight; will fight with my heart... A straight line exists between me and the good things/ I have found the line and its direction is known to me/ Absolute trust keeps me going in the right direction/ Any intrusion is met with a heart full of the good thing").
Anche i bruschi stop 'n' go di "I'm Not In Love" – forse l'episodio più rock del lotto – dissimulano un'angoscia latente nel canto stralunato di Byrne, che finisce quasi offuscato dal caos strumentale, rasserenandosi solo nella raggelante considerazione finale: "I believe that we don't need love/ There'll come a day when we won't need love". E anche laddove spiazza del tutto l'ascoltatore, trasportandolo in inaspettate praterie country, con mandolino, chitarra slide e batteria marziale a corredo (la tremolante ballata finale "The Big Country", ispirata da un verso di "Prairie Rose" dei Roxy Music), Byrne non rinuncia a una desolata riflessione sulla sua vita errante, venata di stanchezza e di rimpianti:
I wouldn't live there if you paid meQuasi paradossale, al cospetto di tanta ricchezza creativa, che la hit del disco sia una cover. Anche se nella fattispecie si tratta di una reinvenzione vera e propria: la "Take Me To The River" del reverendo Al Green viene infatti prosciugata del suo pathos soul e tramutata in un inquietante numero di gospel-wave slabbrata e meccanizzata, senza però rinunciare al suo hook ammiccante, enfatizzato dai singulti di Byrne e dalle linee di basso groovy. Incisa come singolo, volerà al n. 26 della Us Billboard Hot 100, trascinando l'album nella Top 30 sulle due sponde dell'Atlantico.
I couldn't live like that, no siree!
I couldn't do the things the way those people do
I couldn't live there if you paid me to
I'm tired of looking out the windows of the airplane
I'm tired of travelling, I want to be somewhere.
It's not even worth talking
About those people down there
La mano del "non musicista"
Non ha fatto tutto Eno anche in questo caso, insomma. Ma la mano del "non musicista" si può intuire in tante sfumature del disco: tra le brezze elettroniche e i riverberi del drumming di "Warning Sign", nei click e negli echi di "Stay Hungry", tra i sovratoni psichedelici di "Artists Only", negli staccati e nel flebile scintillio tra le linee del ritornello di "Take Me To The River", ma anche in filastrocche psyxties come "The Girls Want To Be With The Girls".
Una mano mai troppo invadente, tuttavia. Il gusto sonoro "discreto" di Eno, infatti, non minaccia mai di sovvertire l'equilibrio musicale degli Heads, né di alterarne lo spirito surreale ed eccentrico. Insomma, non una collaborazione occasionale, ma una vera fusione artistica, quella tra il produttore inglese e la band di New York, che proseguirà con risultati altrettanto ispirati in altri due album a firma Talking Heads ("Fear Of Music" del 1979 e "Remain In Light" del 1980) affinando ulteriormente questo nuovo concetto di funk psichedelico, che virerà poi in chiave avantgarde nella storica collaborazione a due Eno-Byrne di "My Life In The Bush Of Ghosts" (1981).
"Songs About Buildings And Food" resterà però la primizia originale del connubio, l'eccitazione in presa diretta del rendez-vous, oltre che la più spiazzante raccolta di canzoni mai scritte per smuovere chiappe e cervello in un colpo solo.
Fonte
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