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28/09/2020

Confindustria punta alla Cassa

Ed eccoci all’ennesima puntata della crociata contro il mondo del lavoro. Se qualche giorno fa le bellicose intenzioni contro i lavoratori erano emerse dalle parole del Presidente di Confindustria Carlo Bonomi, ora è il turno del Ministro Gualtieri che ci mostra la posizione di questo Governo riguardo al mercato del lavoro e agli ammortizzatori sociali.

La sostanza del discorso di Bonomi era, nella sua semplicità, una vera e propria dichiarazione di guerra, riassumibile pressappoco così: gli ammortizzatori sociali, ossia tutto quell’insieme di misure di sostegno al reddito per coloro che si trovano in una condizione di disoccupazione, sono ancora troppo legati all’idea della conservazione del posto di lavoro. Occorrerebbe quindi passare a un sistema che abbia l’obiettivo di permettere all’azienda di sbarazzarsi con maggiore facilità dei lavoratori ritenuti non più necessari. Il lavoratore che perda il lavoro, dunque, nella proposta di Confindustria, dovrà rimettersi sul mercato del lavoro e, magari, formarsi per ridiventare utile al sistema produttivo.

Proprio a questa filosofia sembra ispirarsi il Ministro dell’Economia Gualtieri nelle sue recenti dichiarazioni. Ma per capirne il significato riavvolgiamo il nastro e partiamo dalla realtà attuale degli ammortizzatori sociali in Italia. Durante il lockdown, conil ‘decreto Cura Italia’ e il ‘decreto Rilancio’, il Governo aveva esteso sostanzialmente a tutte le aziende la possibilità di far ricorso ai trattamenti di integrazione salariale, la cosiddetta cassa integrazione normalmente limitata a determinati settori produttivi e ad aziende con più di 15 dipendenti. Ricordiamo che la cassa integrazione è quell’istituto consistente in un’erogazione di denaro da parte dell’INPS in caso di crisi aziendali sostitutiva dello stipendio, e che consente di mantenere il posto di lavoro fino a ripresa ordinaria dell’attività produttiva. Accanto all’estensione della cassa integrazione, era stato poi introdotto il blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo. In questo modo si perveniva a una sorta di accordo: non licenziate i lavoratori e il Governo vi sosterrà aiutandovi a pagare gli stipendi.

Con il recente ‘decreto agosto’, però, le cose cambiano profondamente. Da un lato, la scadenza del divieto di procedere al licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo viene resa, in un certo senso, mobile. Con il ‘decreto Rilancio’ di maggio, infatti, il divieto di licenziamento era valido fino alla data del 17 agosto 2020. Con il nuovo decreto, invece, viene stabilita la regola che sarà impossibile procedere a questo tipo di licenziamento fino all’esaurimento delle diciotto settimane di cassa integrazione previste dalla legislazione vigente. Ciò implica che nel mese di novembre 2020 il divieto di licenziamento comunque cesserà definitivamente per tutte le imprese.

Nel decreto di agosto viene introdotta, inoltre, una clausola per la quale le aziende che vorranno accedere alla cassa integrazione (per un periodo ulteriore rispetto alle prime nove settimane) dovranno pagare una contribuzione aggiuntiva. Tale contribuzione sarà pari al 9% della retribuzione che sarebbe spettata al lavoratore per le ore di lavoro non prestate, per quelle aziende che abbiano fatto registrare riduzioni di fatturato, nel periodo gennaio-giugno 2020 rispetto allo stesso semestre del 2019, inferiori al 20%. Per le aziende che, invece, non hanno subito alcuna riduzione di fatturato, la contribuzione aggiuntiva è pari al 18%.

A questo punto ci si potrebbe interrogare sul perché di questi paletti alla cassa integrazione. Trovare una risposta, purtroppo, è facile: senza denari non si cantano messe. E, a dispetto delle fanfare con cui sono stati accolti gli strumenti europei del Recovery Fund e del SURE, il prestito destinato proprio a finanziare la cassa integrazione, è evidente che questi ultimi costituiscono strumenti del tutto insufficienti a sostenere le economie dei Paesi così profondamente colpiti dalle conseguenze della pandemia. Insufficienti e legati a pesanti condizionalità riassumibili con la solita solfa: austerità e riforme a favore del capitale. Ed ecco che per finanziare gli interventi di integrazione salariale è necessario trovare risorse aggiuntive.

Ma questa novità ha dato una bella idea all’attuale compagine di Governo: perché non sfruttare l’occasione per rendere sistematica la contribuzione aggiuntiva per poter usufruire della cassa integrazione? E allora ecco la proposta di Gualtieri: “stop alla cassa integrazione generalizzata e gratuita per tutti come durante il lockdown”. Dal 2021 si paga. E, per quel che riguarda una più generalizzata riforma degli ammortizzatori sociali, l’obiettivo è quello di investire sulle “deficitarie politiche attive del lavoro”.

In altri termini, dopo aver messo sostanzialmente la parola fine sul blocco dei licenziamenti con il ‘decreto agosto’, Gualtieri si impegna a realizzare la seconda parte della lista dei desideri di Confindustria: disincentivo a utilizzare la cassa integrazione e maggiori risorse dedicate alle politiche attive. Se è vero che il disincentivo all’uso della cassa integrazione sarebbe legato a un contributo a carico delle imprese, e questo in qualche modo sposterebbe in piccola parte l’onere dell’istituto dalla collettività al capitale, allo stesso tempo è evidente che le imprese non avendo alcun obbligo di far ricorso alla cassa integrazione in caso di crisi aziendale e potendo ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sarebbero incentivate a sbarazzarsi della forza lavoro in eccedenza puntando poi, nella fasi di ripresa, a riassunzioni molto convenienti di altri lavoratori formati a spese della collettività tramite le promesse politiche attive del lavoro.

A differenza della cassa integrazione, queste politiche non comportano la continuità del rapporto di lavoro e, anzi, servono a fornire ai lavoratori una formazione in funzione delle necessità delle imprese senza alcuna garanzia occupazionale, lasciando così all’impresa un enorme margine di flessibilità nella determinazione dei livelli occupazionali di periodo in periodo.

E così, mentre si piccona, pietra dopo pietra, il sistema degli ammortizzatori sociali disincentivandone l’uso e favorendo di fatto il ricorso ai licenziamenti, ci si lega a un futuro di ulteriore austerità e di maggiore precarietà del posto di lavoro. Il tutto con l’obiettivo di rendere i lavoratori sempre più ricattabili e scaricare su di loro il peso dell’incertezza derivante dalle conseguenze della crisi economica in atto.

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