Due riflessioni a caldo su questa tornata elettorale, mentre ancora non sono stati scrutinati i voti per i Comuni, che comunque sono interessanti per chiarire alcune dinamiche locali.
Il referendum è andato secondo i sondaggi (70 a 30 per il “sì”), e non a caso è l’unica votazione per cui le previsioni sono state rispettate al millimetro. Segno che sui temi generali i cittadini chiamati a far parte del “campione” hanno meno pudore e mentono meno. Pur abboccando in modo assurdo a motivazioni false...
Sul piano istituzione e costituzionale è infatti una pessima notizia, che prepara sciagure ancora peggiori. Le parole con cui Di Maio ha salutato il risultato sono un annuncio di lacrime e sangue, a breve termine.
Per un verso, infatti, ha messo sul tavolo la necessità di una “legge elettorale che garantisca la stabilità dei governi”. Che, fuori dai denti, significa una soglia di sbarramento molto alta, per impedire o rendere quasi impossibile l’emergere di nuovi soggetti politici in grado alla lunga di scalzare il “tripartito” attualmente presente in Parlamento.
Unita alla riduzione dei parlamentari, un simile dispositivo “strozza” la rappresentanza politica a poca cosa, a meno di terremoti sociali imprevedibili. Se andrà bene, a puro “diritto di tribuna”. Ma anche quello è “troppo”, per un potere economico continentale alle prese con una situazione mai vista e ingovernabile con i vecchi strumenti della “democrazia parlamentare”.
Il secondo punto sollevato è stato quello della “riduzione degli stipendi dei parlamentari”, che sarebbe stato semplicissimo fare anche prima (basta modificare il Regolamento parlamentare, non c’è bisogno neppure di una legge). Ma è la motivazione a dover preoccupare cittadini e lavoratori: “per dare l’esempio in un momento di crisi”.
Di Maio, come tutti gli addetti ai lavori, sa bene che Recovery Fund e Mes sono una trappola senza via d’uscita, che imporrà tagli mostruosi agli assegni pensionistici, alla spesa sociale e sanitaria (favorendo il salto definitivo verso la privatizzazione), incrementando privatizzazioni e liberalizzazioni. Oltre alla riduzione dei salari, che Confindustria pretende senza se e senza ma (e senza alcuna opposizione nella “politica”).
Dunque, è consapevole che questi tagli – sicuramente impopolari – sarebbero ingestibili in presenza di una classetta politica infame che “affama il popolo” e mantiene, però, gli stipendi più alti d’Europa.
Quindi mette le mani avanti, offrendo la pillola dolcificante retorica (il taglio degli stipendi parlamentari) per far mandar giù la sbobba indigeribile dell’impoverimento drastico di lavoratori con ogni tipo di contratto (quello dei rider è indicativo), pensionati, disoccupati, giovani.
Del resto è il ruolo che hanno assunto i Cinque Stelle con la bandierina del “taglio dei parlamentari”, unico vero “successo” della loro presenza maggioritaria in Parlamento: hanno spianato la strada alla concentrazione del potere, alla distruzione della Costituzione, all’eliminazione del mondo del lavoro come “soggetto sociale determinante”. Quello che da decenni cercavano di fare, senza mai riuscirci completamente, Pd, Berlusconi e Lega.
Le Regioni
L’ente più problematico e dannoso dell’architettura istituzionale – dopo la modifica del Titolo V, ad opera del Pd – è diventato il pivot di fatto della politica. Ponendo oggi le basi per la balcanizzazione futura del Paese, a seconda di come andranno maturando gli scenari di crisi.
I media mainstream vanno celebrando la “vittoria” del Pd e delle forze “responsabili” a scapito dei “populisti”, ossia dei Cinque Stelle e soprattutto della Lega di Salvini.
Ma il successo plebiscitario di Zaia in Veneto e De Luca in Campania (ma Liguria e Puglia stanno evolvendo lungo lo stesso asse, mentre vedere differenze tra Bonaccini e i suoi “colleghi” di destra è veramente improbo) sancisce l’affermazione di un “potere territoriale indipendente”, che erode quelli dello Stato nazionale.
Qualcosa si è cominciato a vedere con la gestione della pandemia, e persino con la diffusione dei risultati elettorali (Veneto, Toscana e Valle d’Aosta li pubblicano indipendentemente, sostituendo il Ministero dell’Interno). Ogni presidente regionale ha preteso “visibilità”, diramando direttive sempre differenti da quelle nazionali, e contribuendo così a creare la babele che ha favorito negazionisti, imprese agganciate al sottobosco politico-amministrativo, disorientamento sociale e quindi anche la “seconda ondata” del Covid-19.
La pretesa di avere l’”autonomia differenziata” – primo e quasi unico punto posto da Zaia nel suo discorso post elettorale – illumina un prossimo futuro che non si può non definire “balcanizzazione”.
Non c’entra nulla l’ideologia, naturalmente. Contano gli interessi. Il Veneto, come la Lombardia e l’Emilia Romagna, sono strettamente collegate alle filiere produttive tedesche. Sono contoterzisti ormai specializzati, senza alcuna prospettiva autonoma di produzione al di fuori di quei legami. Ogni “pressione” economica proveniente da lì, anche tramite l’Unione Europea, spingerà insomma per privilegiare gli interessi industriali locali rispetto alla dimensione nazionale.
Questo spiega in gran parte la doppia sconfitta della Lega di Salvini: più che doppiato, in Veneto, dalla lista personale di Zaia e duramente respinto al centrosud.
In pratica, il progetto di “Lega nazionale”, parafascista in mancanza di altro cemento identitario al di là del razzismo e del “legge e ordine”, chiude i battenti. E così, da qui a qualche tempo, anche la sua leadership.
Su quel terreno, infatti, la Meloni può vantare altrettanta credibilità (anzi, di più, essendo fascista “della prima ora”), ma soprattutto un legame storico solido con le clientele che al Sud ricoprono – sul piano dell’orientamento sociale ed elettorale – lo stesso ruolo dell’imprenditoria piccola e media del Nord.
Se, insomma, i trionfi di Zaia, De Luca, Toti, Emiliano e perfino del renziano Giani – così com’era avvenuto con Fontana e Bonaccini – avvengono nel segno del “regionalismo” che supera “destra e sinistra”, allora non serve una struttura partitica nazionale. Se non nei limiti della “legittimazione a prescindere” delle scelte che avvengono alla periferia, oltre che nell’affidamento delle “risorse che arriveranno dall’Europa”.
Sta insomma avvenendo una torsione della “politica” che accompagna i sommovimenti economico-sociali e prova a governarli assecondandoli. Tende a sparire qualsiasi disegno d’insieme, qualsiasi visione almeno nazionale, proprio quando questa sarebbe necessaria per contrastare o almeno limitare la pretesa “europea” di ridisegnare il modello di sviluppo secondo gli interessi del capitale multinazionale e finanziario.
I partiti politici
Al di là delle solite dichiarazioni (come sempre, tutti dicono di aver vinto), queste elezioni certificano la fine dei partiti, da tempo ridotti ad agglomerati di consorterie, clientele e pacchetti di voti.
Lo stesso fallimento della “Lega nazionale” – quella che veniva descritta come “l’ultimo partito leninista” (ossia con una forte leadership e una struttura territoriale diffusa) – rientra in questo processo e lo conferma.
Di fatto, le classi popolari non hanno più alcuna rappresentanza riconoscibile, identificabile e con cui identificarsi. Gli ultimi colpi di coda delle solite “ammucchiate elettorali a sinistra” hanno confermato che questo schema ha prodotto un solo risultato: far scomparire l’alternativa sono un castello di sigle sempre diverse, sempre fantasiose, sempre “nuove”... e sotto la sigla, niente.
Restano da analizzare i risultati di Potere al popolo, là dove si è presentato, ma certamente da Napoli e in genere dalla Campania arrivano dati interessanti. Che confermano come soltanto il radicamento sociale e una prassi quotidiana riconoscibile permettano di affrontare anche le scadenze elettorali con un minimo di appeal.
A conferma del vecchio detto contadino “se vuoi un raccolto, devi prima arare e seminare”.
Scorciatoie furbette e “gestione dell’antico bacino elettorale comunista” hanno fatto il loro tempo. Definitivamente.
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