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19/09/2020

Daniele Vicari: “Quando una società si sente sotto assedio vede nemici ovunque”

Il brutale omicidio di Willy Duarte a Colleferro, ha messo il nostro paese di fronte alla società che ha creato. Daniele Vicari è un regista più che attento alle dinamiche sociali. Il suo documentario “Il mio paese” ha vinto il David di Donatello. Successivamente ha realizzato il film il “Passato è una terra straniera”.

Nel 2012 realizza il film che è diventato memoria storica e atto d'accusa per una intera generazione: “Diaz. Don’t Clean Up This Blood” sulle brutalità poliziesche e il contesto dei giorni di Genova 2001. Ci sono stati altri film ed altri premi negli anni successivi. È in uscita un suo nuovo film “Il giorno e la notte” realizzato durante i mesi del lockdown .

Nel 2019 ha pubblicato con Einaudi il romanzo: “Emanuele nella battaglia”.

Il libro racconta la vicenda di Emanuele Morganti, un ragazzo di Alatri, in provincia di Frosinone, pestato a morte il 26 marzo 2017 con modalità e circostanze che richiamano molto da vicino il recente omicidio di Willy Duarte a Colleferro. A Daniele Vicari abbiamo chiesto una visione di quanto accaduto il 5 settembre scorso.

A Colleferro con la brutale uccisione di Willy Duarte si è ripetuto quasi meccanicamente la vicenda che portò alla morte di Emanuele Morganti ad Alatri, vicenda sulla quale hai scritto un buon libro “Emanuele nella battaglia”. Cosa ti porta come riflessione questa nuova vicenda avente caratteristiche e protagonisti quasi simili?

Mi dice che quelle dinamiche non sono casuali, ma in qualche modo codificate. Il problema che vedo è che quella “codifica” ha a che fare con una consuetudine alla violenza e alla sopraffazione che non è una “eruzione” momentanea, dovuta alla rabbia, ma è parte integrante di un sistema di comunicazione, quindi ha una valenza sociale, ha a che fare con dinamiche sociali. Quindi è assai difficile da estirpare.

Credo che sia in atto – o si stia producendo – una pulsione “tribale/sociale” piuttosto che politica, che spinge soggetti apparentemente estranei a raggrupparsi in forma tribale, corrispondente a usi, costumi e consuetudini “strapaesane” da comitive amicali. Cosa ti fanno pensare questi rituali da “branco”? È credibile che periferie e paesi limitrofi o marginali di hinterland delle grandi città metropolitane, abbandonate e isolate, producano ormai una concezione identitaria di tipo tribale?

Si, lo credo anch’io. La coesione in alcuni territori viene meno a favore della logica del clan. È una logica che presuppone l’esistenza di “nemici”, il clan vive nell’assedio perché è da lì che trae la propria identità, che si costruisce per contrapposizione. Da questo punto di vista la comunicazione politica basata sulla identità ha una responsabilità immensa, ci sta abituando alla logica della chiusura, dell’assedio. Ma quando una società è sotto assedio vede nemici ovunque. Si crea una situazione esplosiva.

Un’ultima domanda, quasi dovuta, sulla società che ci aspetta. Tu hai prodotto e realizzato un film durante la fase di “clausura” dovuta al lockdown. Quali riflessioni hai maturato su questa vicenda e le sue conseguenze sociali, comportamentali, culturali?

"Il giorno e la notte", realizzato sotto lockdown è una reazione alla clausura. Il tentativo di un gruppo di persone che ama il cinema di gridare forte questo amore. In qualche modo la clausura forzata è disumanizzante, rischiamo di ridurci a puri consumatori, in quei giorni durissimi volevamo dimostrare a noi stessi che anche in una situazione impossibile il cinema si può fare ed è parte integrante della nostra vita. In questo modo volevamo fare una carezza, un gesto affettuoso al nostro paese che in quel momento viveva in forte isolamento internazionale, gli italiani erano “gli untori” di turno. Volevamo farci del bene e l’abbiamo fatto senza chiedere niente a nessuno, soltanto contando sulle nostre forze.

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