L’euro e l’Unione Europea sono un’opportunità per alcuni e una disgrazia per altri, che a lungo andare potrebbe diventare “insostenibile”.
A dirlo, una volta tanto, non siamo soltanto noi e qualche ex “euro-critico” rapidamente passato al campo opposto (vedi certi economisti leghisti o liberi pensatori grillini), ma il governatore della banca centrale olandese.
Klaas Knot è noto per essere, insieme al tedesco Jens Wiedmann, un membro del board della Bce che ha sempre contrastato – nei limiti del possibile e della maggioranze variabili – le politiche monetarie non convenzionali elaborate da Mario Draghi. Utili a non far esplodere il mercato finanziario, ed anche a far diventare i loro titoli di Stato “a costo sottozero”, ma “dannose” per i profitti della rispettive banche nazionali.
La “rivelazione” è avvenuta nel corso della sua lectio magistralis alla Hendrik Jan School, tre giorni fa. Ma c’è voluta una lunga serie di premesse e puntualizzazioni, prima di arrivare al punctum dolens.
Cuore dell’analisi di Knot è stata naturalmente la crisi innescata dalla pandemia, che ha colpito tutte le economie ma con maggior forza quelle dei paesi euromediterranei, che già arrancavano. Un dato di fatto, non una “colpa”, che ha motivato il sì anche dei “frugali” al famoso Recovery Fund, poi ribattezzato Next Generation EU.
Ma il “sì” è arrivato solo dopo un ridisegno della proposta iniziale che ne potenzia, per un verso, le “condizionalità” cui dovranno sottostare le politiche pubbliche dei diversi Stati, sia la natura non comunitaria degli impegni presi.
Conviene seguire il ragionamento di Knot per capire come e quanto smentisca la “narrazione” fatta da Gualtieri-Conte-Di Maio e compagnia cantando.
Il banchiere centrale olandese riconosce che «La forza della proposta si basa non solo sul suo aspetto collettivo, ma anche sulla sua natura temporanea». In pratica “ci si indebita tutti, ma ognun per sé”, senza creare alcun meccanismo di generazione di “eurobond”, ossia di titoli di stato europei garantiti dall’insieme dei Paesi membri.
Una toppa temporanea, insomma, che non implica trasferimenti di risorse da un Paese all’altro, come avverrebbe in uno Stato vero e proprio (tipo “i fondi per il Mezzogiorno”, nell’esperienza italiana).
La motivazione, secondo Knot, è semplice: «i trasferimenti strutturali (cioè permanenti) da un paese all’altro possono condurre rapidamente a cattivi rapporti, come abbiamo potuto osservare in qualche caso. Per questo, il fondo è temporaneo, non ci sono trasferimenti diretti tra paesi, e nessun paese Ue si assume la responsabilità dei debiti di un altro paese».
Sia detto per inciso, questa è l’ammissione che non c’è alcuno “spirito europeo”, ma solo una terribile competizione tra impulso “sovranazionale” proveniente da imprese multinazionali/capitali finanziari e una serie di interessi nazionali (“sistemi-paese”), peraltro in perenne contrasto tra loro sulla base dei rapporti di forza. Detto in altri termini, la “sovranità” è contesa tra “mercati” e “nazioni”, con i popoli relegati a far da claque e donatori di sangue.
Il governo italiano racconta ogni giorno un’altra storia, e lo si può capire, perché altrimenti le sue promesse diventerebbero credibili quasi quanto quelle della destra. Zero.
Segnato questo successo nell’azione dei “frugali”, l’olandese riconosce che tuttavia il Recovery Fund non basta a risollevare le economie del Sud Europa. Anche perché il debito pubblico già consistente è esploso per l’adozione delle misure di supporto che ogni Stato ha dovuto prendere.
Una dinamica che rende impossibile, oltre che stupido, proseguire con le politiche di austerità per tentare di avvicinare i famosi parametri di Maastricht (3% nel rapporto deficit/Pil e 60% in quello debito/Pil).
Però Knot non cambia il vecchio format. Ammette che in Olanda (e Germania) si possano aumentare le imposte sulle società – una brutta notizia per le migliaia di aziende straniere, tra cui moltissime italiane, attirate lì da una tassazione da paradiso fiscale – e ridurre quelle sulle buste paga dei lavoratori, sicuramente molto alte.
Ma «Nei paesi del Sud servono quelle [riforme strutturali, ndR] per aumentare la competitività e ridurre i debiti pubblici, che devono essere riportati al 60% del pil». Come prima, peggio di prima, anche se l’obbiettivo è irrealistico pure per lui: «Anche con le politiche appropriate, paesi come Grecia e Italia avrebbero bisogno di decenni per arrivare dove dovrebbero stare».
Ma se le politiche di austerità non sono in grado di ridurre il debito pubblico (anzi: lo hanno fatto crescere ovunque), in che modo si potrebbe aggredire il problema senza una condivisione europea di questo debito?
«Un’altra opzione sarebbe la ristrutturazione dei debiti – ammette Knot – ma ha di fronte ostacoli enormi: comporterebbe gravi perdite per le banche locali, con fughe di capitali e il rischio di diffondere una crisi bancaria a macchia di leopardo nel resto d’Europa».
Lo scenario appare senza via d’uscita, sia per Knot che per chiunque. La politica monetaria non è affatto in grado di risolvere questo tipo di problemi, e dunque serve un «grande accordo tra i governi Ue basato su un allineamento molto stretto delle politiche economiche, un accordo che implichi reciprocità, una giusta divisione dei diritti e delle responsabilità, oltre alla cessione di una quota di sovranità nazionale, un prezzo, quest’ultimo, che richiede coraggio».
Come dimostrato dal Consiglio Europeo di fine luglio, i “paesi frugali” sono gli ultimi a voler “cedere sovranità” (e condividere debiti e rischi). Anche perché sono stati quelli che hanno guadagnato sia dalle regole europee che dall’introduzione dell’euro; e dunque non intendono perdere quel vantaggio acquisito.
Quindi anche la “via politica” consigliata da Knot dovrebbe passare per la cruna di un’ago che nessuno sa come allargare. Come dicono alcuni pasdaran europeisti “ci vorrebbe più Europa”, con il prezzo che dovrebbe essere pagato da chi può permetterselo ma non vuole (aziende multinazionali e Paesi del Nord).
Ergo, i rischi diventano enormi.
«Possiamo anche scegliere di non lavorare per un’Europa più integrata e con più rischi condivisi – spiega infine Knot – ma questo comporta un prezzo da pagare: più diseguaglianza tra i paesi europei, più crisi dei debiti, più interventi di emergenza, minore prosperità. Ciò potrebbe rendere l’euro insostenibile. E in un’economia globalizzata, temo che questo prezzo finirebbe per essere pagato, ancora una volta, dalla gente comune, alla quale ho pensato nel preparare questa lezione».
Al di là della conclusione “populista” – cui non si può proprio credere, visti i precedenti – avanza il fantasma che, nella more della crisi precedente, Mario Draghi aveva respinto pronunciando il famoso whatever it takes a difesa della moneta unica, definita “irreversibile”.
Se ora, dai vertici stessi della Bce in versione teutonico-olandese, si guarda all’euro come ad un vincolo potenzialmente “insostenibile”, vuol dire che qualcosa nelle fondamenta sta iniziando a marcire.
E non sarà un dettaglio.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento