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28/09/2020

La Lega “europeista”. Lo era anche prima, ma ora lo ammette

Cambiare casacca, nel Parlamento italiano, è pratica diffusa, tanto da apparire ormai quasi “normale”, benché ufficialmente spregevole. Farlo anche al Parlamento Europeo è più raro, visto che in fondo – lì – ci si limita a ratificare oppure no quel che viene deciso dal “governo” continentale, ossia dalla Commissione.

Insomma, nessuno perde tempo a comprare il tuo voto; per quello ci sono già le lobby – tutte regolarmente accreditate, con un personale complessivo numeroso tre o quattro volte quello europeo.

Quindi questa volta si tratta di un “cambio di posizionamento” serio, collettivo, partitico, non di una vendita all’asta da parte di singoli.

Naturalmente, il cambio di casacca implica un restyling piuttosto radicale della “narrazione ufficiale” che si va proponendo o, come si diceva una volta, dell’”identità politica”.

Quello che si va preparando in casa leghista è un cambio di identità quasi da chirurgo plastico, perché si deva passare dall’”antieuropeismo”, finto duro e puro, all’”europeismo dei moderati”. O democristiani, come si dice in Europa.

Non c’è problema!, assicura Giancarlo Giorgetti, da tempo regista dell’operazione, rinviata solo in virtù del clamoroso – ma ovviamente temporaneo – successo del Salvini in versione “chiudo i porti”, “affondiamo i barconi”, “abbasso l’euro”, ecc.

Come raccontano i giornalisti più vicini all’inner circle leghista – quelli di destra, of course – la svolta è stata resa possibile dalla clamorosa perdita di consensi elettorali (in un solo anno dal quasi 40% al 20, o giù di lì), dal fallimento dell’assalto ad Emilia Romagna e e Toscana, ma soprattutto dal rifiuto dell’establishment europeo di trattare con chi – almeno a parole – ancora finge di essere anti-euroburocrati.

Lo scrive apertamente Il Giornale di Sallusti, che certo non è antipatizzante: “Giorgetti […] attento più che ai follower sui social, ai «like» che contano per davvero, quelli dell’establishment internazionale indispensabili per accreditarsi come forza di governo e preparare il terreno per una premiership di Salvini”.

La pietosa menzogna finale cerca di rassicurare il precipitante Matteo che la “svolta” non significherà il suo immediato licenziamento. Ma dall’insieme appare ormai evidente che il suo tempo sta per scadere: se non riuscirà a riconquistare almeno Milano, alle comunali della prossima primavera, il dado sarà tratto anche per quanto riguarda la sua leadership.

Che intanto, sarà un caso, è stata ridimensionata in modo piuttosto serio dalla riscoperta di una “segreteria”, ossia di un organo collegiale al posto del Truce con “pieni poteri”.

È persino banale dover scrivere che – se l’obbiettivo è quello di sedere al tavolo del PPE con Angela Merkel e Ursula von der Leyen, i gollisti francesi di Sarkozy, i popolari spagnoli e i nazisti ungheresi di Orbàn (gratta il democristiano e ci trovi il fascista, si diceva anche 50 anni fa...), dando l’addio a Le Pen e a Vox – non potrà essere Salvini il capo-delegazione.

Il cambio di identità porta con sé anche il cambio del frontman, della faccia che ha reso fisicamente indistinguibile il messaggio e il significato, rovesciando in modo credibile i ruoli di nemici ed amici.

L’ultimo incidente, spiegano ancora i giornali della galassia destrorsa, è stato il voto europeo sulla Bielorussia, con i leghisti a Bruxelles fermi nel bocciare la risoluzione anti-Lukashenko, mentre Giorgetti bestemmiava in ostrogoto a Milano, facendo la conta dei danni alla strategia di “legittimazione democratica” del Carroccio.

Del resto il risultato delle elezioni regionali è stato chiaro: i presidenti delle Regioni vanno assumendo un ruolo centrale sulla scena politica, indipendentemente dai partiti di appartenenza. Zaia e De Luca, Bonaccini e Fontana, si capiscono tra loro meglio di quanto non avvenga con i rispettivi “leader” nazionali.

Quindi il tipo di leader nazionale che serve è uno in grado di “inter-facciare” i governi territoriali con le politiche europee, assunte come immodificabili da chi deve prendere decisioni concrete, senza fare troppi comizi. Serve, per la Lega, un “cambio di identità”, dalle barricate al parrucchiere, dal “cambiamo tutto” a “tuteliamo il nostro” (il Nord, strettamente inteso, a là Zaia).

A maggior ragione, però, se l’identità nazionale e internazionale cambia, Salvini salta.

Il fatto, dunque, è semplice: la Lega archivia nello stesso momento, sia l’ambizione a diventare “partito nazionale”, presente più o meno con lo stesso peso dappertutto, sia l’antieuropeismo di maniera, acchiappa-voti. Il tutto allo scopo di diventare “forza di governo” accettata in Europa.

Altrimenti puoi anche vincere le elezioni (anche se non è più detto, si è visto nelle urne), ma poi rimani inchiodato a trattative impossibili con gliorganismi continentali che controllano i passaggi chiave dell’azione di governo (politica economica, di bilancio, estera e militare, ecc.) fin nei dettagli.

I nostri lettori sanno che abbiamo sempre considerato finta l’opposizione leghista all’Unione Europea. Un bla-bla che cavalcava il sentimento popolare mosso dai tagli alla spesa sociale ogni volta che qualcuno li spiegava con il famigerato “ce lo chiede l’Europa”.

Dunque non siamo affatto sorpresi da questi annunci. Si era visto quando il Carroccio era al governo, prima con Berlusconi, poi insieme ai grillini. Abbaiavano spesso e molto forte, ma di fronte ai “niet” europei – come si dice a Roma – “facevano pippa”. Ricordiamo solo il “deficit da sforare”, per poi approvare una manovra per rispettare il 2,04%...

Il gioco politico italiano, se vogliamo dirla seriamente, è una danza immobile. Tutti fingono di agitarsi, mostrando “differenze” abissali che – viste da vicino – non si riescono proprio a distinguere. Basta guardare ai “decreti sicurezza”, assolutamente in continuità tra la gestione Minniti e quella Salvini, e ancora intoccati dopo un anno di governo “giallo-boh!”.

Il pallino delle decisioni-chiave sta alla Commissione Europea e, con il Recovery Fund (con o senza l’aggiunta del Mes), la cosa sarà definitivamente messa nero su bianco.

Però, come si dice in campagna, “chi amministra, ha minestra”. E i 209 miliardi del Recovery Fund, seppure dovranno essere rigidamente impiegati secondo le “raccomandazioni” di Bruxelles, offrono uno spazio impensato per chi è abituato a racimolare briciole clientelari dai piatti principali che passano sotto il naso.

Il “riposizionamento” leghista, se non altro, mette(rà) fine a uno dei tanti equivoci: quello per cui ci sarebbe, qui in Italia, un “populismo sovranista” pericolosissimo per la democrazia. Il populismo, semmai c’è stato, ha riguardato soprattutto gli scafessi dei Cinque Stelle...

E sarà forse finalmente possibile ragionare di Unione Europea senza il paraocchi che costringe tanti a vederci/inventarsi qualcos’altro per “non confondersi con i leghisti” (non ci contiamo molto; la stupidità umana sopravvive a qualsiasi prova contraria, vedi i no vax...).

Quanto alla “sovranità”, a parte qualche scombiccherato discorso di Bagnai o di Borghi, e qualche battuta dal bar del Papeete, nessuno se n’è mai occupato troppo. Come tutti sanno, la “sovranità” è stata da tempo assunta “dai mercati”. Al popolo calci sui denti e prese per i fondelli, con l’incitazione a prendersela con quelli messi ancora peggio…

Sarà bene rifletterci sopra con cura, specie davanti ai ricorrenti appelli al “voto utile per arginare il fascismo alle porte”, ballottaggi compresi. Non ci sono due schieramenti in campo, uno “pro democrazia” e l’altro “proto-fascista”. C’è una sola, miserabile, classe politica che può ricoprire – individualmente o collettivamente – tutti i ruoli e il loro contrario. Come quando i fascio-destrorsi fanno i “garantisti” se va in galera uno di loro, mentre chiedono la tortura e l’impiccagione se tocca a qualcun altro...

Il “gioco della democrazia parlamentare”, come si dovrebbe capire dall’accoppiata “riduzione dei parlamentari” più legge elettorale “per garantire la stabilità”, è ormai un gioco truccato. Dove nessun soggetto alternativo può trovare accesso. E quando pure dovesse riuscirci, viene immediatamente massacrato.

Potete prendere l’esperienza de La France Insoumise che, dopo aver seriamente “rischiato” di arrivare al ballottaggio per le presidenziali in cui ha poi vinto Macron, è stata sottoposta a un “trattamento” ferocemente punitivo (fino alle perquisizioni nella sede centrale del movimento). O, più semplicemente, potete aprire gli occhi...

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