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24/09/2020

Walter Benjamin e Asja Lacis

La storia del movimento comunista del ‘900 è piena di figure come queste due. Intellettuali di grandissimo spessore, attivisti sperimentatori e visionari, artisti geniali, ecc.

Il loro rapporto con le organizzazioni – “il Partito” – raramente è stato “tranquillo”, checché recitasse la teoria dell'”intellettuale organico”.

Figure impossibili da organizzare nelle modalità standard, ma fondamentali per lo sviluppo stesso del movimento operaio e comunista che, quando non è riuscito più a trattenerli nelle proprie vicinanze o ha fatto l’errore di “comprimerli”, ha perso molto. In qualche caso fino all’incartapecorimento.

Spunti di riflessione indispensabili, negli anni ’20 del XXI secolo, quando tutto è praticamente da costruire ex novo.

*****

«Se lei m’avesse sfiorato con la miccia del suo sguardo, io sarei volato in aria come un deposito di munizioni» (W. Benjamin, Strada a senso unico – «Armi e munizioni»).

Il 5 maggio del 1924, nell’incanto primaverile dell’isola di Capri in cui, seguendo i consigli degli amici Erich Gutkind e Florens Christian Rang ha deciso di trovare ‘rifugio’ per sfuggire a depressione psichica e a preoccupazioni economiche e dedicarsi alla stesura del suo lavoro sull’Origine del dramma barocco tedesco, il trentunenne Walter Benjamin conosce Asja Lacis (nota anche come Anna Lazis).

È una giovane rivoluzionaria russa allora trentaduenne, una lettone di Riga che si occupa di regia teatrale e che è un’importante pioniera del teatro sovietico per l’infanzia.

Resta come folgorato da quella giovane militante comunista dai tratti esotizzanti che lui osserva da diverse settimane dal suo tavolo al Caffé «Zum Kater Hiddigeigei», gestito da una coppia tedesca.

Per chiarire il proprio stato d’animo, riferendo del «miracolo» di quella nuova relazione all’amico Gershom Scholem, Benjamin si slancia in seguito, il 16 settembre, in impegnative metafore dal sapore biblico:

«Ci sono poi le vigne, che appartengono anch’esse alla categoria dei fenomeni miracolosi di queste notti. Certamente le hai conosciute, quando i frutti e le foglie scompaiono nella nera oscurità, e si cercano a tastoni i grossi grappoli, con cautela per non essere sentiti e scacciati. Ma c’è anche molto altro, cose che forse i commenti del Cantico dei cantici permettono di capire ancor meglio».

Un banale e casuale gesto del quotidiano ha favorito quell’incontro: una volta la bella sconosciuta si reca in piazza insieme alla figlioletta Daga, di cinque anni, per comprare un cartoccio di mandorle, ma non sa come spiegarsi in italiano, e dal canto suo il rivenditore non capisce cosa lei voglia.

Si ferma allora accanto a lei un signore che le chiede se può esserle d’aiuto. Lei risponde: «Con piacere», e può così avere le sue mandorle. Ma quando lei attraversa la piazza, lo sconosciuto la segue e le chiede se può accompagnarla e portarle la borsa della spesa. Mentre lei lo osserva, lui continua: «Permetta che mi presenti: dottor Walter Benjamin». A sua volta, lei gli dice il proprio nome.

A distanza di anni, nel suo libro di memorie Professione rivoluzionaria (1971), Asja ne restituirà l’impressione seguente: «Occhiali che mandavano bagliori come due piccoli fari, folti capelli scuri, naso sottile, mani maldestre (la borsa gli cadde di mano). Insomma, un solido intellettuale, un benestante. Mi accompagnò a casa, si congedò e chiese il permesso di venirmi a trovare. Venne già il giorno seguente...».

Le visite serali all’avvenente bolscevica di cui Walter s’è perdutamente invaghito s’infittiranno, le conversazioni con lei, che in una lettera del 7 luglio 1924 all’amico Scholem egli decanta come «una delle donne più notevoli» da lui mai conosciute, si protrarranno a volte fin oltre la mezzanotte e diverranno sempre più frequenti, per la gioia dell’intelletto e dei sensi.

E insieme a lei e alla bambina si fa vedere lungo i sentieri dell’isola e raggiunge spesso in gita Napoli, la città nell’altra parte del golfo che, con l’esuberanza vitale delle sue manifestazioni e con la «porosità» dei suoi ambienti, esercita su di loro un’attrazione magnetica.

Dopo una di queste escursioni le propone di scrivere insieme un articolo, Napoli, che tuttavia uscirà sulla «Frankfurter Zeitung» a nome suo e di Asja soltanto nell’agosto dell’anno successivo.

Benjamin è ancora sposato con una donna sicuramente avvenente (che nella cerchia degli studenti berlinesi suoi amici di gioventù veniva indicata come “die sehr schöne”, “la bellissima”): Dora Sophie Kellner, figlia dell’illustre sionista viennese Leon Kellner (amico di Theodor Herzl e docente di anglistica all’Università di Vienna), già coniugata con il giornalista Max Pollak, dalla quale ha avuto il figlio Stefan.

Sta però allora attraversando un momento di forte crisi coniugale (ha dovuto persino lasciare il proprio alloggio berlinese nella Delbrückstrasse), complicatasi nel 1921 allorché egli si accende di «veemente passione» per la scultrice Jula Cohn, sorella di uno dei suoi intimi amici di gioventù e moglie dell’amico Fritz Radt, mentre in parallelo Dora s’innamora del comune amico Ernst Schoen.

È una crisi che si concluderà di lì a qualche anno (nel marzo 1930) con un tumultuoso e per lui costoso processo di divorzio, che egli chiederà per la donna incontrata a Capri.

Dal canto suo Asja, precedentemente sposata con Julijs Lacis, da cui ha divorziato nel ’19, l’anno in cui è nata la loro bambina Daga, in quel momento è legata al regista teatrale Bernhard Reich, che da Berlino in aprile l’ha accompagnata sull’isola per curare un’affezione alle vie respiratorie di Daga, e che già in maggio era ritornato in Germania.

L’incontro caprese con questa «bolscevica lettone» che aveva studiato cinematografia e scienze teatrali a Mosca e che nel 1923 aveva lavorato con Brecht come assistente alla regia nella messinscena della Vita di Edoardo Secondo d’Inghilterra, segna il punto di partenza di un’amicizia e di un’esaltante, sofferta e tempestosa relazione destinate a introdurre nell’esistenza di Benjamin una svolta decisiva, aprendolo al confronto con le luci e le ombre dell’esperienza rivoluzionaria sovietica e producendo in lui – come egli stesso annota nella già menzionata lettera all’amico Scholem – una sorta di «emancipazione vitale», l’«intensiva visione dell’attualità di un comunismo radicale», prospettiva che inquieterà non poco l’amico, grande studioso di mistica ebraica.

Non è un caso che, alcuni anni più tardi, in uno splendido passo del suo Diario maggio-giugno 1931 redatto nella Francia meridionale, in un periodo di profonda stanchezza e rassegnazione, riflettendo il 6 maggio sulle «tre grandi esperienze d’amore» della propria vita Benjamin inserisca idealmente Asja in un terzetto di figure femminili considerate come incarnazioni tangibili del «vero amore» e destinate a risultare per lui – insieme alla moglie Dora Kellner e alla scultrice Jula Cohn, ispiratrici esistenziali del suo grande saggio «Le affinità elettive» di Goethe, edito nel 1924.

Ognuna di queste tre donne amate gli si rivela come fonte di trasformazione, di «trasformazione-assimilazione», producendo – ciascuna a suo modo – la nascita e la crescita di un Walter nuovo:

«Ogni volta che un grande amore si è impadronito di me, ne sono stato a tal punto cambiato, ma da capo a piedi, che mi son dovuto dire, molto stupito: ero proprio io l’uomo che diceva cose così imprevedibili e che ha assunto un comportamento così inopinato? Tale constatazione si basa sul fatto che un vero amore mi rende simile alla donna amata (…) Questa trasformazione-assimilazione – che è a tal punto indispensabile da essere sostanzialmente garantita, nella concezione chiesastica dell’unione, dal sacramento del matrimonio, perché nulla rende le persone più simili fra loro che il vivere insieme in stato matrimoniale – è stata nel caso mio più impressionante durante la relazione con Asja, al punto da scoprire in me, allora, parecchie cose per la prima volta. Nel complesso le tre grandi esperienze d’amore della mia vita hanno condizionato quest’ultima non solo sotto il profilo dello svolgimento, della periodizzazione, ma anche sotto il profilo dell’esperienza. Io nella mia vita ho conosciuto tre donne diverse e tre uomini diversi in me. Scrivere la storia della mia vita significherebbe raccontare l’ascesa e la caduta di questi tre uomini e il compromesso fra di loro, ovvero – si potrebbe anche dire – il triumvirato che costituisce adesso la mia vita».

La nuova relazione si riflette nella vita di Walter determinando, oltre che un rimescolamento dei sensi, anche un mutamento sul piano ideologico e una spiccata nitidezza di stile rispetto a taluni testi precedenti.

Egli stesso, in una lettera del 22 dicembre 1924 a Scholem, parla di una «svolta» che lo fa inclinare a non mascherare più «i momenti attuali e politici» dei propri pensieri, ma a «svilupparli, sperimentalmente, in forma estrema».

Asja, dal canto suo, confiderà a Hildegard Brenner, curatrice del suo volume di memorie Professione rivoluzionaria: «Nessun comunista ha saputo mai illustrarmi con tanto acume i contrasti di classe. Poteva farlo soltanto chi avesse il socialismo nel cuore».

Walter dimostra un forte interesse per il teatro moscovita, per il nuovo stile di vita introdotto dal socialismo, per gli scrittori e i poeti nuovi e per il lavoro teatrale con i bambini di strada che Asja ha svolto a Orel, Riga e Mosca, esperienza sulla cui scia egli redigerà pochi anni dopo, nel 1928, il suo Programma di un teatro proletario per l’infanzia, vero e proprio tributo a lei nel quale si confronta con il teatro pedagogico e fa tesoro dell’esperienza da lei descrittagli.

Nel suo libro di ricordi Professione rivoluzionaria Asja annoterà: «Questi commenti esplicativi furono scritti a Berlino intorno agli anni Venti. Essi dimostrano lo spirito di quegli anni, in cui l’intellighenzia di provenienza borghese avidamente s’impadroniva dei caratteri di una nuova società e andava in cerca di confini per la propria sostanza spirituale. Uno sguardo d’insieme al Programma dimostra chiaramente con quale simpatia Benjamin seguisse l’esperimento comunista dell’Unione Sovietica».

Quanto al libro sul barocco di cui Walter le offre degli assaggi, Asja deve probabilmente aver sorriso – da comunista amante della prassi e della concisione – delle acutezze epistemologiche che lo caratterizzano.

Quando, alla vigilia di Natale del 1926, a Mosca lui le legge la nuova versione della fiaba della Bella addormentata che ha concepito come «Premessa al libro sul Trauerspiel», lei taglia corto, lo rimanda alla sostanza delle cose, dicendogli che deve semplicemente scrivere: «Respinto dall’Università di Francoforte».

Dopo i sei mesi della loro frequentazione caprese (dal 5 maggio al 10 ottobre 1924) Walter resta pieno di attese nei confronti di Asja. La rivede più volte a Berlino nell’autunno 1924. E nel novembre dell’anno successivo, a sorpresa e pieno di speranze, le fa visita a Riga, dove lei dirige un teatro illegale dell’Agitprop. (Di questa visita si ha un’eco nel brano Armi e munizioni presente in Strada a senso unico.)

Lei è però all’oscuro del suo arrivo, è tutta presa dal lavoro teatrale, e stavolta non gradisce quell’arrivo non annunciato («Veniva da un altro pianeta», ricorderà, «non avevo tempo per lui»).

Poco dopo, nel dicembre del 1926, Benjamin si reca a Mosca per raggiungere l’amata e insieme per conoscere la realtà sovietica, che potrà osservare nelle sue luci e nelle sue ombre, cogliendo l’avvio della stalinizzazione della politica culturale sovietica. Il suo Diario moscovita (edito postumo nel 1980 dai francofortesi solo dopo la scomparsa di Asja) è la testimonianza di un amore struggente che deve ora misurarsi però con una situazione tutt’altro che agevole, tra speranze, attese, piccole gratificazioni e insieme sofferenze e delusioni: Asja, fuggita da Riga a Mosca per sottrarsi al rischio di un arresto per la sua attività illegale, è ricoverata in un sanatorio (la Clinica Rott) situato in prossimità di Via Gor’kij, in seguito a un esaurimento nervoso insorto in settembre.

Walter fa visita ad Asja quotidianamente, la corteggia, esce a volte con lei per le strade della capitale sovietica, le fa visita alla clinica, le reca dolci o regali, le racconta le impressioni avute dagli incontri con gli intellettuali moscoviti, le parla dei progetti, del diario che sta redigendo e del libro di notazioni aforistiche che ha in gestazione e che a lei dedicherà: Strada a senso unico, che verrà pubblicato nel 1928 («Questa strada si chiama VIA ASJA LACIS dal nome di colei che, da ingegnere, ne ha aperto il tracciato nell’autore», forse a dimostrazione che egli – come Asja commenterà – «aveva cambiato radicalmente la sua concezione del mondo e aveva trovato la strada», e sicuramente intendendo riconoscere con la metafora dell’«ingegnere», una formula cara ai costruttivisti e ad altri circoli dell’avanguardia, il ruolo da lei svolto nel dischiudergli il paesaggio urbano che il suo libro viviseziona con una tecnica di montaggio decisamente innovativa).

Walter spera che Asja si riveli meno sorda di quanto non si sia dimostrata a Capri nei riguardi del suo libro sul barocco, che per lei equivale a confrontarsi con una «letteratura morta»; ma l’ottica non è mutata, e lei gli fa «le solite osservazioni». E spera ogni giorno di ritrovare un istante di intimità, un gesto, uno sguardo di tenerezza, specialmente il suo sguardo quando lo fissa a lungo («Non ricordo una donna che abbia concesso sguardi e baci così lunghi»).

Qualche giorno prima di Natale le confida addirittura il desiderio di avere un figlio da lei, e così di «esserle legato». I gesti di affetto da parte di Asja, però, sono rari, e se arrivano sono inaspettati. E poi c’è sempre Reich, come terzo incomodo, anche se la sua presenza è divenuta indispensabile per Walter, che non si destreggia con il russo e che ha bisogno di qualcuno che gli apra le porte del mondo culturale sovietico.

Di fatto nello stato d’animo di Asja non mancano tratti di ambivalenza, che lo sconcertano: lei sembra alternare «dolcezza» e «freddezza», «amore e disappunto». E il loro confronto moscovita risulta costellato di liti, scene di gelosia e umiliazioni, che scandiscono una relazione sentimentale contrassegnata da conflitti e incomprensioni.

Nella singolare liaison à trois, in cui Benjamin cerca di evitare Reich che pure ammira per l’intelligenza e lo spirito critico, Asja gli appare come una sorta di «fortezza pressoché inespugnabile». Lei gli si nega, gli lesina i suoi baci. E lui, che in una cartolina postale inviata nel gennaio all’amico Siegfried Kracauer confessa di sentirsi «da settimane alle prese col gelo fuori e col fuoco dentro» (DM, 147) e che cerca una felicità impossibile nella storia d’amore con Asja, si sente assalito da «irritazione contro di lei e amore per lei», in quella Mosca un po’ estranea in cui rischia di congelare.

In fondo, Asja resta prigioniera dei propri sentimenti ambivalenti, che permangono sino al momento della partenza di Benjamin. Nel momento del distacco, Walter non saprà nascondere le lacrime, sebbene l’amata sia già lontana. Nelle ultime righe del Diario moscovita, il 1° febbraio 1927, a conclusione di un corteggiamento infelice egli annota:

«Andammo in slitta fino a casa sua, stretti stretti. Era buio. L’unico buio che avevamo avuto insieme a Mosca, in mezzo alla strada e sullo stretto sedile di una slitta ... Là scese e, mentre la slitta stava già ripartendo, portai ancora una volta, in piena strada, la sua mano alle mie labbra. Asja restò a lungo a farmi cenni di saluto. Io ricambiavo dalla slitta. Prima mi sembrò che si fosse voltata e si allontanasse, poi non la vidi più. Con la grande valigia in grembo, percorsi piangendo le strade che imbrunivano, verso la stazione».

Tutto sommato, Walter resta comunque in balìa dell’indecisione, di quell’indecisione che segna costantemente la sua vita, che gli impedisce ad esempio di aderire al Partito comunista (scelta che potrebbe garantirgli una posizione solida in quanto intellettuale), lasciandosi aperta una scappatoia dalla ‘strada a senso unico’ sovietica, oppure di seguire Asja, di legarla a sé.

In un passo del Diario moscovita riconosce di essersi, in fondo, sottratto a un «futuro con lei»: quando a Capri non era «fuggito» con lei, quando aveva rifiutato di accompagnarla da Roma ad Assisi e a Orvieto, quando nell’estate del ’25 non l’aveva seguita in Lettonia e quando, nell’inverno dello stesso anno, non s’era voluto impegnare ad aspettarla a Berlino. E poi si sente un perdente rispetto a Reich, che Asja alla fine sposerà.

Cercherà, è vero, di superarsi, di mettersi alla prova qualche mese più tardi, vivendo con lei a Berlino in uno spazioso appartamento nella Düsseldorferstraβe durante la permanenza di Asja nella capitale tedesca (in quanto referente culturale per la sezione cinema presso l’Ambasciata sovietica) e chiedendo nel febbraio dello stesso anno a sua moglie Dora il divorzio proprio «per sposare Asja», come riferito da Gershom Scholem nella sua Storia di un’amicizia.

Ma l’esperimento durerà soltanto due mesi: dal dicembre 1928 al gennaio 1929. E prima ancora che il processo di divorzio sia concluso, sul finire del 1929 Asja (che nel frattempo gli ha fatto conoscere Brecht, mentre Walter a sua volta l’ha introdotta nei circoli culturali più elitari e invitata alle discussioni con i futuri fondatori della ‘Scuola di Francoforte’ nella località climatica di Königstein) torna a Mosca.

Dopo il 1930 non avranno più la possibilità di rivedersi: il loro contatto sarà soltanto epistolare, perlomeno fino al 1936, anno in cui Asja in un tedesco sgrammaticato gli scrive di provare «una fortissima nostalgia di lui, un sentimento che sa forse di Medioevo» e che dovrebbero «rivedersi presto».

Dal canto suo, in una lettera di fine febbraio 1935, Walter riconosce che la regista lettone intensamente e soffertamente amata resta per lui «su uno dei pochi punti elevati e fortificati» ancora esistenti nella sua «‘anima’ già piuttosto inondata».

Quasi tutte le lettere di Benjamin ad Asja dopo il ’36 sono andate perdute, insieme alle poesie che egli ha scritto per lei. Lei stessa, che apprenderà della tragica fine di Walter solo molti anni dopo – ne offre la spiegazione in Professione rivoluzionaria: «Fui costretta a trascorrere dieci anni in Kazakistan». Dall’‘Arcipelago Gulag’ fece ritorno nel 1948, e visse quindi a Riga e Mosca spegnendosi ottantottenne nel 1979.

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