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17/09/2020

La maionese può impazzire


In questi giorni verranno a sintesi alcuni snodi che determineranno, in una direzione o in un’altra, gli scenari politici dei prossimi mesi o dei prossimi anni.

C’è il referendum più pazzo del mondo sul taglio dei parlamentari e ci sono le elezioni in sette regioni.

Il primo è nato già sbagliato, le seconde vengono presentate, come al solito, come l’ultima spiaggia.

Il referendum si è riempito di incognite e trasformismo, che ne confermano il male originario.

I referendum in materia costituzionale sono una cosa seria, ma è dal 2001 (quello sul federalismo) che la politica – in modo del tutto trasversale – ci gioca sopra con un avventurismo e una visione corta che spiega bene il degrado politico e sociale che abbiamo davanti agli occhi.

Usare i referendum in materia costituzionale come strumento per la tenuta o la fine di un governo è indecente da ogni punto di vista. Come diceva Calamandrei “i banchi del governo devono essere vuoti quando si parla di Costituzione”.

Vale a dire che in ogni discussione costituzionale si deve valutare il testo e non il contesto. Perché si decide su regole che dovranno valere per tutti, per decenni; dunque anche per singoli e frazioni politiche che non ci saranno più o che non sono ancora nati.

In questo c’è il senso dell’importanza delle leggi generali di un intero Paese e della società racchiuse in una carta costituzionale. Al contrario, utilizzarne le modifiche in base alle necessità elettorali del momento è meschino, ma soprattutto avventurista. Un avventurismo che accomuna centro-sinistra, centro-destra ed ora M5S.

È evidente come tale approccio, del tutto strumentale, non possa che produrre trasformismo e cambiamenti repentini di posizione che meriterebbero il pubblico disprezzo.

Praticamente tutti i partiti in Parlamento hanno votato “Sì” alla legge che riduce i parlamentari per puro calcolo elettorale di breve termine. Ma adesso assistiamo a repentini voltafaccia che indicano il “No” alla conferma della legge in sede referendaria. Il problema non ci tange, perchè, come abbiamo spiegato e motivato da tempo, noi siamo convintamente schierati per il NO.

Le motivazioni sono le più indecenti, soprattutto perché – arbitrariamente – l’esito del referendum sul taglio dei parlamentari viene legato a quello delle elezioni regionali, ossia due cose completamente diverse tra loro, per importanza e per competenze.

Se vince il Sì e il Pd non perde in Toscana la legislatura rimane com’è fino al 2023. Ma anche perdendola, non cambierebbe poi molto, se non sul piano degli strepiti propagandistici finto-contrapposti.

Se vince il No e il Pd perde anche la Toscana, invece, non essendoci più la norma costituzionale che riduce i parlamentari, le Camere potrebbero invece essere sciolte per andare ad elezioni anticipate.

A quel punto la “maionese è impazzita”.

Come vediamo si tratta di scenari di veduta corta, congiunturali in ogni caso, che nulla hanno a che vedere con l’importanza della materia costituzionale, né con la definizione di una prospettiva per il paese dentro la crisi e la perdurante emergenza Covid.

È evidente come nella posta in gioco dei prossimi mesi ci siano anche le decine di miliardi di finanziamenti europei da gestire e da spartire. Certo si dovrà e potrà spendere come dice l’Unione Europea, ma chi avrà le mani sul malloppo, seppur parzialmente legate, avrà a disposizione una leva di potere e di consenso rilevante.

Infine, ma questo riguarda soprattutto il nostro mondo, si pone seriamente il problema di rendere visibile e credibile una alternativa a questo perverso intreccio di visione corta e fallimento delle classi dirigenti, aumento delle disuguaglianze e delle insicurezze sociali nel paese, evidenza degli effetti devastanti dei modelli competitivi, individuali o generali che siano.

Sta in questo la responsabilità che dovrà assumersi Potere al Popolo, soprattutto se – a differenza delle disastrose esperienze della sinistra – riuscirà a crescere senza perdere l’anima.

Potere al Popolo ha accettato questa sfida solo nelle realtà locali dove dispone di un minimo di insediamento sociale e credibilità, rifiutando così la logica elettoralista che vede la partecipazione alle elezioni come un certificato di esistenza in vita.

È innegabile che questa sfida avviene tutta in controtendenza. Sia sul piano dei conflitti sociali, che stentano a farsi sentire e, lì dove pure agiscono, a farlo in modo coordinato. Sia sul piano politico, dove una oggi necessaria prospettiva collettiva di cambiamento e transizione sociale, ambientale, civile si scontra con l’egemonia del pensiero “corto” e dell’individualismo.

È sempre bene ricordare però che l’unica battaglia persa in partenza è quella che si è deciso di non combattere, e che quando si ha la ragione, ma non la forza, occorra lavorare proprio a costruirla.

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