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24/09/2020

Ancora con queste favole sul Recovery Fund?

Messe da parte le elezioni regionali, metabolizzato il referendum taglia-rappresentanza, con un gigantesco sospiro di sollievo dei complici di governo (ed anche dell’opposizione fascioleghista), il chiacchiericcio politico è tornato sui vecchi tormentoni: cosa fare col Recovery Fund e prendere una decisione definitiva sull’utilizzo del Mes.

Il copione non è cambiato: la narrazione ufficiale parla di una vagonata di miliardi che “stanno per arrivare dall’Europa” e tutti i battibecchi vertono sul che farci.

I nostri lettori abituali dovrebbero ormai sapere che le cose non stanno affatto così, ma repetita juvant, anche perché se il chiacchiericcio resta fermo su questo tema non è che si possa far finta che tutti sappiano e abbiano capito. Anche perché la materia è tecnicamente ostica (non a caso) e anche i nostri sforzi di “divulgazione” non sempre risultano di facile lettura.

Ci aiutiamo, questa volta, con un tombale editoriale di Teleborsa, a firma dell’implacabile Guido Salerno Aletta, dal titolo A Bruxelles piace il passo dell’Oca.

Parte subito col piede sull’acceleratore: “Con il Recovery Fund si prepara un nuovo manicomio burocratico che ci farà impazzire. È più di una camicia di forza, un vero e proprio letto di contenzione. Il calcolo astruso dell’output gap o del NAWRU, previsti per rientrare nei parametri del Fiscal Compact, era solo un gioco da ragazzi.”

Due spiegazioni ci vogliono, con le sigle oscure. L’output gap è un criterio di valutazione della capacità di produrre ricchezza di un Paese, adottato dall’Unione Europea come uno dei tanti “parametri divini”. Anche se si base su un’unità di misura arbitraria. L’output reale di un Paese (il suo Pil effettivamente prodotto) viene messo a confronto con quello “potenziale”, e la differenza (gap) che ne risulta viene considerata positivamente (se è bassa) o negativamente (se è alta).

Il problema che l’output “potenziale” non esiste. È una “stima”, un auspicio, un augurio. “si poteva fare meglio...”, insomma, ma per metterci un numero te lo devi inventare.

Peggio ancora con il NawruNon-Accelerating Wage Rate of Unemployment – che indica il tasso di disoccupazione “ideale”. Che sarebbe poi quello che non fa crescere i salari perché ci sono abbastanza disoccupati da scoraggiare richieste di aumenti in busta paga.

Almeno è un criterio chiaro, che illumina qual è la priorità per l’”Europa solidale”: tenere gli stipendi bassi, il più basso possibile.

Ma questo era il “paradiso” del Fiscal Compact, temporaneamente sospeso insieme al “patto di stabilità” anche per il 2021. Nessuno avrebbe infatti potuto rispettarli, nemmeno la “virtuosa” Olanda che proprio ieri ha registrato un -9,4% nel Pil del secondo trimestre.

La situazione del Recovery Fund è peggiore perché è stato disegnato come un percorso ad ostacoli sui quali, prima o poi, cadrai.

Il criterio base è infatti: “Più soldi si chiedono e più sarà alto il grado di interferenza di Bruxelles: altro che vincolo esterno, stavolta ci entrano fin dentro casa.”

Vediamo come avviene. Quelli che nei talk show festeggiano “pensano di spendere comodamente intanto i 65,4 miliardi di euro di grant”. Ossia le “sovvenzioni“, “somme da non restituire in quanto saranno finanziate con il contributo degli Stati membri. Pensano, ingenui che non sono altro, di poter incassare tutto subito, e poi di spendere liberamente.”

Non è così, lo ha ricordato pure Gentiloni (oggi Commissario europeo).

Partiamo dal “successo” vantato da tutti: “L’Italia intanto verserà annualmente il proprio contributo per finanziare questo Fondo Straordinario della Unione, in proporzione al proprio PIL registrato nel 2019; ma in cambio riceverà assai di più, per tenere conto della gravità della crisi sanitaria ed economica che l’ha colpita”.

Non è del tutto falso, ma “nessuno finora ha tirato giù i saldi complessivi, del dare e dell’avere”. Può essere, ma anche no...

“In ogni caso, il totale di queste ‘sovvenzioni’ previste per il Recovery Fund a favore dei 27 Paesi dell’Ue è di 312,5 miliardi; di questi, il 70% va impegnato tra il 2021 ed il 2022, ed il restante 30% entro il 2023.” La cifra è ovviamente da ripartire tra tutti i paesi membri, non riguarda solo l’Italia. E la “rateizzazione” implica che ad ogni passaggio ci sia una verifica di quel che si è fatto e, nel caso, si ferma l’erogazione della rata successiva.

Messi da parte i grant (contributi detti impropriamente “a fondo perduto”, in gran parte o totalmente soldi che deve mettere lo Stato italiano), vediamo la parte dei veri e propri prestiti (loan). “Per l’Italia ci sarebbero teoricamente 119 miliardi di euro. Ma si tratta di un meccanismo ancora tutto da mettere in piedi.”

In realtà, come detto, è un percorso a ostacoli: “a partire dal 15 ottobre prossimo, in pratica tra una ventina di giorni, i singoli Stati possono cominciare a presentare alla Commissione i primi Piani Nazionali per la Ripresa e la Resilienza (PNRR), con la scadenza ultima fissata a fine aprile 2021”.

Questi piani saranno ovviamente “valutati” entro due mesi, soppesando se rispettino o no “le raccomandazioni specifiche che sono state elaborate per ciascun Paese”. Noterete che siamo arrivati a fine giugno e di soldi (a parte i 20 miliardi di “anticipo”) ancora non se ne vedono.

La valutazione, peraltro, “ è un elenco sterminato di ‘prediche’ e di richieste di riforme strutturali, che vanno dalla lotta all’evasione fiscale alla riduzione della spesa per le pensioni che è eccessiva”. La differenza con il passato è che questa volta quelle “raccomandazioni” sono ordini. Se non vengono rispettati (spendendo per altri scopi o non tagliando quel che è stato indicato), ci saranno conseguenze immediate.

Anche perché nella valutazione in quella fase entrano altri criteri, come l’output gap, la creazione o no di posti di lavoro (privati, of course...), ecc. Il tutto si traduce, come a scuola, in un “punteggio” che assegna il peso più alto al rispetto delle “raccomandazioni specifiche per il singolo Paese”.

Per capire quanto sia “stringente” questo esame, “Il contributo recato alla transizione verde e digitale è addirittura una precondizione ai fini di una valutazione positiva”. Per un paese che non ha quasi più un’industria informatica ed è di manica larga con le imprese quanto a rispetto del rispetto dell’ambiente, non è esattamente una passeggiata...

Tanto più che, spiega Salerno Aletta, le due voci sono articolate fin nei dettagli:

“per la transizione verde, al fine di conseguire la neutralità climatica entro il 2050 e la riduzione significativa delle emissioni di gas entro il 2030, la spesa relativa al clima dovrà ammontare almeno al 37%. Occorrono dunque riforme ed investimenti nel campo dell’energia, dei trasporti, della decarbonizzazione dell’industria, dell’economia circolare, della gestione delle acque e della biodiversità. Bisogna pure accelerare la riduzione di emissioni tramite la rapida distribuzione di energie rinnovabili e di idrogeno, l’efficienza energetica degli edifici, gli investimenti nella mobilità sostenibile, la promozione di infrastrutture ambientali e la protezione della biodiversità. Per la transizione digitale e produttività, bisogna dedicare almeno il 20% delle risorse richieste.”

Se siete arrivati fin qui, comincerete ad avere il fiatone. Ogni ostacolo, infatti, è sempre più alto, largo, pieno di spuntoni...

E non siamo che all’inizio, perché – anche se è stato sospeso temporaneamente il patto di stabilità – “C’è da rispettare il requisito della Stabilità macroeconomica, un punto assai dolente per l’Italia che ha un elevatissimo rapporto debito pubblico/PIL. [...] l’equilibrio della finanza pubblica rimane un requisito fondamentale: gli investimenti pubblici devono aumentare, ma senza compromettere questo vincolo. Ci aspettano tagli su tagli.”

Non è difficile da capire: devi spendere di più, altrimenti crolla l’economia del Paese, ma per farlo devi tagliare spese “improduttive”. Come pensioni, sanità, istruzione, assistenza sociale, ecc.

Il tutto in una giungla di indicazioni e raccomandazioni tutte ultimative: “i PNRR dovranno essere coerenti con le informazioni contenute nei Programmi nazionali di riforma nell’ambito del Semestre europeo (PNR), nei Piani nazionali per l’energia e il clima (PNIEC), nei Piani territoriali per una transizione giusta, negli Accordi di partenariato e nei programmi operativi a titolo dei fondi dell’Unione.” Guai se ne manchi uno...

Ci sono altri “criteri” e paletti, disseminati a iosa e in mano a eurobrucrati dalla matita rossa, ma se avete pazienza e fiato potete leggerli sull’articolo originale.

Qui possiamo fermarci intanto ai tempi: se tutto va bene – ma sarà difficile, visto che i “frugali” hanno preteso e ottenuto un “diritto di veto morbido”, che permette a ognuno di loro di rimettere in discussione anche le “valutazioni” della Commissione – siamo a settembre dell’anno prossimo. Se la “seconda ondata” della pandemia sarà clemente (cosa che non sembra affatto...).

Una cosa è chiarissima, alla luce di questo percorso infernale: l’Italia e altri Paesi mediterranei (quasi tutti con un serio problema di debito pubblico, Francia compresa) non avranno alcuna autonomia decisionale su come impostare i propri programmi di investimento con fondi pubblici.

Qualsiasi sia la coalizione al governo... e questo spiega il sospiro di sollievo anche dei fascioleghisti per la vittoria del “sì”, che impedisce di poter sciogliere le Camere prima del 2022-2023 (dopo l’elezione del prossimo Presidente della Repubblica). Che avrebbero potuto raccontare mai ai propri elettori, dovendo tagliare le pensioni, aumentare le tasse sui carburanti, ecc.?

E si comprende anche la conclusione non ottimista del pezzo di Salerno Aletta: “Si va oltre la robotizzazione: si mette in atto una vera e propria militarizzazione burocratica e politica, con gli Stati che devono marciare inquadrati, al passo dell’Oca.

Il Recovery Fund inchioda gli Stati ai tavoli burocratici, con vincoli di ogni genere e procedure defatiganti.

A Bruxelles piace il passo dell’Oca”
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Naturalmente per “contrastare il fascismo risorgente”... O no?

Fonte

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