È fine agosto quando i principali quotidiani del Paese lanciano la
notizia-bomba dell’estate: il presidente (“dittatore”, lo chiamano loro)
della Corea del Nord, Kim Jong-un, sarebbe in coma, prossimo alla
morte: la fonte – si badi bene – è la Corea del Sud, quindi quanto di
più attendibile in materia. Infatti passano pochi giorni e il baldo Kim
ricompare in pubblico, addirittura fumando una sigaretta, come per dire:
“Alla faccia di chi mi vuole male”. «Repubblica», anziché vergognarsi
(sentimento che presuppone, però, due variabili rare: dignità e
consapevolezza) se la cava ridacchiando: “Kim è vivo, ma è la Corea del
Nord a non stare tanto bene”.
Invece
l’Italia scoppia di salute, evidentemente: una crisi politica senza
fine, con partiti e presunti leader ormai totalmente delegittimati anche
dai “loro” elettorati, un establishment economico che si continua ad
affidare a governi sintetici (capaci di dividersi anche sulle riforme
costituzionali, che in un qualsiasi Paese qualche importanza ce
l’avrebbero), pur di non consegnare il governo alle destre, come pare
che voglia se non la maggioranza della cittadinanza, quantomeno la sua
parte più chiassosa. Poi c’è la crisi economica in via di progressiva
accentuazione, poiché al suo carattere sistemico ha aggiunto la tempesta
del Covid, capace di cancellare decine di migliaia di quei lavori del
terziario informale, poco qualificato e scarsamente remunerato che, è
bene ricordare, è stato il sotto-settore capace di tenere su una linea
decente la domanda di lavoro nell’Italia degli ultimi decenni: un lavoro
sotto-qualificato, usurante, non tutelato e, soprattutto, svilito
proprio perché ‘lavoro’, in un Paese che educa a “cercare la svolta”,
invece che costruire le premesse per far lavorare meno, ma tutti e
tutte. Facile immaginare, a questo punto, come la toppa del divieto di
licenziamento, peraltro parziale e già annunciata di morte certa, abbia
costituito una boccata di ossigeno solo limitata. C’è poi la crisi del
welfare, che variabili come il Covid accelerano, ma non inventano certo
da zero: c’era bisogno della pandemia per scoprire che i tagli alla
sanità pubblica fanno vittime soprattutto tra i ceti subalterni e gli
individui più deboli? C’era bisogno del virus per scoprire che le
classi-pollaio, dentro aule fatiscenti, a cui sono costrette le scuole
italiane trasformano la fase dell’istruzione in una specie di
parcheggio, nella migliore delle ipotesi? È la crisi culturale, cioè la
decadenza pre-politica del livello di civiltà di un Paese, in cui si
respinge persino l’istinto primordiale di cercare di aiutare una persona
che annega, in cui una ragazza diventa preda da caccia che il
singolo maschio o il branco esibiscono come trofeo estivo, in cui un
individuo di colore – soprattutto se impossibilitato a difendersi
adeguatamente – è il comodo sfogo della violenza della piccola borghesia
con ascendente coatto.
Arriviamo all’uccisione di Willy Monteiro Duarte, a Colleferro, e ne
parliamo – nella tragicità dell’evento – come l’eterno ritorno del già
visto e già conosciuto, ma non abbastanza combattuto, evidentemente.
Ricapitoliamo: in una rissa da movida, nasi impolverati e menti
annebbiate, l’obiettivo su cui magicamente convergono le violenze più
strutturate è rappresentato dall’unico astante – intervenuto solo nel
sempre pericoloso ruolo di ‘paciere’ – che ha un “difetto di
fabbricazione”: è nero. Quella sera almeno trenta persone erano presenti
nei giardinetti spelacchiati di Colleferro, ma l’unico che ha subito
una violenza concorde e coordinata è stato un ragazzo di colore. Sarà un
caso? Era l’unico fisicamente soccombente, tra i tanti partecipanti?
L’unico su cui “conveniva” accanirsi? Oppure, semplicemente, una società
culturalmente e politicamente subalterna come la nostra ha recepito il
messaggio che proviene dagli Stati Uniti: gli individui di colore sono
meno tutelati dalla legge e dalla comunità, quindi i reati commessi a
loro danno sono sostanzialmente depenalizzati. Non servono facili
sociologismi per apprendere una lezione del genere: è sufficiente
l’osservazione empirica di quello che succede ogni giorno intorno a noi,
a Roma come a Colleferro e Artena. Qualsiasi controllo di polizia,
qualsiasi interlocuzione tra un bianco e una persona di colore, persino
qualsiasi ingresso di quest’ultimo in un negozio, nelle vesti di
potenziale cliente, generano un comportamento differenziato, rispetto
all’omologo caso di un bianco. Per non parlare, poi, dei fermi di
polizia e dei sequestri di merce contraffatta o, come ha dimostrato la
caserma di Piacenza, di droga. Fin qui siamo all’individuazione
dell’obiettivo, da parte della rabbia allucinata degli aggressori.
Arriviamo al dopo: in seguito all’identificazione dei presunti colpevoli
(che si confermano appartenere a una piccola borghesia di commercianti
ed esercenti, con ambizione di scalata economica, pure mediante l’aiuto
dei soliti “impicci”) si generano dinamiche che, anche in questo caso,
conosciamo a memoria. Il gruppo cameratesco – all’apparenza così unito –
si sfalda e volano accuse reciproche, almeno fin quando gli avvocati –
qui pure reperiti tra i migliori della (piccola) piazza – non consigliano
il silenzio. L’aggressione non viene rivendicata – anzi, convintamente
negata (probabilmente non poco acume difensivo) – e la matrice razzista
esplicitamente negata dagli stessi inquirenti. Inizia progressivamente,
inoltre, ad opera dei parenti, la narrazione delle difficoltà economiche
degli indagati e della loro presunta appartenenza alle classi meno
agiate: nonostante l’evidenza di ville, villette e accessori di lusso
(oltre alla parcella degli avvocati più costosi del cucuzzaro), si cerca
di avvicinare gli aggressori al cosiddetto “popolo”, quasi
legittimando, in questo, il pestaggio e l’omicidio. Non si tratta,
evidentemente, del classico “poraccismo” – di cui peraltro si è soliti
accusare la sinistra – quanto della volontà di inserirsi nel filone del
populismo: una “chiamata al Masaniello” di turno che funziona, in questo
caso, come “licenza di uccidere”.
Ai quattro disperati di provincia è andata male: questa aggressione,
rispetto alle decine che ci sono state contro individui etichettati come
“diversi”, ha da subito goduto di un’attenzione mediatica che rema
contro la volontà di trattare con “riserbo” il caso, affidandolo alla
compiacenza dei tribunali locali. Pur nell’affrettarsi a scartare
l’aggravante dell’odio razziale – nell’evidente intenzione di
depoliticizzare l’accaduto – i giornalisti hanno creato l’onda mediatica
e l’hanno cavalcata con attenzione. Perché? In quanto il caso era
coerente (ripetiamo: una volta che fosse stata espulsa ogni possibile
politicità della vicenda) con almeno due linee narrative create
dall’industria culturale negli ultimi anni: da un lato, la pietà verso
la vittima indifesa e che non costituisce una minaccia (qui ha giocato
un ruolo importante il fragoroso e disarmante sorriso delle foto
scattate mentre Willy era a scuola, diffuse subito dopo la sua morte).
Dall’altro, la retorica, in una società sempre più anestetizzata al
conflitto, contro le forme di violenza strutturate negli sport di
combattimento, a meno che non si tratti della fattispecie edulcorata del
Vip di turno che indossa i guantoni e si agita, fronte al sacco, a
favore di fotografo: qui, inevitabilmente, sono risultate
controproducenti le immagini dei fratelli Bianchi in posa aggressiva. Il
resto? Il resto poco ci importa: un giovane proletario è morto e
nessuno lo ripoterà indietro, come si suole dire. Gli incitamenti social
in favore degli imputati, i litri di bile travasati nella Rete, i goffi
tentativi di conservare il razzismo di Stato senza neanche dover
rinunciare alle sue ricadute sociali (il quotidiano “Libero” titolava
disperatamente, lo scorso 9 settembre: “Gli assassini del ragazzo non
sono di destra”, ma non giustificava in alcun modo il suo scoop), la
presenza mediatica del premier ai funerali di Willy non rappresentano
più una novità, ma sono come la carta da parati nelle case degli anni
Settanta.
Ci siano risparmiate, invece (soprattutto, siano risparmiate ai
parenti di Willy e ai compagn* che vivono su quel territorio), la pena e
la rabbia provocate dal copione riduzionista e giustificazionista,
questo sì senza vergogna: si va dal “alla fine, hanno solo ucciso un
extracomunitario” (che pare sia stato pronunciato dai parenti degli
indagati a cadavere ancora caldo) fino ai sermoni progressisti sul
disagio delle periferie abbandonate oppure della cinta urbana delle
metropoli ridotta a enorme dormitorio. Preferiamo tenerci, a questo
punto, l’indignazione proletaria di quella ragazza, “seconda
generazione”, figlia di immigrati, che rompe l’omertà da banda di paese e
testimonia agli inquirenti, bava alla bocca, quello che ha visto. Nella
nostra incapacità (politica, sociale, “militare”) di ripulire i
quartieri dal modello del coatto con il portafoglio gonfio e la pretesa
di difendere la superiorità dei bianchi, oltre che i confini del
paesello e del rione, ci teniamo stretta quell’indignazione e quella
rabbia. Non servirà a stabilire la verità giudiziaria, sulla quale è
impossibile riporre fiducia, ma forse a ricordarci che la sveglia è
suonata da un pezzo.
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