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23/09/2020

Stirati: “L’Europa non è cambiata: il ritorno dell’austerità renderà inutile il recovery fund”

A partire dalla crisi economica, “aggravata e non scatenata dalla pandemia”, intervista ad Antonella Stirati, professoressa ordinaria di Economia politica presso la Facoltà di Economia dell'Università Roma Tre e autrice del libro “Lavoro e salari - un punto di vista alternativo sulla crisi”.

intervista ad Antonella Stirati di Daniele Nalbone

La prima domanda è diretta e, diciamo così, generale: che autunno ci aspetta?

Partiamo da una considerazione: la pandemia non è finita e occorre prudenza nella nostra quotidianità. Questa estate, per la stanchezza dei difficili mesi che ci siamo lasciati alle spalle, ci siamo sentiti tutti un po’ più liberi. Ora dobbiamo fare più attenzione. Parto da una considerazione non economica perché credo che questa sia comunque una priorità Sul fronte economico è necessario fare un passo indietro: l’economia italiana aveva gravi problemi ben prima della pandemia. O meglio, i veri problemi li avevano i cittadini italiani. L’Italia non si è mai ripresa veramente dal doppio shock della crisi del 2008 seguita al crollo finanziario americano e della successiva crisi ‘degli spreads’ della zona euro. Dopo la crisi finanziaria, le politiche di austerità hanno causato un’ulteriore profonda caduta della nostra economia, basta guardare al pil e ai dati dell’occupazione per rendersene conto. In ogni caso, da una grande recessione come è stata quella del 2008 non si esce se non ci sono politiche finalizzate alla ripresa. Politiche che i paesi della “periferia europea”, con gravi problemi di debito di bilancio pubblico sulle spalle, non hanno potuto attuare. Anzi sono stati spinti dalle scelte di politica economica nell’Eurozona a fare politiche che hanno prima molto accentuato la recessione e poi ostacolato la ripresa. L’Italia all’inizio del 2020, prima della pandemia, si trovava in una situazione, per quanto riguarda i livelli di produzione e quelli di occupazione misurati in ore di lavoro, inferiori a quelli del 2007. In 12 anni non siamo riusciti a ritornare al punto in cui eravamo.

E in un simile scenario è entrata in campo la pandemia.

La crisi determinata dalla pandemia ha ovviamente causato la chiusura delle attività produttive e una parte di queste, penso a quella dei servizi ricreativi, della cultura, dello spettacolo, del turismo, continueranno a soffrire fino a quando non saremo fuori dall’emergenza sanitaria. È ancora presto anche solo per immaginare una ripresa della nostra economia al cento per cento: tornare ai livelli precedenti, e lo abbiamo visto con la doppia crisi di cui abbiamo appena parlato, richiede tempi lunghi e politiche economiche di ampio respiro. Ci dobbiamo quindi aspettare una sofferenza dell’economia ancora per qualche tempo – quanto esattamente dipenderà dalle politiche economiche introdotte, oltre che dall’evoluzione della pandemia. Negli ultimi mesi la politica economica un po' in tutti i paesi ha necessariamente indirizzato le risorse al sostegno dei redditi delle famiglie e della liquidità delle imprese. In tal modo è possibile limitare la caduta del PIL legata alle misure di contenimento del virus. Gli Stati Uniti, però, hanno speso il 15 per cento del pil per questo tipo di politiche. Lo stesso ha fatto la Germania. L’Italia ha speso il 5 per cento. La Spagna addirittura il 3. E parliamo di due dei paesi maggiormente colpiti. Queste differenze sono ovviamente legate ai timori determinati dall’elevato debito pubblico pregresso, dal timore di indebitarsi ulteriormente e che, nel breve termine, venga chiesto una rapida riduzione del debito.

A tutto ciò va aggiunta un’incertezza di fondo nell’assetto europeo. Banalmente: non sappiamo quando si tornerà alle vecchie regole fiscali, ma è comunque solo questione di tempo.

Non sappiamo se la Banca centrale continuerà a sostenere i paesi europei acquistando titoli del debito pubblico come, per esempio, fa la Banca centrale statunitense. Non sappiamo quando torneranno in vigore le regole fiscali e monetarie europee. Questo ha determinato prudenza da parte di alcuni stati. Una cosa è certa: questa crisi accentuerà ulteriormente le divergenze che in Europa erano già ben presenti. La pandemia aggraverà le differenze territoriali all’interno dell’Ue.

Cosa accadrà quando le regole europee, leggasi le misure di austerità, torneranno in vigore?

Gli strumenti introdotti per fronteggiare la crisi, penso al recovery fund, sono semplicemente in contrasto con il patto di stabilità che, se reintrodotto, rischia di inficiare quello che di buono è stato fatto. Tornare al passato, alla normalità, rischia di aprire il baratro. C’è una contraddizione di fondo tra le misure approvate e le regole attualmente sospese. Più spesa significa più debito.

Ma i paesi che spenderanno di più avranno con molta probabilità una minore caduta del pil. Risparmiare, quindi, significa sì non indebitarsi, ma al tempo stesso determina una forte caduta del pil, e quindi anche un aumento del rapporto debito pil, che è invece proprio il rapporto che all’Italia si chiede di ridurre.

Dobbiamo renderci conto di un dato di fatto: l’austerità, alla fine, non riduce il rapporto tra debito pubblico e pil, anzi se attuata troppo severamente e in periodi di recessione o stagnazione economica lo fa aumentare, come è già accaduto in Italia tra il 2011 e il 2013: le severe politiche di tagli e aumento dell’IVA allora adottate hanno determinato un aumento del rapporto debito-Pil di oltre dieci punti percentuali. Per uscire da questa crisi l’unica strada è una spesa pubblica che rilanci l’economia. Servono investimenti e consumi pubblici con un elevato coefficiente moltiplicatore, che abbiano un impatto importante sul pil. Che senso ha stanziare miliardi di euro per fare investimenti nei paesi in crisi se, in parallelo, si tornano a chiedere politiche di tagli alla spesa? L’effetto espansivo sarebbe impercettibile, per non dire nullo.

Torniamo per un momento ai problemi dell'Italia e agli investimenti necessari.

L'Italia oggi, anche a causa della fortissima riduzione del personale nel settore pubblico, non è in grado di supportare tutto l'apparato dei servizi, dalla sanità alla scuola. Come si può anche solo pensare ad altri tagli? Il nostro paese sta già facendo miracoli per mantenere un livello civile di servizi, anche se un po’ a macchia di leopardo. La cosa è semplice: non c'è più niente da tagliare. I tagli sono stati il problema. L'unica strada è investire.

Però dall'Europa stanno arrivando risorse importanti.

Bisogna fare attenzione a che gli interventi di spesa non siano troppo frammentati. Dovremmo approfittare della possibilità di spendere i 209 miliardi di recovery fund, che dovremo peraltro a medio-lungo termine restituire quasi per intero, per affrontare i grandi nodi strutturali del nostro paese, della nostra economia, della nostra società. A me sembra che le questioni centrali, oggi, siano la digitalizzazione del nostro territorio, il sistema dei trasporti, dal servizio ferroviario nazionale ai trasporti pubblici urbani che necessitano di un importante investimento di potenziamento e di manutenzione. E poi le grandi infrastrutture (ponti, strade) e la manutenzione dell'edilizia pubblica, delle scuole, degli ospedali. Sono tutti settori che potrebbero avere un forte impatto sul pil.

Poi, ovviamente, c'è tutta la partita del green, del risparmio energetico, della riconversione. Sarebbe molto importante usare i fondi per la digitalizzazione o per la riconversione ecologica del paese per completare o creare filiere italiane che oggi non ci sono: non ha molto senso stanziare miliardi di euro per acquistare lavagne digitali, tablet, pc per le nostre scuole se dobbiamo acquistarli da multinazionali tedesche, cinesi o americane. O importare pannelli solari che non produciamo. Serve creare delle filiere di produzione, e quindi di occupazione, nel Paese. Questo è un tema che dovrebbe interrogare la sinistra in maniera compatta. Temo molto invece il ritorno del tema della riduzione delle tasse, a meno che non si tratti di redditi da lavoro dipendente particolarmente bassi, e dei sussidi e delle facilitazioni fiscali alle imprese. Questi ultimi, soprattutto se distribuiti a pioggia, non hanno alcuna efficacia nel rilanciare l’economia.

Questa crisi ha aumentato ancora di più le disuguaglianze. La cosa che noto è una sorta di assuefazione al problema. Un esempio: sui giornali si parla tanto di southworking come di una bella storia. Mi riferisco ai tanti giovani e ai tanti lavoratori che sono tornati a casa, al sud, "sfruttando" lo smartworking. Ma l'altra faccia della medaglia di questa storia è la forte questione territoriale che dovrebbe interessare il nostro paese. E ancora, sempre in termini di disuguaglianze: per l'ennesima volta abbiamo assistito a una crisi che ha colpito soprattutto i giovani e le donne. Le chiedo: quanto è diseguale, oggi, questo paese davanti al covid-19?

L'Italia è un paese diseguale, punto. L'Italia è un paese ancora più diseguale davanti alle crisi, in generale, perché i primi a pagare - è inevitabile - in ogni settore sono i meno tutelati. E i meno tutelati, in Italia, sono i giovani e le donne, che più frequentemente sono i lavoratori in nero, precari, atipici, temporanei. A questi negli ultimi anni si sono aggiunti anche i lavoratori con contratti a tempo indeterminato che però, grazie al jobs act, di cui sembriamo ormai esserci dimenticati, possono essere licenziati senza giusta causa in cambio di un piccolo risarcimento economico.

Questa crisi, inoltre, ha colpito più del solito le donne perché, a differenza delle crisi precedenti, non ha riguardato soprattutto il settore manifatturiero, che in media vede impiegati più uomini, ma quello dei servizi, del turismo, della cultura dove c’è una presenza femminile elevata. La questione meridionale è un problema atavico che spesso va a braccetto con quello generazionale. Mi riferisco, ovviamente, ai tantissimi giovani che vanno verso il nord, o all’estero, per studiare prima e lavorare poi. Però attenzione a vedere il problema come risultato di un conflitto generazionale, che sarebbe fuorviante. Sui giovani si è semplicemente scaricato in misura maggiore, perché sono un segmento più vulnerabile, il classico conflitto sociale e distributivo perché di questo si tratta, il cui obiettivo è la svalutazione del lavoro per aumentare i profitti. Se alla maggiore ricattabilità dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro si somma la disparità territoriale che inizia invece già dall'università, è chiaro che siamo davanti a un problema strutturale. Questo è stato negli ultimi anni ulteriormente alimentato dalla diminuzione delle risorse per la scuola e le università, che ha pesato di più su quelle meridionali. In generale, questo è avvenuto nel contesto dei tagli alla spesa pubblica: la spesa per l’istruzione si è ridotta del 20 per cento circa dal 2007 in poi, in modo continuo, chiunque fosse al governo. Eppure, sembra essere un tabù parlarne.

L'Europa che ha approntato queste misure è la stessa Europa che è stata il, o almeno parte importante, del problema. Come si può immaginare che la stessa Europa diventi, dall'oggi al domani, la soluzione? Servono riforme nell’eurozona che non ci sono state.

Noi ci lamentiamo del nostro paese, ma la macchina europea, dal punto di vista istituzionale e regolativo, è contorta e lenta. Siamo davanti a un pachiderma che si muove con grande difficoltà e fortissime contraddizioni e conflitti interni, al cui cospetto la burocrazia italiana è un topolino. L'unica strada per uscire da questa situazione è usare il buon senso e comprendere la reale natura della Unione Europea come terreno di conflitto e negoziazione tra interessi diversi. Andrebbero modificate molte regole e trattati per rendere questa Unione europea almeno più vivibile per i suoi cittadini e più dinamica dal punto di vista economico e sociale, ma è bene sapere che si tratta di una strada molto impervia e molto incerta nei suoi esiti.

Per concludere: lei nel suo ultimo libro, “Lavoro e salari - un punto di vista alternativo sulla crisi” (L'Asino d'oro edizioni, Roma, 2020), pone l’accento su come le scelte economiche fatte negli ultimi anni abbiano avuto effetti sui diritti. Penso a quanto questa pandemia abbia smascherato gli errori di alcune decisioni in tema di sanità. Lei crede che i cittadini, con questa emergenza sanitaria, abbiano sviluppato un senso di difesa dei propri diritti? Per essere chiaro: quanto sarà difficile, ora, far accettare alla cittadinanza dei tagli alla sanità?

Mettiamola così: oggi sarebbe difficile pubblicare su un qualsiasi quotidiano, come spesso invece accaduto in passato, editoriali che sostenevano che la strada da seguire in tema di sanità fosse quella statunitense, cioè privatizzare tutto. Tuttavia, se è aumentata la consapevolezza dell’importanza dei servizi pubblici, non è detto che i cittadini siano sufficientemente informati e consapevoli delle scelte politiche. Complici mezzi di informazione non sempre di buona qualità, credo che nel recente passato molti cittadini non si siano resi conto dei tagli fatti e della privatizzazione strisciante della sanità attuata in molte regioni.

Ora però ci siamo – purtroppo – resi conto di quanto siano importanti i reparti rianimazione e i pronto soccorso degli ospedali pubblici. Dal punto di vista culturale credo che qualcosa sia cambiato. La domanda è: questo si incarnerà in qualcosa di organizzato ed efficace? Penso alle forze politiche, alle forze sociali e a quelle sindacali, chiamate a riprendere il loro ruolo di “sorveglianti” dei diritti e a dar sostanza a un possibile cambiamento.

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