Con la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Israele da una
parte ed Emirati Arabi Uniti e Bahrein dall’altra, ratificata martedì
alla Casa Bianca, è stata di fatto liquidata – e con un gesto di aperto
tradimento – la questione palestinese come elemento centrale
dell’approccio dei paesi arabi allo stato ebraico. Lo “storico” accordo è
il risultato degli sforzi dell’amministrazione del presidente americano
Trump, che spera di raccoglierne i frutti nelle elezioni di novembre, ma
risponde anche ai calcoli dei regimi coinvolti. Che la clamorosa svolta
possa portare i risultati sperati per questi ultimi, rimane tuttavia in
forte dubbio.
A Washington, il primo ministro israeliano Netanyahu, sempre più in
crisi sul fronte domestico, ha sottoscritto due intese separate con i
rappresentanti di Emirati e Bahrein, cioè i rispettivi ministri degli
Esteri, Sheikh Abdullah bin Zayed al-Nahyan e Abdullatif al-Zayani. Gli
accordi fanno di questi due paesi il terzo e il quarto in assoluto nel
mondo arabo ad avere stabilito piene relazioni diplomatiche con Israele,
dopo l’Egitto (1979) e la Giordania (1994).
Sul piano concreto, soprattutto gli Emirati hanno da tempo relazioni
informali con Israele, ad esempio per quanto riguarda la cooperazione
nell’ambito della tecnologia applicata alla sorveglianza della
popolazione. La formalizzazione di questa realtà implica però un
possibile riallineamento strategico nella regione mediorientale, in
particolare se, come appare probabile, a Emirati e Bahrein faranno
seguito altri paesi arabi, prima fra tutti l’Arabia Saudita.
Uno dei fattori di maggiore rilievo per leggere gli eventi di queste
ore è l’offensiva anti-iraniana dell’amministrazione Trump. Il
sostanziale fallimento dei tentativi di mettere in ginocchio la
Repubblica Islamica con sanzioni e minacce ha determinato
un’intensificazione degli sforzi per consolidare il fronte degli alleati
di Washington in Medio Oriente. Lo stesso flop della cosiddetta “NATO
araba”, altro miraggio della Casa Bianca, ha senza dubbio orientato
l’entourage di Trump verso la normalizzazione tra i regimi sunniti e la
molto presunta unica democrazia mediorientale.
Quella che Alberto Negri su Il Manifesto ha definito una “NATO araba a
trazione israeliana” cerca così di coagulare le ossessioni
anti-iraniane attorno al riconoscimento dello stato ebraico, nell’ottica
della ormai proverbiale strategia di “massima pressione” nei confronti
di Teheran. Proprio questo elemento sostituisce, in maniera che è
difficile non definire vergognosa, la questione palestinese in cima alla
lista delle priorità arabe in cambio del riconoscimento di un paese che
pratica quotidianamente l’apartheid e opera costantemente al di fuori
del diritto internazionale.
La stretta di mano tra Netanyahu e i capi della diplomazia delle
monarchie assolute di Emirati Arabi e Bahrein segna dunque la morte
della cosiddetta “Iniziativa Araba di Pace”, promossa nel 2002
dall’Arabia Saudita e appoggiata dalla Lega Araba. Con questo
meccanismo, i paesi arabi offrivano a Israele il pieno riconoscimento in
cambio del ritiro dai territori occupati, della risoluzione della
questione dei profughi palestinesi e della creazione di uno stato
palestinese con Gerusalemme Est come capitale.
Il modo in cui alcuni regimi arabi hanno voltato le spalle anche
formalmente alla popolazione palestinese è a dir poco ignobile. In
cambio, stando a quanto era dato sapere fino alla vigilia della firma
degli accordi, c’è oltretutto la mera sospensione dell’annunciata
annessione da parte di Israele di circa un terzo del territorio della
Cisgiordania. Netanyahu, poi, ha tenuto a sottolineare che questa
iniziativa, del tutto illegale, è soltanto rimandata.
Tra i dettagli dell’accordo siglato con la mediazione americana
figurano l’apertura delle ambasciate e la cooperazione negli ambiti del
turismo, del commercio e della sicurezza. I termini dell’accordo
dovranno essere comunque approvati dal parlamento di Israele
(“Knesset”). Nel complesso, l’annuncio di Trump sulla “nuova alba del
Medio Oriente” e la fine delle divisioni nella regione appare
decisamente fuori luogo.
Come
ha fatto notare più di un commentatore, nei piani degli Stati Uniti il
summit di martedì alla Casa Bianca dovrebbe essere ad ogni modo il primo
passo di un processo che porterà al riconoscimento di Israele anche da
parte di altri paesi arabi. Uno di questi è l’Oman, ma il pezzo forte
resta ovviamente l’Arabia Saudita.
Nella casa regnante di Riyadh, è estremamente probabile che l’erede
al trono Mohammad bin Salman (MBS) sia già orientato a muoversi in
questo senso. D’altra parte, è noto il suo strettissimo rapporto con
quello che è considerato l’artefice dell’accordo di questa settimana, il
consigliere e genero di Trump, Jared Kushner. All’interno della
famiglia reale ci sarebbero però anche resistenze a gettare in mare una
strategia che il regno ha lanciato e finora rispettato almeno
formalmente. Il sovrano – Salman – sarebbe infatti contrario, anche
perché la pacificazione con lo stato ebraico resta fortemente avversata
dalle popolazioni arabe in totale assenza di concessioni per i
palestinesi.
È presumibile che i sauditi salteranno sul carro israelo-americano
una volta che MBS sarà succeduto al padre, ma, al di là delle
dichiarazioni ufficiali all’insegna della freddezza, la decisione a
Riyadh sembra già presa. Ciò che lo dimostra è la presenza a Washington
del Bahrein. Questo paese è di fatto un protettorato dell’Arabia
Saudita, a cui i regnanti sunniti della famiglia al-Khalifa devono
tutto, visto anche che furono le truppe inviate dal potente vicino a
reprimere nel sangue la rivolta della maggioranza sciita nel pieno della
“Primavera Araba” del 2011.
La partecipazione del Bahrein alla cerimonia di riconoscimento di
Israele è stata perciò autorizzata o, più probabilmente, ordinata da
Riyadh, con quello che è un gesto indicante l’approvazione della
monarchia wahhabita, anche se non ancora pronta a fare questo passo
direttamente. Sulla cautela saudita devono forse influire anche le
riserve circa la scelta di Israele come futuro partner in un frangente
storico nel quale la casa regnante si ritrova a fare i conti con una
serie di crisi senza precedenti.
Da considerare c’è per l’Arabia Saudita il problema della legittimità
a rappresentare la comunità islamica se le scelte strategiche del
regime rischiano di trasformarlo in poco più di un esecutore degli
interessi americani, per non dire di Israele. La questione è tanto più
delicata se si pensa alle ambizioni della Turchia in questo senso e che
da tempo si sono scontrate materialmente con gli interessi sauditi, come
ad esempio in Libia.
Allo stesso modo, è quanto meno dubbio che l’adesione di Ryadh, così
come di Abu Dhabi, alle direttive di Washington su Israele garantiscano
ai regimi sunniti una difesa efficace, per non parlare delle
potenzialità offensive, in caso di conflitto con l’Iran. Il percorso
intrapreso dalla leadership saudita guidata dal principe ereditario MBS è
dunque pericoloso e pieno di ostacoli e rischia di legare il destino di
un regno in profonda crisi alle priorità strategiche di un paese – gli
Stati Uniti – in netto arretramento sul piano globale e di un altro –
Israele – che è, dopo l’alleato americano, il principale elemento
destabilizzante del Medio Oriente.
Le forniture di armamenti sono infine un altro dei fattori entrati
nei calcoli dei paesi decisi a legittimare Israele davanti alle rispettive
popolazioni. Sui media di tutto il mondo si è parlato ad esempio delle
ambizioni degli Emirati Arabi, il cui desiderio di acquistare, tra
l’altro, gli F-35 e nuovi droni americani si era scontrato finora con il
principio di superiorità militare da garantire a Israele.
Lo stesso discorso vale per il Bahrein, che potrebbe vedere
accelerare la vendita di F-16, già sbloccata dall’amministrazione Trump
dopo il precedente stop per questioni legate alle violazioni dei diritti
umani del regime sunnita. Il vice-presidente esecutivo di Lockheed
Martin ha infatti confermato settimana scorsa che nel prossimo futuro la
sua compagnia si aspetta un impennata di ordini per i jet F-16 e
possibili prospettive simili per gli F-35.
Questo
obiettivo per gli Emirati è legato alle mire regionali e che implicano,
grazie proprio all’accettazione del processo di normalizzazione con
Israele, un possibile via libera al rafforzamento delle proprie
operazioni in paesi come Libia e Yemen, al centro di accese polemiche
anche negli Stati Uniti per ragioni di opportunità strategica e di
immagine, visti i ripetuti massacri di civili nel paese della penisola
arabica in guerra.
Tutti i riflessi degli “Accordi di Abramo”, come sono stati
ribattezzati a Washington, saranno comunque da verificare, ma fin da ora
è fuori discussione, al contrario di quanto sostiene la Casa Bianca,
che gli eventi di questa settimana daranno un nuovo pesante colpo alla
causa palestinese, nel sostanziale silenzio delle altre potenze con
interessi nella regione, a cominciare da quelle europee.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento