Alcuni hanno considerato Spettri di Marx il libro più importante scritto nell’ultimo mezzo secolo da un filosofo di primo piano e dedicato a Marx. Altri, soprattutto marxisti, hanno considerato questo libro come l’occasione per un’adesione tardiva (sempre che si tratti di adesione) di Derrida al marxismo, adesione in grado di nobilitare una carriera votata a un nichilismo inconcludente.
Sia come sia, questo libro c’è, e bisogna farci i conti. Non basta citarne qualche frase per arricchire una propria uscita con un frammento di un accademico figo. Oppure bollarlo in blocco come un testo farraginoso, esagerato, eccessivo, baracco.
Bisogna dedicargli l’attenzione che merita e mostrare la torsione che imprime al marxismo novecentesco, soprattutto alla Moneta e alla Valorizzazione del capitale. Bisogna misurarsi con il «Paradosso dell’iterabilità» – essa (l’iterabilità) fa sì che l’origine debba originariamente ripetersi e alterarsi per valere come origine, cioè per conservarsi (Nome di Benjamin).
L’iterabilità non impedisce una certa sostanzializzazione. Ecco perché occorre stare in guardia contro i suoi pericoli. In più, l’iterabilità che opera nell’origine – o in una cosiddetta accumulazione originaria – non si consuma, ma agisce in ogni atto in cui la moneta o il capitale si pongono ogni volta nuovamente in gioco in uno scambio – e non solo in uno scambio con il lavoro.
In virtù di questa legge della iterabilità, la distinzione – che regge la tesi circuitista – tra Moneta (emessa originariamente dalla banca centrale) e Denaro (usato nelle transazioni ordinarie), perde la sua consistenza.
La moneta non agisce mai come un mero segno del valore, non è uno strumento di una ragioneria spicciola, implica sempre la messa in conto di una forza trasformatrice. Il potere non si esprime solo nell’atto dell’emissione della Moneta, ovvero nel momento del suo ingresso nel circuito – presunto atto inaugurale, fondativo, originario.
Il concetto di Banca di emissione e di prestatore di Ultima Istanza, e soprattutto il concetto di Ultima Istanza, devono essere rivisti. Allo stesso modo il concetto di dominante e idea dominante devono essere sottoposti alla stessa torsione.
Ci sono tre luoghi, forme e poteri, dice Derrida – il Discorso espressamente politico della “classe politica”, il discorso mediatico, quello intellettuale, scientifico e accademico – più che mai saldati insieme attraverso gli stessi apparati o attraverso apparati indissociabili.
Questi apparati sono senz’altro complessi, differenziali, conflittuali, sovra-determinati. Ma quali che siano i loro conflitti reciproci, le ineguaglianze o le sovra-determinazioni, essi comunicano e concorrono tutti a ogni istante verso il punto di maggiore forza, per assicurare l’egemonia o l’imperialismo.
Quando parliamo di «discorso dominante», dice Derrida, parliamo dentro il codice marxista. Non dobbiamo negare o dissimulare il carattere problematico di questo gesto. Certuni, dice, non avrebbero affatto torto nel denunciarvi un cerchio o una petizione di principio.
Nonostante questo problema, e l’evidente precarietà, se non inconcludenza, di un discorso «a dominante», Derrida non si tira indietro, accetta – e non può non accettare – l’eredità marxista, e si affida, almeno provvisoriamente (dice), a questa forma di analisi critica, ricordandosi, dice, di sospettare della semplice opposizione del dominate e del dominato, anzi della determinazione ultima delle forze in conflitto.
Anzi, più radicalmente, del fatto che la forza sia sempre più forte della debolezza (Nietzsche e Benjamin, dice, ci hanno incoraggiato a dubitarne, ognuno a suo modo, e soprattutto quest’ultimo, attraverso l’associazione del «materialismo storico» all’eredità, appunto, di qualche «debole forza messianica»).
Come è possibile che la forza del forte sia più debole della debolezza?
Anche la debolezza ha una sua forza, ma dire che essa è più forte del forte non è evidente.
Sino a quando la forza viene sostanzializzata o considerata come proprietà di un soggetto, è evidente che non si esce dallo schema per cui le idee dominati sono quelle della classe dominante oppure che la ragione del più forte è sempre la migliore.
Il ricorso alla parola «forza», dice Derrida (Forza di legge), è molto frequente, oserei dire decisivo in alcuni punti strategici dei miei scritti, ma, allo stesso tempo, è sempre o quasi sempre accompagnata da una riserva esplicita, da un avvertimento. Ho sempre richiamato alla vigilanza, anche me stesso, circa i rischi che questa parola fa correre: rischio di un concetto oscuro, sostanzialista, occulto-mistico; rischio anche di un’autorizzazione concessa alla forza violenta.
Contro i rischi sostanzialisti o irrazionalisti, la prima precauzione consiste per l’appunto nel ricordare il carattere differenziale della forza. Si tratta sempre di forza differenziale, della differenza come differenza di forza, della forza come différance o forza di différance (la différance è una forza differita-differente).
Il Denaro, ad esempio, ha un potere d’acquisto. Questo potere, questa forza di comandare il lavoro altrui (in questo caso il lato debole della forza), non è sostanza, non è stabile, non coincide assolutamente con il valore facciale del denaro, ovvero con ciò che fa di un comune Denaro (carta, metallo, chip) una Moneta.
Il lavoratore può, ha in riserva la possibilità, ovvero il potere, di poter dire no. Non è assolutamente scontato – come pensa la stragrande maggioranza, anzi, come pensiamo tutti noi, quando teniamo stretta e accumulata in tasca una riserva di valore – non è scontato che questa riserva, in una data circostanza, abbia la forza di comandare il debole – che il credito che si vanta verso il debitore (il debole) sia esigibile.
La forza del Denaro di comandare il lavoro deve ancora misurarsi con il comandato, deve ancora produrre l’effetto per cui essa è la forza più forte. Ecco un aspetto del circolo. La forza come effetto possibile – non sicuro – di se stessa.
In un frammento della primavera del 1888 (14,173), parlando del dolore – ovvero del piacere contrapposto al dolore – Nietzsche dice che il dolore è qualcosa di diverso dal piacere, ma non è il suo contrario. Il piacere è condizionato da una successione ritmica di piccoli stimoli di dispiacere. Così avviene per esempio per il solletico, anche per il solletico sessuale nell’atto del coito: vediamo qui che il dispiacere agisce come ingrediente del piacere.
Sembra un piccolo impedimento che viene superato e a cui segue subito un altro piccolo impedimento, che viene a sua volta superato – questo gioco di resistenza e vittoria suscita nel modo più forte quel sentimento generale di potenza eccedente e sovrabbondante che costituisce l’essenza del piacere.
A questo punto non ci sarebbe piacere propriamente detto. Soprattutto, visto che il piacere è una successione ritmica di piccoli dispiaceri, non ci sarebbe opposizione tra dispiacere e piacere. L’uno non sarebbe la negazione dell’altro. Non essendoci negazione, non ci sarebbe nemmeno Aufhebung. La dialettica di padrone e servo non vi opererebbe. Non c’è alcuna pienezza, dice Derrida (Speculare – su “Freud”), non c’è origine piena.
La cosa comincia nel ritornare, nel tendere verso l’annullamento del proprio processo. Il piacere [la forza del forte] s’incontrerebbe per strada. Niente piacere prima e niente piacere dopo, ma solo durante, al passaggio del passo. Tutto come se fosse il piacere a limitarsi incessantemente, trattando con se stesso, contraendosi per prepararsi a se stesso, per produrre, risolvere, rigenerare, perdere e conservare se stesso.
Manifestandosi come una specie di contro-piacere, una tensione contrapposta ad un’altra nel limitare il piacere e renderlo così possibile, un contrarsi per poi slanciarsi. Tutto avverrebbe allora nel quadro delle differenze di messa in tensione.
L’economia non è generale. Spesso, sotto questo nome, si intende un’economia semplicemente aperta ad un dispendio assoluto. Qui, fin nel suo cedimento ultimo, l’economia sarebbe un’economia di strettura (un’economia ristretta).
L’obiettivo polemico di Derrida è Bataille e il suo hegelismo senza riserve, e in generale tutte le economie cosiddette del dono, contrapposte alle economie della riserva. Se l’origine è un effetto di una manovra retroattiva, mancherebbe la fonte da cui attingere per il primo passo – non ci sarebbe una carica iniziale da dissipare in un dispendio, non ci sarebbe una dotazione originale, propria, che verrebbe regalata, donata, ceduta (a titolo oneroso o a titolo gratuito).
Non ci sarebbe dotazione originale, a meno che, per permettere il primo passo, non si prenda a prestito, e si sostenga la spesa senza possibilità di ammortamento. Contraendo un debito insolvibile e assumendo impegni senza che nessuno possa onorarli o rispondere per essi. Cosicché il debitore e, prima di tutto, il teorico che ha promesso più di quanto sia in grado di mantenere, si sa insolvibile. Lo speculatore si troverebbe in stato fallimentare.
L’impegno a trattare una questione diverrebbe un debito, se non proprio una colpa che egli non riparerà più. Un debito speciale – direi impossibile – perché deve anticipare non solo la dotazione ma anche i contraenti – anche qui movimento e contrattempo decidono tutto.
Bisogna rimarcare subito questo doppio movimento. La teoria del circuito non prende in considerazione questo contrattempo, finendo per sostanzializzare l’atto di emissione. L’apertura del credito è frutto di una decisione. Teleologicamente, e unidirezionalmente, la decisione percorre la strada che porta la Moneta nelle mani dei contraenti, i quali la usano e poi la rimettono alla banca centrale – in un giro molto hegeliano.
Nel circuito la moneta diventata Denaro, produce un saldo pari a zero. Se si considera la classe dei capitalisti come un insieme – dice Graziani (La teoria marxiana della moneta); se i loro bilanci vengono consolidati, il saldo degli scambi reciproci (interni alla classe) risulta pari a zero. Per ora non mi interessa notare che qui Graziani parla di Denaro, mentre invece conteggia con Moneta. Mi interessa mostrare come lo scambio tra capitalisti sia avviato da un gesto performativo – quello della banca centrale – che con fiat money permette al ciclo di girare su se stesso – salvo produrre un saldo pari a zero.
Come fa l’atto performativo a fissarsi?
Ecco cosa ci interessa qui. Ed ecco cosa mette in chiaro il libro di Derrida. Non si tratta di un movimento secondario, perché è proprio dal modo in cui il performativo produce il suo effetto che ne va della felicità del gesto. In più, se non si prende in conto il contrattempo di cui parla diffusamente Derrida in Spettri di Marx, si cade pari pari in una metafisica della presenza, in una teleologia o in una teologia.
Tutto ciò, il prestito, l’anticipo e tutto il resto, non si consumano solo all’avvio del ciclo economico. Come chiarisce bene Nietzsche, il piacere – potere di acquisto – è una successione ritmica di piccoli dispiaceri. Il potere si costituisce, si rinforza (to enforce), acquisisce rispettabilità e potenza, per effetto di continui piccoli stimoli. Non è una riserva che può essere dilapidata in un Potlatch – non ci sono sostanze precostituite o emesse da una banca centrale, da una ultima istanza di potere. Il potere – o meglio – la potenza arriva in ritardo su se stessa.
Infine, bisogna considerare questo contrattempo, dunque questo circolo, sotto la legge della iterabilità – anche per evitare ogni accusa di empirismo, di nichilismo, di neo-liberismo.
Per il neo-liberismo – non ci sono dubbi – siamo sempre in presenza di Denaro; la Moneta non esiste.
Anche per Stirner, che sotto questo aspetto può essere accostato al nichilismo del neo-liberismo, la Moneta è un aldilà per svalutare l’aldiqua e al quale immolare la propria differenza. La Moneta è quel metro con il quale si vuole ridurre ogni differenza umana ad un modello unico di uomo – l’Uomo. E quest’uomo è ciò che va bene per il capitalismo, per il consumismo, per l’industria culturale o dei media, eccetera eccetera.
Ciò a cui bisogna invece rimettersi è l’idea che ognuno è differente, che ognuno è misura di se stesso, e che, in verità, propriamente, non ci sono misure – niente può commisurare la mia unicità a quella di chiunque altro. Ciò che sperimentiamo è solo la differenza che separa gli uni dagli altri. La proprietà e tutto il resto sono effetti dello scontro della domanda e dell’offerta, un risultato dello scontro tra le forze in campo – un effetto differenziale di questo scenario agonistico, polemico. Ciò che è di mia proprietà è mio perché l’ho strappato a te con la forza, eccetera. Il quadro è conosciuto non c’è bisogno di insistere.
Ora, come è noto, e come è stato autorevolmente evidenziato più volte (Hegel, Enciclopedia § 37-45; Husserl, Ricerche logiche, Prolegomeni), questo approccio empirista presuppone l’uso di universali che, occultamente, dunque acriticamente, sono adoperati per sviluppare istanze relativiste.
La posta di Derrida è molto vicina a Hegel – vicina fino al punto da apparire quasi indistinguibile.
Al teleologismo di Hegel, fortemente contestato da Stirner, Derrida sostituisce la telepoiesi che è generazione per innesto, congiunzione simultanea, senza corpo proprio, del performativo e del constativo.
Il cerchio, dice Derrida (Politiche dell’amicizia), produce forse l’avvenire, ecco ciò di cui bisognerebbe prendere atto, per quanto sembri impossibile. Nel cerchio di Hegel alla fine si ritrova ciò che era posto sin dall’inizio – non succede nulla, non si crea nulla. Anche nel cerchio di Derrida (e di Nietzsche) forse non succede nulla – forse dice Derrida. È proprio a questo forse (peut-être) che Derrida appende la possibilità della venuta dell’avvenire, della venuta del totalmente inedito, di ciò che non ci si attendeva – del prodotto nuovo.
Anche qui, per sottrarre l’avvenire (la creazione, la poiesis) ad ogni forma di sostanzializzazione (genio, lavoro, uomo, autore, eccetera) Derrida introduce, molto in assonanza con Hegel, ma proprio per opporlo a Hegel e a ogni teleologia, il concetto di Cattiva possibilità.
Un possibile che, dice Derrida (Politiche), fosse solo possibile (non impossibile), un possibile sicuramente e certamente possibile, anticipatamente accessibile, sarebbe un cattivo possibile, un possibile senza avvenire, un possibile già scartato, per dir così, sicuro della sua vita. Sarebbe un programma o una causalità, uno sviluppo, uno svolgimento senza evento. Di questo genere è il possibile hegeliano.
Il buon possibile deve contemplare l’apertura all’impossibile, alla catastrofe, alla deriva, alla perdita, al peggio.
Che cosa sarebbe l’avvenire, dice Derrida, se la decisione fosse programmabile e se l’altra, l’incertezza, la certezza instabile, se l’insicurezza del “forse”, non vi si sospendesse sin nell’apertura di ciò che avviene, direttamente nell’evento, in lui e a cuore aperto? Che cosa resterebbe da venire se l’insicurezza, se la sicurezza limitata del forse, non trattenesse il suo respiro in un’”epoca”, al fine di lasciare apparire o di lasciar venire ciò che viene, per aprire, appunto, disgiungendo necessariamente una certa necessità dell’ordine, una concatenazione di cause ed effetti?
Questa sospensione, dice Derrida, l’imminenza di una interruzione, la si può chiamare l’altro, la rivoluzione e il caos, il rischio, a ogni modo, di una instabilità. L’instabile o il non-affidabile è ciò che, secondo Platone e Aristotele, non è bébaios (non è fermo, costante, sicuro e certo, affidabile, credibile, fedele). Sia pure nella sua forma ultima o minimale, l’instabilità dell’inaffidabile consiste sempre nel non consistere, nel sottrarsi alla consistenza o alla costanza, alla presenza, alla permanenza o alla sostanza, all’essenza o all’esistenza, come a ogni concetto di verità che sarebbe loro associato.
La buona possibilità, buona in quanto totalmente inanticipabile, richiede quel movimento circolare del fort-da-sein. Nessuna venuta del totalmente nuovo – dunque della rivoluzione – senza fort-da, nessuna venuta fuori del circolo del fort-da.
Nel tema arcinoto dell’Ape e dell’Architetto (Capitale, I), Marx, a proposito dell’Architetto, mostra un esempio di Cattiva Possibilità. L’Architetto idea la cella e poi la realizza seguendo il progetto che ha in testa. La presenza cosciente dell’Architetto alla totalità dell’operazione implica teleologicamente che nessun resto sfugga alla totalizzazione presente. Non si dà alcun resto, dice Derrida (Firma Evento Contesto), nessuna disseminazione che sfugga all’orizzonte dell’unità di senso. Altri esempi, prodotti col sostegno o meno di Aristotele, si trovano anche nella Introduzione del 57.
Il comunismo, in quanto movimento che abolisce la presenza del presente, non può essere anticipato da un’idea o da un ideale, richiede una struttura diversa dell’anticipazione, una struttura che si muova nel circolo del fort-da o di ciò che Nietzsche propone nel frammento del 1888 (14,173).
La Buona Possibilità non richiede necessariamente un resto o una disseminazione o una polisemia. Se la polisemia o il resto fossero richiesti necessariamente, si tratterebbe di Cattiva Possibilità. La Buona Possibilità, tra le altre, serba la possibilità del senza resto. Il caotico, di per sé, non è un segnale di Buona Possibilità. Esempi di buona possibilità si trovano nei Lineamenti (II,71).
La possibilità dell’insuccesso del comunismo deve far parte della sua struttura. Solo a questo livello il comunismo si dà come qualcosa di mai visto – di nuovo, di inedito. Tutto il resto – il piano, l’intervento pubblico, la programmazione, eccetera, non sono il comunismo. Sono qualcosa che, in una certa misura, fa parte, come realtà effettiva o come progetto (Cattiva possibilità), di questo mondo.
Ciò non vuol assolutamente dire che adesso non ci sia bisogno di piano, di progetto, eccetera – tutt’altro. Vuol dire soltanto che tutti questi interventi non sono il comunismo, né tanto meno ne assicurano la venuta, anche se possono agevolarne la venuta. Non sono una tappa o un momento verso il comunismo, per il motivo che il comunismo non è anticipabile in un piano; se lo fosse non sarebbe quel movimento che abolisce il presente, ma, al contrario, quel movimento che rinforzerebbe o perfezionerebbe, in un movimento teleologico, dunque pilotato e controllato, tele-controllato, il presente.
Dunque, da cosa è anticipato il comunismo, visto che senza una struttura d’anticipazione, esso non può venire, non può essere chiamato, riconosciuto, atteso?
Nel prodursi di un episodio che nel suo sorgere si vuole singolare deve agire una struttura di ripetizione. Proprio in quanto questa ripetizione è pensata da Derrida (e da Nietzsche) non come una struttura trascendente (idea, significato, logos, eccetera), ma come struttura immanente (fort-da-sein) essa non restituisce il medesimo, come si crede che lo restituisca una struttura iterativa, una rotativa, una pressa, una macchina.
La macchina (il fort-da-sein), in quanto esiste, è la garanzia della buona possibilità. Il performativo non s’invola nel significato, non ritorna identico a se stesso nell’idea, non dà un risultato zero, come in una contabilità da ragionieri.
Il performativo si fissa sul quaderno, sulla carta, sul chip, sul silicio, sul supporto magnetico, sulla tabula mnemonica, sul notes magico, questa fissità permette di misurare il valore, di apprezzare le merci, con quella precisione che garantisce un’unità di conto ideale – logico-matematica – ma con quello slancio sul buon possibile cui solo un da-sein è aperto.
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