Le elezioni nord-americane del prossimo 3 novembre
avvengono in un periodo di crisi sociale montante
– quasi da guerra civile strisciante – accelerata dalla disastrosa gestione
dell’emergenza pandemica.
Una campagna presidenziale “di piombo”, l’avevamo definita circa un mese fa.
Trump non ha ancora detto esplicitamente se accetterà o meno i risultati che usciranno dalle urne, lasciando aperta la possibilità di un conflitto sulla legittimità delle stesse elezioni che non trova riscontro nella storia recente.
Il New York Times, intanto, a poco più di un mese dalla consultazione si gioca la carta dello scoop, cominciando a rivelare quanto l’attuale presidente abbia pagato di tasse – di fatto ingannando nel corso degli anni il fisco e recentemente infischiandosene dei potenziali conflitti d’interessi tra la sua attività imprenditoriale ed il suo ruolo istituzionale – cercando di minarne la credibilità di fronte agli elettori “indecisi”.
The Orange Man smentisce seccamente il contenuto delle rivelazioni, e la sua base di consenso sembra essere rassicurata dall’avere imposto il piano del dibattito politico su tutti i fronti, a differenza del suo pallido sfidante, capace finora solo di “giocare di rimessa”, senza mai veramente incalzare il proprio avversario, neanche quando l’inquilino della Casa Bianca ha coperto gli omicidi politici di milizie dell’alt-right contro i propri avversari.
Qui proponiamo un inquadramento delle politiche di “sleepy Joe”, contestualizzate all’interno della traiettorie scelte dai democratici, con la traduzione di un contributo di Roger G. Harris.
Fin dall’inizio Biden era apparso come il “cavallo zoppo” su cui tutto l’apparato democratico – compresa la sua ipotetica “ala sinistra” – è stato costretto a scommettere per sbarrare la strada al socialista Sanders dopo una serie di notevoli exploit alle primarie.
La fortissima atomizzazione della società statunitense, ed un sistema di voto quasi censitario, crea una disgregazione sociale che aiuta i due fronti politici a solidificare blocchi elettorali divisi lungo linee identitarie.
Da una parte, Trump beneficia di decenni di Southern Strategy, passando all'incasso rivendicando il suprematismo bianco come cifra profonda della cultura Wasp e dello stile di vita americano, senza però riuscire a proporre alternative concrete alle condizioni del proletariato “bianco”, se non quella di un continuo odio sociale nei confronti della “minoranza” afro-americana e dei migranti latino-americani.
Biden ha invece dalla sua il voto degli afro-americani e dei latinos, quest’ultimi destinati in prospettiva a crescere come peso elettorale, uno degli zoccoli duri – insieme ai millenials ed ai “very liberal” – dell’outsider Bernie Sanders che sta convintamente appoggiando Biden.
Questi ultimi sono un chiaro anello debole all’interno della frammentazione multiculturale del paese, per le proprie condizioni economiche, la violenza sistematica della polizia nei loro confronti e la loro vulnerabilità davanti Pandemia, ma anche per il proprio rapporto diretto con l’imperialismo.
Il tentato colpo di stato di Guaidò in Venezuela, il riuscito golpe in Bolivia, la conversione sulla Via di Damasco di Moreno in Ecuador e l’onnipresente uribismo in Colombia, sono tutti segni di una rinnovata politica aggressiva in America Latina da parte dell’amministrazione Trump. Biden si ritrova così uno scenario di guerra aperta verso tutti quei paesi da cui proviene una parte di blocco sociale che deve essere coinvolto all’interno dell’establishment democratico.
Una situazione simile, mutatis mutandis, a quella in cui si trovarono i democratici nei confronti degli afro-americani quando montava il movimento dei diritti civili in patria ed il processo di de-coloniazzazione in Africa. Costretti loro malgrado a far balenare l’idea dell’integrazione e di rapporti di cooperazione con i Paesi africani usciti dal giogo coloniale.
Da questo punto di vista, un tentativo di pacificazione sociale è stato loro posto su un piatto d’argento proprio da Trump: l’accordo USMCA, che il primo luglio ha sostituito il NAFTA, storica istituzione imperialista, simile al rapporto Germania/UE, prevede l’aumento salariale orario per i dipendenti messicani del settore automobilistico, nonché un maggiore rafforzamento dei sindacati concertativi del paese.
Questo modello collaborazionista in chiave socialdemocratica, già proposto dal presidente messicano Lopez Obrador, in chiara controtendenza con l’evolversi del capitalismo attuale, meno favorevole al profitto e quindi ad un quasi impossibile “nuovo patto capitale-lavoro”, potrebbe essere riproposto da una possibile amministrazione Biden nel resto del continente, al fine di ridurre l’immigrazione e, al tempo stesso, mettersi in buona luce con i latinos in casa propria.
Non si sta ovviamente cercando di fsre distinzioni artificiose tra un imperialismo “buono” e uno “cattivo”: l’opzione strategica è la stessa, ma cambia l’articolazione tattica sul come coniugare la governance delle contraddizioni sociali all’interno e la ripresa del controllo in quello che gli USA hanno sempre considerato il proprio “cortile di casa”.
Lo impone la re-internalizzazione delle filiere produttive nelle Americhe, il controllo delle risorse, in particolare quelle indispensabili per essere competitivi nella guerra tecnologica, la necessità di respingere ogni avance russa e cinese sull’America Latina.
Tutto questo, considerando l’ampio spettro di opzioni militari che Biden potrebbe usare in ogni caso, sembra più il consolidato copione tra good cop e bad cop che una vera alternativa.
Di conseguenza, la rappresentanza politica delle classi subalterne si pone di nuovo in questione, in quanto Trump e Biden concordano completamente sulle misure anti-popolari per quel che riguarda la sanità privata e la salvaguardia della finanza.
Come già accennato all’inizio, la frammentazione sociale apre al coinvolgimento delle masse in opzioni politiche chiaramente reazionarie, blindate dentro un “bipolarismo perfetto” dove tertium non datur, come dimostra la parabola di Sanders alle primarie e il suo reiterato appoggio ad un membro dell’establishment democratico: quattro anni fa la Clinton, oggi Biden.
Quello che potremmo chiamare “ricomposizione di classe” – sui temi sociali, di razza e genere – all’interno di uno spazio politico alieno dai due establishment partitici repubblicano e democratico (tanto formalmente antitetici, quanto sostanzialmente complementari) è quindi l’unico strumento che può portare effettivamente ad un avanzamento rispetto all’impasse prodotta in chi comunque, tra mille limiti e contraddizioni – come il movimento che ha sostenuto il senatore socialista del Vermont – ha cercato di dare voce ai “senza voce” della società nord-americana.
Un “nuovo movimento operaio sembra andare in questa direzione”.
Una percorso di non facile realizzazione tra “il martello” del fascismo americano tout court, rappresentato da Donald Trump, e l’incudine dell’establishment democratico legato a doppio filo alle élite che l’hanno lautamente finanziato.
Certo è che nel contesto americano questo è un lavoro di lunga durata, e anche difficile, in quanto attraversa secoli di discriminazioni e violenze. Ma se le proteste scoppiate dopo la morte di George Floyd sono un’indicazione, l’alternativa non è impossibile come sembrava prima.
Buona lettura.
Una campagna presidenziale “di piombo”, l’avevamo definita circa un mese fa.
Trump non ha ancora detto esplicitamente se accetterà o meno i risultati che usciranno dalle urne, lasciando aperta la possibilità di un conflitto sulla legittimità delle stesse elezioni che non trova riscontro nella storia recente.
Il New York Times, intanto, a poco più di un mese dalla consultazione si gioca la carta dello scoop, cominciando a rivelare quanto l’attuale presidente abbia pagato di tasse – di fatto ingannando nel corso degli anni il fisco e recentemente infischiandosene dei potenziali conflitti d’interessi tra la sua attività imprenditoriale ed il suo ruolo istituzionale – cercando di minarne la credibilità di fronte agli elettori “indecisi”.
The Orange Man smentisce seccamente il contenuto delle rivelazioni, e la sua base di consenso sembra essere rassicurata dall’avere imposto il piano del dibattito politico su tutti i fronti, a differenza del suo pallido sfidante, capace finora solo di “giocare di rimessa”, senza mai veramente incalzare il proprio avversario, neanche quando l’inquilino della Casa Bianca ha coperto gli omicidi politici di milizie dell’alt-right contro i propri avversari.
Qui proponiamo un inquadramento delle politiche di “sleepy Joe”, contestualizzate all’interno della traiettorie scelte dai democratici, con la traduzione di un contributo di Roger G. Harris.
Fin dall’inizio Biden era apparso come il “cavallo zoppo” su cui tutto l’apparato democratico – compresa la sua ipotetica “ala sinistra” – è stato costretto a scommettere per sbarrare la strada al socialista Sanders dopo una serie di notevoli exploit alle primarie.
La fortissima atomizzazione della società statunitense, ed un sistema di voto quasi censitario, crea una disgregazione sociale che aiuta i due fronti politici a solidificare blocchi elettorali divisi lungo linee identitarie.
Da una parte, Trump beneficia di decenni di Southern Strategy, passando all'incasso rivendicando il suprematismo bianco come cifra profonda della cultura Wasp e dello stile di vita americano, senza però riuscire a proporre alternative concrete alle condizioni del proletariato “bianco”, se non quella di un continuo odio sociale nei confronti della “minoranza” afro-americana e dei migranti latino-americani.
Biden ha invece dalla sua il voto degli afro-americani e dei latinos, quest’ultimi destinati in prospettiva a crescere come peso elettorale, uno degli zoccoli duri – insieme ai millenials ed ai “very liberal” – dell’outsider Bernie Sanders che sta convintamente appoggiando Biden.
Questi ultimi sono un chiaro anello debole all’interno della frammentazione multiculturale del paese, per le proprie condizioni economiche, la violenza sistematica della polizia nei loro confronti e la loro vulnerabilità davanti Pandemia, ma anche per il proprio rapporto diretto con l’imperialismo.
Il tentato colpo di stato di Guaidò in Venezuela, il riuscito golpe in Bolivia, la conversione sulla Via di Damasco di Moreno in Ecuador e l’onnipresente uribismo in Colombia, sono tutti segni di una rinnovata politica aggressiva in America Latina da parte dell’amministrazione Trump. Biden si ritrova così uno scenario di guerra aperta verso tutti quei paesi da cui proviene una parte di blocco sociale che deve essere coinvolto all’interno dell’establishment democratico.
Una situazione simile, mutatis mutandis, a quella in cui si trovarono i democratici nei confronti degli afro-americani quando montava il movimento dei diritti civili in patria ed il processo di de-coloniazzazione in Africa. Costretti loro malgrado a far balenare l’idea dell’integrazione e di rapporti di cooperazione con i Paesi africani usciti dal giogo coloniale.
Da questo punto di vista, un tentativo di pacificazione sociale è stato loro posto su un piatto d’argento proprio da Trump: l’accordo USMCA, che il primo luglio ha sostituito il NAFTA, storica istituzione imperialista, simile al rapporto Germania/UE, prevede l’aumento salariale orario per i dipendenti messicani del settore automobilistico, nonché un maggiore rafforzamento dei sindacati concertativi del paese.
Questo modello collaborazionista in chiave socialdemocratica, già proposto dal presidente messicano Lopez Obrador, in chiara controtendenza con l’evolversi del capitalismo attuale, meno favorevole al profitto e quindi ad un quasi impossibile “nuovo patto capitale-lavoro”, potrebbe essere riproposto da una possibile amministrazione Biden nel resto del continente, al fine di ridurre l’immigrazione e, al tempo stesso, mettersi in buona luce con i latinos in casa propria.
Non si sta ovviamente cercando di fsre distinzioni artificiose tra un imperialismo “buono” e uno “cattivo”: l’opzione strategica è la stessa, ma cambia l’articolazione tattica sul come coniugare la governance delle contraddizioni sociali all’interno e la ripresa del controllo in quello che gli USA hanno sempre considerato il proprio “cortile di casa”.
Lo impone la re-internalizzazione delle filiere produttive nelle Americhe, il controllo delle risorse, in particolare quelle indispensabili per essere competitivi nella guerra tecnologica, la necessità di respingere ogni avance russa e cinese sull’America Latina.
Tutto questo, considerando l’ampio spettro di opzioni militari che Biden potrebbe usare in ogni caso, sembra più il consolidato copione tra good cop e bad cop che una vera alternativa.
Di conseguenza, la rappresentanza politica delle classi subalterne si pone di nuovo in questione, in quanto Trump e Biden concordano completamente sulle misure anti-popolari per quel che riguarda la sanità privata e la salvaguardia della finanza.
Come già accennato all’inizio, la frammentazione sociale apre al coinvolgimento delle masse in opzioni politiche chiaramente reazionarie, blindate dentro un “bipolarismo perfetto” dove tertium non datur, come dimostra la parabola di Sanders alle primarie e il suo reiterato appoggio ad un membro dell’establishment democratico: quattro anni fa la Clinton, oggi Biden.
Quello che potremmo chiamare “ricomposizione di classe” – sui temi sociali, di razza e genere – all’interno di uno spazio politico alieno dai due establishment partitici repubblicano e democratico (tanto formalmente antitetici, quanto sostanzialmente complementari) è quindi l’unico strumento che può portare effettivamente ad un avanzamento rispetto all’impasse prodotta in chi comunque, tra mille limiti e contraddizioni – come il movimento che ha sostenuto il senatore socialista del Vermont – ha cercato di dare voce ai “senza voce” della società nord-americana.
Un “nuovo movimento operaio sembra andare in questa direzione”.
Una percorso di non facile realizzazione tra “il martello” del fascismo americano tout court, rappresentato da Donald Trump, e l’incudine dell’establishment democratico legato a doppio filo alle élite che l’hanno lautamente finanziato.
Certo è che nel contesto americano questo è un lavoro di lunga durata, e anche difficile, in quanto attraversa secoli di discriminazioni e violenze. Ma se le proteste scoppiate dopo la morte di George Floyd sono un’indicazione, l’alternativa non è impossibile come sembrava prima.
Buona lettura.
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Com’è palesemente ovvio, gli Stati Uniti sono nei guai. Ondate di calore e incendi provocati dal cambiamento climatico mettono alle strette il paese. Un’economia già vacillante, con contraddizioni profonde, non può far altro che schiantarsi visto che lo shock prodotto dalla pandemia ha imposto vari livelli di tagli alla spesa pubblica.
Di fatto, il collasso era già cominciato prima che il COVID-19 si manifestasse. Un sistema sanitario perlopiù privatizzato e dedito al profitto, e un’etica sociale che rifiuta misure sanitarie pubbliche “socialiste”, non poteva far altro che risultare inadeguato.
In aggiunta, rispetto a questa pentola che ribolle, abbiamo una nazione storicamente razzista arrivata al culmine, con proteste doverose contro palesi ingiustizie. Queste condizioni esistevano ben prima dell’avvento di Trump alla presidenza e hanno predeterminato il caos attuale.
Trump sta mandando tutto all’aria, ma le cause ultime erano inevitabili. Invece di sottolineare l’inerente natura del capitalismo, che mette il profitto prima delle persone come principio operativo, le opinioni delle élite puntano il dito contro un capro espiatorio inoffensivo. Qualcuno deve pur cadere e l’utile idiota in questo caso è Trump. Vedere, per credere, tutte le figure dell’establishment repubblicano che finiscono per fiancheggiare Biden.
Trump, in circostanze normali, avrebbe un gigantesco vantaggio essendo il presidente uscente. Dei 13 presidenti, dal 1933, tutti si sono ricandidati tranne JFK che, tragicamente, non ebbe scelta. Tutti tranne 3 rivinsero.
Queste eccezioni provano la legge dei grandi numeri secondo cui tempi economicamente magri condannano il presidente uscente: Ford e Bush senior furono sconfitti dalle recessioni e Carter dalla “stagflazione”.
Le circostanze odierne non sono normali. L’incarico di Trump potrebbe essere una pecca fatale, in condizioni peggiori, sotto molti aspetti, rispetto a quelle della Grande Depressione.
Insieme ad un’economia che sta collassando e un paese incendiato dal desiderio di giustizia razziale e sociale, Trump non ha affatto ampliato le proprie speranze di successo governando male i contagi. Un passaporto americano era una volta il più accettato al mondo, ma ora che gli Stati Uniti guidano la classifica dei morti totali per coronavirus e sono all’undicesimo posto per morti pro capite, solo otto paesi al mondo sono pienamente aperti ai turisti americani: Albania, Bielorussia, Brasile, Messico, Serbia, Turchia, Zambia e la destinazione “più ricercata”: la Macedonia del Nord, il cui fiore simbolo è il papavero da oppio.
La paura delirante secondo cui Trump organizzerà un colpo di stato per rimanere al potere pone interrogativi su quale apparato di sicurezza potrebbe appoggiarlo. Non l’Esercito, né altre agenzie di sicurezza statali – FBI, NSA, CIA e altri infami (traduciamo così spooks).
Queste istituzioni permanenti dello Stato sono a favore di Trump tanto quanto l’elettorato attivo americano, che probabilmente lo caccerà in autunno.
Nel bel mezzo della pandemia, quando si sapeva che le richieste di assicurazione sanitaria sarebbero salite alle stelle, gli assicuratori hanno fatto profitti osceni, garantiti dalla sostanziale assenza di sanità pubblica. Tra i pescecani, Jeff Bezos di Amazon ha guadagnato 87,1 miliardi di dollari dall’inizio dell’anno mentre Elon Musk di Tesla ne ha accumulati quasi 74.
Grazie in larga parte all’aiuto che dà la Federal Reserve ai detentori del capitale finanziario, Market Insider predice che “il 2021 sarà un anno spettacolare per le azioni”, mentre le prospettive per la classe lavoratrice diventano sempre più buie. Eh sì, Bernie Sanders aveva ragione quando diceva che “il sistema è pilotato” a favore della classe dei capitalisti.
Una vittoria democratica a novembre cambierà tutto questo? La Speaker della Camera Nancy Pelosi, politico democratico con la carica più alta, dice tutto: “siamo capitalisti e questo è il nostro modo di essere”. Il suo portafoglio personale ammonta a 120 milioni di dollari.
Perfino “liberal” democratici di spicco, quali Elizabeth Warren, sono rigorosamente “capitalisti fino all’osso”. Quando le è stata chiesta una spiegazione, la senatrice ha risposto “credo nei mercati e nei benefici che portano al popolo”. Mezza verità: il “popolo” che beneficia dal capitalismo è fatto solo di capitalisti.
E i progressisti del Partito Democratico come The Squad, vi chiederete? Nel “cimitero dei movimenti sociali”, qual è il Partito Democratico, sono relegati al ruolo di stagisti della diversità (“diversity window dressing”), con Alexandra Ocasio Cortez che riceve “ben” 90 secondi di fama alla National Convention dei Democratici.
Bernie Sanders, nominalmente indipendente, ha provato una disperata corsa per la nomina presidenziale e si è andato a scontrare contro la “no progressive rule” dei Democratici. Così, nel caso Biden vincesse nel 2020 ed Harris nel 2024 e nel 2028, nel 2032 ci sarebbe la prima possibilità di far candidare un progressista.
Sempre riguardo alla National Convention democratica, Bernie Sanders ha lodato Zio Joe – tra le altre cose – per le sue politiche sulla sanità. Michelle Obama ha portato il livello di assurdità alle stelle, criticando Trump per quel che ha fatto sull’immigrazione, nonostante abbia ereditato tutto da suo marito. I migliori autori di discorsi che i soldi possono comprare non riescono a scrivere bugie più convincenti?
Il progetto neoliberista continuerà, con un probabile nuovo cambio della guardia da un partito del capitale all’altro a gennaio, anche se con una faccia più gentile. Non dovremo più combattere con Pence il Principe delle Tenebre e il suo amichetto.
La nuova coppia volemose bene scatenerà l’amore, e nessuno si sentirà meglio della classe capitalista che ha già finanziato i democratici con donazioni da 48 milioni di dollari nelle prima 48 ore dall’annuncio della Harris come candidata vice-presidente. Ogni media mainstream ha sottolineato le sue magnifiche “qualifiche”, prima fra tutte il fundraising. Detto in parole povere, lei è chiaramente riconosciuta come zelante servitrice della classe dei capitalisti.
Potrebbe essere troppo presto per respirare con un Biden alla Casa Bianca. Se le prestazione passate possono essere d’indicazione, dobbiamo dare un’occhiata alle presidenze democratiche più recenti.
Sotto la guida del New Democrat Bill Clinton, fu rimosso il Glass-Steagall Act, dando di fatto avvio ad una recessione. Il NAFTA esportò posti di lavoro sindacalizzati americani e allo stesso tempo distrusse la piccola agricoltura messicana. Smembrò la Jugoslavia e bombardò l’Iraq, contribuendo alla destabilizzazione perpetua di quella parte del mondo.
“Il welfare come l’abbiamo conosciuto” fu abolito e istituita l’incarcerazione di massa. Clinton andava a gonfie vele, con la Social Security prossima vittima della ghigliottina dei tagli, fermata solo dallo scandalo Lewinski.
Nonostante questi fossero progetti-base per l’ala repubblicana del duopolio politico americano, c’è voluto un democratico per imporli alla popolazione. Nessuna legislazione progressista è stata emanata sotto la guida di Clinton. Abilmente avvertiva “il tuo dolore” mentre lo infliggeva sulla classe lavoratrice e le minoranze fatte prede dai Democratici, col plauso della classe che serviva.
Il Presidente democratico successivo, Barack Obama, non aveva neanche finito di servire il suo periodo da senatore prima che cominciasse la sua ascesa meteorica nell’Ufficio Ovale. Obama aveva abilità (wiring), ma la sua salita alle vette arrivò dopo essere stato controllato dalla classe dominante, affinché portasse la sua acqua a quel mulino.
Fu un prodotto dell’Hamilton Project del Brooklyn Institute, che riuscì con successo a far diventare il Partito Democratico il favorito di Wall Street.
Dopo aver promesso la pace, Obama portò la guerra in almeno sette paesi. Mentre nessuna legge progressista fu emanata durante i governi Obama, i suoi molti sussidi alla classe dominante includono il salvataggio di banche senza che nessuno sia stato processato. Ha regalato Obamacare alle compagnie d’assicurazione, troncando definitivamente il single payer. Ha raddoppiato la produzione di combustibili fossili, di cui si è preso direttamente il merito.
La lezione è che è più difficile creare una resistenza organizzata contro leggi regressive sponsorizzate da Democratici piuttosto che dai Repubblicani. Pensate all’incredibile opposizione alla guerra di Bush, svanita all’indomani dell’elezione di Obama, che in un attimo nominò Robert Gates, segretario della Difesa di Bush, nel proprio gabinetto.
In modo analogo, vediamo i Democratici sabotare Medicare for All, mentre Biden promette di porre il veto nel caso fosse approvata prima che lui inizi il mandato.
L’unica cosa che può preservare Trump dall’autodistruzione non è nient’altro che il Partito Democratico. Di tutti i candidati che avrebbero potuto asfaltare Trump – partendo da Bernie Sanders, con la sua promessa di un sistema pubblico sanitario in un periodo di crisi pandemica, o addirittura Elizabeth Warren, con l’idea di tassare le corporazioni in un momento di profitti record durante una recessione – ha scelto l’unico che potrebbe perdere.
L’ex senatore da Mastercard ha già assicurato a Wall Street che la sua posizione privilegiata sarà protetta sotto la sua guida. I falchi sono già stati messi a proprio agio con la promessa che il budget militare non potrà che aumentare. I parassiti delle assicurazioni sanno che le politiche di privatizzazione della sanità sono scolpite nel marmo. I Sionisti non devono agitarsi al pensiero di un possibile riconoscimento di diritti ai palestinesi o alla revisione del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele.
Peggio dei negazionisti del clima, Biden crede nella scienza del cambiamento climatico e conosce le sue catastrofiche conseguenze, ma farà poco al riguardo: ha già opposto un divieto a misure di limitazione del fracking. I sussidi per i combustibili fossili continueranno con i democratici.
Badate bene che queste promesse sono state fatte in campagna elettorale nel tentativo di attrarre voti.
Pelosi ha creato l’ambiente per una presidenza Biden. La prima legge passata dopo averla ripresa in mano nel 2018 è stata la pay-go rule, una misura fiscalmente conservatrice che mette una croce su ogni tentativo di far passare la benché minima riforma sociale.
A marzo di quest’anno, poi, i Democratici all’unanimità e senza dibattito hanno fatto passare il Cares Act, il più grande trasferimento di ricchezza dai lavoratori ai paperoni che la storia abbia mai visto.
I Democratici, dall’amministrazione Obama-Biden in poi, hanno sorpassato a destra i Repubblicani in fatto di politica estera su aspetti importanti riguardo l’Afghanistan, la Corea del Nord, la Russia, la Siria, il Venezuela etc. I democratici si rifiutano addirittura di ritirare le truppe all’estero.
Trump è stato caotico, inetto e inconsistente nell’essere ostile a Putin mentre minacciava Xi Jinping. Con un’amministrazione democratica, possiamo star certi di vedere un imperialismo USA ben più subdolo e letale, cercando una dominazione ad ampio raggio.
Tutti coloro i quali si lamentano dei pasticci di Trump dovrebbero capire che l’alternativa di Biden rappresenta una più efficiente e mortale macchina del capitale. Dovremmo essere più coscienti di quel che desideriamo.
*****
di Roger D. Harris, membro del Peace and Freedom Party e reporter per Venezuelanalysis. Il testo originale è uscito su www.mintpress.com con il titolo: “Austerity at Home and imperialism Abroad: What a Joe Biden win would mean for America”
Fonte
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