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26/09/2020

Della dolce vita, l’incerta sorte

di Gianfranco Marelli

Raffaele Alberto Ventura, Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, Einaudi, Torino 2020, pp. 236, euro 14,00

Ricordate dove eravate e cosa vi apprestavate a compiere venerdì 13 marzo 2020 alle ore 18? Qual è il vostro alibi che potrebbe scagionarvi dall’aver partecipato al flash mob tutto italiano lanciato e diffuso attraverso l’hashtag “#cantachetipassa”, in cui si invitava a esporre dai balconi e dalle finestre il tricolore, nonché a esibirvi in un afflato canoro/musicale con strumenti, sirene, tamburelli e stoviglie prese a colpi per far rumore, ma anche con telefonini, tablet e casse audio accesi ad alto volume e rivolti verso la strada, ascoltando e facendo ascoltare la vostra hit parade anti-pandemia? E se anche obtorto collo vi siete sentiti costretti a partecipare alla kermesse nazional popolare, ma senza per questo intonare l’inno di Mameli, preferendo l’allegria, la nostalgia, la spensieratezza di “Azzurro”, “Abbracciame”, “Ma il cielo è sempre più blu”, perché non scegliere la canzone “Un senso” di Vasco Rossi, di certo più opportuna per rimarcare la progressiva e ineluttabile ricerca di un senso a quanto era accaduto, stava accadendo e sarebbe accaduto1?

Forse perché il Senso, la Causa, il Fondamento, l’Ordine, l’Origine in grado di comprendere e spiegare il diffondersi della pandemia da Covid-19 ci si aspettava fossero gli ‘esperti’ a comunicarlo; gli stessi esperti utilizzati come paravento dai politici per giustificare provvedimenti eccezionali tali da imbrigliare le normative procedurali di una democrazia, da intravvedervi il compiersi di una dittatura invisibile che sorregge un’apparente libertà di scelta: la democratura. Tant’è che il rimedio contro il terrore provocato dall’imprevedibilità del virus a non pochi è sembrato peggiore del male da curare, soprattutto perché chi avrebbe dovuto capirci qualcosa stentava a farlo, dimostrando di non saper utilizzare al meglio la propria competenza così da generare maggiore insicurezza, al punto da suscitare più dubbi che certezze sul come comportarsi, su cosa e a chi credere.

Della “competenza dei competenti”, l’ultimo libro di Raffaele Alberto Ventura – Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti – ci offre un’analisi puntuale e circostanziata in grado di oltrepassare gli aspetti cronachistici del lockdown per ripercorrere la genealogia dell’impellente bisogno di sicurezza che tanto ci attanaglia e che ci induce a consegnare le nostre vite nelle mani di chi possiede la “competenza”, senza riflettere sui modi e i metodi che ne validano il suo conseguimento; non tanto «per mettere in discussione che i competenti sono in grado di produrre dei saperi utili», quanto «per riflettere sullo scarto tra quello che agli esperti viene chiesto e quello che possono fare». Dopotutto se il rimedio è peggio del male, è il caso di riflettere se la nostra ricerca di sicurezza non finisca per «produrre continuamente nuova insicurezza, i nostri sforzi di mettere ordine nel caos a generare disordine»?

Non avvezzo a nessuna logica complottista e neppure solito a schematismi ideologici, Ventura anche in questo suo ultimo saggio ci presenta una realtà sociale dove il bisogno di sicurezza – «da intendersi nel duplice significato di essere al sicuro dai rischi ed essere sicuri di una certa verità: nel primo caso riduce l’incertezza di fronte alle minacce; nel secondo riduce l’incertezza nella comprensione del mondo» [p. 97] – è il sostrato di un modello di vita affermatosi a seguito del benessere economico raggiunto nei paesi occidentali grazie allo sviluppo delle condizioni moderne di produzione che hanno consolidato la separazione fra dirigenti ed esecutori, al punto da delegare ai primi il compito di assicurare ai secondi una sopravvivenza nell’agio di un consumismo foriero di felicità; un do ut des attraverso il quale la sicurezza è stato il valore di scambio predominante per il reciproco interesse, dal momento che «se ogni rapporto di potere è in fondo uno scambio, e ogni scambio è in fondo un rapporto di potere, allora questo rapporto sussiste solo finché è vantaggioso per entrambe le parti» [p. 71].

Forte delle precedenti analisi illustrate ne la Teoria della classe disagiata [2017] e ne La guerra di tutti [2019], Raffaele Alberto Ventura con Radical choc [2020] trae le conseguenze del progressivo decadimento morale, culturale – in una parola valoriale – che ha investito le società occidentali da quando la promessa ideologica di garantire benessere economico e sicurezza per tutti non solo si è mostrata fallace, ma ha condotto l’intera umanità di fronte al rischio del progressivo, lento ma ineluttabile, incepparsi del sistema tecno-burocratico che nel tentativo di correggere gli errori causati dalla rigidità dei meccanismi di funzionamento preposti a garantire stabilità, efficienza e prosperità alla società, inevitabilmente ne genera di nuovi. Soprattutto da quando l’abnorme crescita del ceto medio istruito si è mostrata troppo dispendiosa per i costi di riproduzione della “classe dei competenti”, la classe che «preleva una quota della ricchezza totale in cambio di prestazioni cognitive specializzate» a fronte dei benefici elargiti all’intera comunità sociale. Infatti il suo rapporto di scambio con il resto della società, non è più in grado di garantire benessere e sicurezza, perché è una classe troppo numerosa, troppo esosa, e soprattutto poco efficiente.

Tant’è che il diffuso sospetto generalizzato sulle competenze dei competenti e sulle Verità/Mondo da loro propagandate pone sempre più in dubbio se per davvero «Il competente è una macchina che riduce l’incertezza e garantisce sicurezza» [p. 64]. Tanto più se la sicurezza nel condividere una stessa verità/mondo non è più posta sotto l’egida di un universalismo culturale in grado di scongiurare le tentazioni populiste/nazionaliste foriere di una catastrofica guerra di tutti, al punto da mettere in pericolo la convivenza civile. Perché il problema – chiosa l’autore – non è conoscere la verità, ma nel capire come sia possibile coesistere se non si condivide la stessa realtà in una società del sospetto generalizzato, dal momento che ognuno dispone della propria verità forgiata su piattaforme mediatiche monopoliste, dove l’eccesso di conoscenza, impossibile da padroneggiare, produce fake news spacciate per post-verità; post-verità determinate da un sovraccarico cognitivo [information overload] che conduce o alla paralisi, oppure a prendere le decisioni più semplici, non per ignoranza ma per conveniente stupidità.

Sennonché, in una società del sospetto generalizzato in cui nessuna verità/mondo fa più da collante, diviene problematico capire come sia possibile la convivenza se sussiste la separazione fra le singole esperienze; a meno di unirle sotto forma di spettacolo che, come insegna Guy Debord, non è che il linguaggio comune della separazione che «unisce il separato, ma lo riunisce in quanto separato»2 . Pertanto lo spettacolo di Debord – chiosa Ventura – è l’immagine tragica della società, «una burocratizzazione della produzione e del consumo, una mediatizzazione dei rapporti sociali ed economici» [p.78] che ricompone la realtà divisa tramite l’affermarsi di un’organizzazione tecno-burocratica – la Megamacchina di Mumford, in cui gli umani sono gli ingranaggi preposti al funzionamento – inglobante tutto ciò che era direttamente vissuto con lo scopo di riprodurlo al fine di prevenirne il divenire incerto e garantirne la sicurezza di un futuro preordinato. Sennonché, riprodurre l’intera vita quotidiana e riorganizzarla al solo scopo di ridurne i rischi connessi al divenire della vita stessa, comporta «amministrare sempre più spazi e aspetti dell’esistenza, conoscere sempre piú fatti e rischi del mondo, raccontare in modo sempre più convincente lo scambio su cui si basa l’equilibrio sociale» [p. 192], in una «società sempre piú dipendente da una tecnostruttura altamente qualificata, che la società stessa riesce a finanziare e legittimare sempre meno» [p. 225].

Tecnostruttura, il cui vero incubo – ed è questo il nocciolo dell’analisi di Ventura – «non è la sua inscalfibile razionalità, ma sono le venature di follia che la percorrono» [p. 144]; fra tutte, preferire di sopra-vivere nel benessere confortevole e sicuro della “dolce vita” all’interno di una gabbia d’acciaio burocratica, piuttosto che accettare la “incerta sorte” di un divenire ipotetico nella complessa e problematica coesistenza con la natura. Preferenza che finge di ignorare quanto la messa in sicurezza da tutti i rischi cui sono sottoposti i nostri corpi vivi – fino ad ingabbiarli nella Rete e sostituirli con degli avatar immaginifici – sia un rischio ben più grave, poiché obbliga i nostri corpi a non-vivere il rischio di vivere; perché, «se è vero che ci sono rischi esiziali che non possiamo permetterci di correre, c’è anche un rischio nel volerci proteggere da tutti i rischi» [p 21]. Un rischio che raggruma tutti i rischi determinati proprio dalla separazione fra la realtà e la sua rappresentazione spettacolare, al punto che – scrive Raffaele Alberto Ventura nell’introduzione alla sua analisi scioccante sul declino della competenza dei competenti – «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di rischi»3.

La promessa di vivere riducendo i rischi congeniti della vita si è dunque dimostrata un impegno che la classe dei competenti fatica a mantenere, al punto da decretarne l’impellente rovina; rovina che l’autore, sin dall’introduzione, illustra attraverso tre fattori che hanno causato l’ascesa e la caduta dei competenti, determinando il consequenziale effetto “populista”.
Il primo è quello di produzione della sicurezza, che definisce la vocazione fondamentale del progetto moderno nel duplice senso di riduzione del rischio attraverso l’intervento tecnico-normativo e di riduzione dell’incertezza attraverso il sapere scientifico. Il secondo concetto è quello di rendimenti decrescenti della competenza, che evoca la tendenza della sfera di produzione della sicurezza a espandersi al di là della sua capacità di ottenere risultati all’altezza degli investimenti collettivi, producendo cosí uno stiramento. ll terzo concetto è quello di disrupzione della ragione, che caratterizza la reazione, «populista» fin dai tempi di Erasmo e di Rabelais, allo stiramento del paradigma di produzione della sicurezza. [p. VIII]
Questi tre fattori, Ventura li utilizza come cartina di tornasole per misurare il grado di radicalità nello scenario attuale, dove il populismo alla Trump si contrappone alla presunta «cospirazione della élite» e alla sua sicumera che non esistono alternative credibili alla gestione della Tecnostruttura da parte dei competenti, quando – e il recente lockdown sembra abbia portato in chiara evidenza – è evidente la crisi della élite «sempre meno esclusiva di competenti sempre meno competenti» [p. 164]; soprattutto a seguito del fatto che la presunta selezione della élite in base a criteri meritocratici si è mostrata non soltanto disattesa, ma per lo più inefficace, al punto da diffondere il disagio, la sofferenza, la rabbia fra i tanti esclusi, nonostante l’impegno profuso fino all’esaurimento di tutte le loro risorse economiche e culturali accumulate per la società e per se stessi.

Tutto ciò ha determinato una crisi che inevitabilmente produce scarti «di tipo sia materiale (rifiuti del processo di produzione), sia umano (esclusi dal processo di riproduzione) e procedurale (effetti di secondo ordine iatrogeni)» [p. 224], finendo per alimentare quello che Ventura chiama la disrupzione della ragione, ovvero la rottura [disruption] fra chi è stato assorbito dalla Tecnostruttura e artatamente difende i propri esclusivi privilegi da sostituirli agli interesse della collettività4 , e coloro che ne sono stati esclusi, la cui delusione di non poter raggiungere le tanto agognate aspettative per le quali sono stati formati li conduce a rimpolpare la sempre più ampia “classe dei disagiati”, spingendoli nelle braccia del populismo: «una reazione spontanea ai rendimenti decrescenti della classe competente». Ma, per l’autore di Radical choc, spiegare le motivazioni alla base del populismo è anzitutto comprenderne la logica razionale che le sorregge; infatti, per capire quello che stiamo vivendo «non possiamo accontentarci di analisi prodotte all’interno dei paradigmi dominanti, perché questi sono allo stesso tempo giudice e parte in causa. È necessario prendere sul serio la critica radicale rivolta al sistema della competenza, apparentemente “irrazionale”, per chiederci se la sua razionalità non si situi a un altro livello» [p. 205], incrinando a tal punto la fiducia e la speranza nel sistema economico neoliberista da metterne in discussione i valori universalistici, affermatisi con la massificazione dei produttori/consumatori all’interno del mercato globale.

Ovviamente non si può non essere d’accordo con la teoria dei rendimenti decrescenti della classe competente, che – come la caduta del saggio di profitto di Marx – individua il punto di stiramento della macchina tecnoburocratica nel replicare linearmente le proprie performance dal momento che anche il progresso ha una sua logica intrinseca che nessuna modernità è in grado di nascondere. Del resto, se non si è più obbligati a credere a ciò che non si vede [religione], ma a credere ciò che si vede [spettacolo], è necessario razionalizzare il visibile fino a renderlo identico al reale; e per renderlo ancor più “reale” del reale, lo si matematizza all’interno di uno spazio geografico e virtuale in cui ogni dato è dato per certo, inconfutabile, ma soprattutto identificativo di ciò che deve essere creduto veritiero. Siamo però così sicuri che tutto ciò che si vede è reale, o meglio che il reale è tutto ciò che si vede nel campo visivo predefinito dalla tecnostruttura?

Certo, Ventura lo chiarisce in modo esaustivo: il bisogno di sicurezza determina il fatto che bisogna eliminare il più possibile l’imprevisto, e per farlo si costruisce il reale in funzione del bisogno da soddisfare; bisogno da soddisfare che, però, da bisogno di una sicurezza collettiva [fine] viene trasformato in mezzo atto a garantire la tenuta della Tecnostruttura e a legittimarne il potere decisionale; lo abbiamo amaramente constatato nel corso del lockdown, dove la finalità di mettere in sicurezza la salute di tutti si è trasformata in un mezzo per garantire il prosieguo di una società ultra liberista, messa in ginocchio dal Covid-19 ma pronta a ritornare al più presto alla situazione pre-pandemica. Anche a costo di un temporaneo «“congelamento” tecnocratoriale della democrazia liberale», giustificato in forza dell’eccezionalità della situazione; un sacrificio enorme, ma invocato come urgente e necessario per uscire dallo stallo in cui si trova la Megamacchina. Dopotutto – conclude Ventura con la sua solita dose pessimista – «la modernizzazione era una condizione necessaria della democrazia, ma non sufficiente: a questo punto della nostra storia è opportuno riflettere sulla possibilità che la prima sopravviva alla seconda – cioè che si apra una fase di modernizzazione senza democrazia». [p. 229]

C’è però un altro aspetto che il ragionamento di Raffaele Alberto Ventura mette in secondo piano e che invece potrebbe segnare una svolta all’inevitabile catastrofe che ci accompagna. Vale a dire che ciò che non appare sul piano della realtà visiva – a partire dai nostri corpi obsceni, fuori di scena – non è trattabile, perché «è trattabile solo ciò che è trasportabile. Ciò che non si può sradicare resterà, per definizione, fuori dal campo» [Michel de Certeau]; sennonché, ciò che rimane “fuori dal campo” potrebbe causare un rumore di fondo in grado di disturbare la trasmissione degli ordini valoriali che la Tecnostruttura impone per non essere considerati scarti della società. Certamente, se il rumore di fondo si trasforma in caciara ciò favorirà la nascita del populismo; ma è l’unica «reazione ai rendimenti decrescenti della classe competente»? E se il populismo non fosse altro che un dato matematicamente trattabile, cioè trasportabile all’interno del campo visivo e pertanto trasformabile a piacimento, non è invece possibile intravedere un altro scarto prodotto dal sistema, non riciclabile se non addirittura irriducibile al sistema5? Ventura nel suo saggio non ne fa cenno, anche se la Tecnostruttura, a furia di subire continui choc, non potrà continuare a darci l’illusione di essere in grado di limitare l’incertezza del mondo, poiché «tale illusione è diventata oggi fin troppo costosa. In certi casi, lanciare una moneta potrebbe risultare una pratica non molto piú imprecisa che richiedere il parere di un esperto. E ci costerebbe molto meno» [p. 231].

P.S. Dov’ero, io, venerdì 13 marzo 2020 alle ore 18? Sì, c’ero anch’io sul balcone a canticchiare … avete in mente … El me indiriss di Jannacci … sì? … quando … verso la fine …«Pensarci bene, chissà che fine ann fatt / chî mé cumpagn balor che voreven cambià el mund / E poi la vita … eh la vita, sciuri, la vita … / la vita la fa quel che la voeur / … chi va … chi viene … c’è chi invece … el moeur» (qui).

1) Voglio trovare un senso a questa sera / Anche se questa sera un senso non ce l’ha / Voglio trovare un senso a questa vita / Anche se questa vita un senso non ce l’ha / Voglio trovare un senso a questa storia / Anche se questa storia un senso non ce l’ha / Voglio trovare un senso a questa voglia / Anche se questa voglia un senso non ce l’ha

2) Guy Debord, La società dello spettacolo, I “La separazione compiuta”, § 30

3) Esplicito détournement dell’incipit de La società dello spettacolo in cui Guy Debord stesso aveva rimodellato le prime righe de Il Capitale di Marx: «Tutta la vita delle società moderne in cui predominano le condizioni attuali di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di merci»… più precisamente di «spettacoli»

4) «Questo approccio iatrogeno alla sicurezza rappresenta un caso da manuale di quella “sostituzione dei fini” denunciata, fin dai primi anni del Novecento, da Robert Michels nei suoi studi sulle organizzazioni politiche: secondo il sociologo, la sostituzione si compie quando “l’organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a se stessa”»[p.117]

5)Si veda il mio «L’irriducibile scarto e la miracolosa utopia», in Altraparola, nn. 2-3, 2019, qui.

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