La lettera
che il neopresidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha inviato ai
presidenti delle associazioni confederate ha fatto capolino sulle pagine
dei giornali, attirando l’attenzione anche dei sindacati, per il
provocatorio riferimento ai “nuovi contratti rivoluzionari” che gli
industriali vorrebbero firmare. L’espressione ha fatto giustamente
scalpore, ma una lettura complessiva della lettera fa emergere, in
maniera ancora più limpida, la visione di Confindustria nella sua
interezza, e ci suggerisce quali saranno i temi su cui lottare nel
prossimo futuro e quali i fortini da difendere. L’armamentario retorico
padronale, infatti, emerge in tutta la sua limpidezza – condito dalle
parole d’ordine dell’antistatalismo e del parassitismo che da sempre
contraddistinguono il capitalismo italiano – ma è sulle relazioni
sociali e sulla struttura istituzionale del mercato del lavoro che
Bonomi indugia con particolare interesse.
Cogliendo l’occasione di criticare il blocco dei licenziamenti e l’estensione della Cassa Integrazione,
strumenti di tutela dei lavoratori invisi ai capitalisti e ai loro
portavoce politici, Bonomi richiede un’accelerazione della riforma degli
ammortizzatori sociali. Richiede dunque, il completo passaggio – in
buona parte, a dire il vero, già compiuto dal governo Renzi – da un
sistema di ammortizzatori sociali cosiddetto in costanza di rapporto di lavoro ad
un sistema basato interamente sulle politiche attive e sulla ricerca di
un nuovo lavoro da parte del disoccupato. Fare un po’ di ordine ci
servirà non solo a scopo esplicativo, ma anche al fine di segnalare
quali sono gli interessi che si vogliono intaccare dietro la retorica
edulcorata del riformismo del mercato del lavoro.
Prima del Jobs Act, infatti, il
sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione in Italia era
sostanzialmente basato su forme di trasferimento – cassa integrazione
guadagni (CIG) e indennità di mobilità – non condizionate alla ricerca
del lavoro, e che mantenevano comunque il lavoratore in prossimità del
proprio posto di lavoro. Questa logica è stata superata quasi
definitivamente dal Jobs Act che con la NASPI ha introdotto clausole
stringenti per cui si perde il diritto al sussidio e ha spezzato il
legame tra lavoratore e posto di lavoro. Prima del Jobs Act, infatti, il
sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione in Italia era
sostanzialmente basato, oltre che sulla cassa integrazione guadagni,
sull’indennità di mobilità per i lavoratori licenziati. L’indennità di
mobilità non era condizionata alla ricerca di un’occupazione e manteneva
comunque in vita la possibilità del reintegro nel rapporto di lavoro,
in quanto per i primi sei mesi dalla cessazione i lavoratori avevano una
sorta di “diritto di prelazione”, avendo l’azienda l’obbligo, in caso
di nuove assunzioni, di assumere prima i lavoratori in mobilità. Questa
logica è stata superata quasi definitivamente dal Jobs Act, che con la
NASPI, oltre ad aver eliminato il diritto di prelazione, ha introdotto
clausole stringenti, in base alle quali se il lavoratore non accetta
determinate offerte di lavoro, perde il diritto al sussidio. In tal
modo, la riforma ha contribuito a rendere più labile il legame tra
lavoratore e posto di lavoro. Inoltre, sono state introdotte
condizionalità anche per i beneficiari di CIG con una sospensione o
riduzione dell’orario di lavoro superiore al 50%.
Ammortizzatori sociali e sussidi di
disoccupazione così come le tutele contro il licenziamento e i contratti
a tempo indeterminato sono da anni sotto costante attacco da parte
delle Istituzioni internazionali ed europee e dunque dei governi
nazionali. In particolare, sussidi e ammortizzatori hanno subìto uno
drastico ridimensionamento (nelle eligibilità e nelle prestazioni)
poiché si ritiene, in accordo con la teoria economica dominante,
che sussidi troppo generosi possano indurre il lavoratore a permanere
nello stato di disoccupazione. Emerge quell’odioso approccio al problema
della disoccupazione la cui colpa ricadrebbe interamente sul
lavoratore. Secondo questa logica, dunque, ridurre la durata del
sussidio, accompagnarlo a clausole di condizionalità e alla ricerca
‘attiva’ di una nuova occupazione ridurrebbe l’azzardo morale del
lavoratore e lo incentiverebbe a trovare un nuovo lavoro – indipendentemente dal fatto che tale lavoro ci sia o meno.
Proprio le clausole di condizionalità, vale a dire l’obbligo di
partecipare alla formazione professionale e di non rifiutare un’offerta
di lavoro definita ‘congrua’, rappresentano un potente strumento
di indebolimento del potere contrattuale del lavoratore. Il rischio di
perdere il sussidio, infatti, impedirà di continuare la ricerca di un
impiego meglio retribuito costringendolo ad accettare un lavoro
indipendentemente dalle proprie aspirazioni. Il corollario di tali
misure – e qui entriamo nel campo dell’inganno semantico – sono le
famigerate politiche attive del lavoro a gran voce richieste da
Bonomi. Esse, lungi dall’essere la panacea per i mercati del lavoro
saturi di disoccupati, rappresentano il modo in cui la fiscalità
generale si fa carico della formazione professionale dei lavoratori secondo l’interesse delle imprese,
nella vana speranza che ciò serva a creare posti di lavoro quando
invece non si fa altro che fornire manodopera formata con soldi pubblici
al servizio dei profitti privati. Su di esse fa particolare affidamento
proprio chi dà una spiegazione della disoccupazione dal lato
dell’offerta, vale a dire chi ritiene che la disoccupazione dipenda dalle caratteristiche proprie del disoccupato, e che basterebbe dunque avere caratteristiche in linea con la domanda di lavoro per essere occupati. Ma quando la domanda di lavoro stagna a
causa di una domanda aggregata azzoppata dalle rigide regole di
bilancio e dal contenimento dei salari, non vi è speranza di aumentare
l’occupazione.
Il mondo padronale naturalmente
stravede per queste misure e, per voce di Bonomi, richiede che ci si
muova ulteriormente su questo solco affinché, si legge, vengano
nettamente distinte la parte dell’importo del sussidio di natura
assicurativa e la parte strettamente condizionata all’attività
formativa. Non solo superare completamente quel “retaggio novecentesco”
rappresentato dalla CIG, ma incrementare le condizionalità che gravano
sulle spalle dei lavoratori.
Come gran parte della letteratura
accademica di stampo liberista e del suo corollario politico, Bonomi
chiede esplicitamente di rifarsi alle riforme Hartz, che tra il 2002 e il 2005 misero prepotentemente mano al mercato del lavoro tedesco. Oltre a favorire la diffusione dei mini-job (lavori
ultra precari, mal pagati e privi di qualsiasi tutela previdenziale),
l’obiettivo di tali riforme è stato quello di ridurre il costo del
lavoro tedesco per favorire la competitività delle merci: uno dei metodi
attraverso cui ciò è stato perseguito è stato la riduzione delle
prestazioni dei sussidi e l’aggravamento delle clausole di
condizionalità, logica pedissequamente seguita nel 2014 dal governo
Renzi.
Mentre l’evidenza ha ormai smentito l’utilità
di tali riforme nel determinare un miglioramento delle dinamiche
occupazionali, è ben chiaro cosa esse abbiano prodotto in termini di
distribuzione del reddito e di dinamica salariale. La quota salari
tedesca, vale a dire la parte del prodotto nazionale che va al lavoro, è
diminuita nei primi anni successivi alla riforma, tra il 2002 e il
2008, di ben 4 punti percentuali e ha recuperato il livello del 2001
solo nel 2018, segnando da allora un nuovo trend di decrescita. Una
dinamica speculare è stata seguita dal costo del lavoro per unità di
prodotto (il rapporto tra il costo e la produttività del lavoro)
diminuito di 6 punti percentuali fino al 2008 e tornato ai livelli
precedenti soltanto nel 2018. È la logica della deflazione salariale che le politiche europee vogliono estendere a tutta Europa,
che il Jobs Act ha decisamente implementato in Italia e che Bonomi
invoca prepotentemente. Invocazione che viene condita dalle lagnanze di
chi si strappa le vesti per un Paese bloccato poiché i padroni non sono
liberi di implementare la “riorganizzazione industriale” (tradotto,
licenziare) né di effettuare investimenti. È il ben noto scambio tra
riduzione delle tutele e aumento degli investimenti, da sempre promesso,
ma, come è logico aspettarsi, verificatosi solo in una direzione:
quella della precarizzazione del lavoro.
Al contrario, il volano della crescita
economica e occupazionale del Paese risiede in una vigorosa ripresa della spesa
pubblica, al di fuori della logica dei vincoli europei, e la ripresa di
una grande stagione di contrattazione salariale che restituisca ai
lavoratori il potere di acquisto e i diritti perduti e rimetta in
discussione la distribuzione del reddito tra salari e profitti. Del
resto, a ricordarci quanto ciò sia cruciale è proprio Bonomi. Quella sua
roboante, ma in fondo laconica richiesta di contratti rivoluzionari slegati dalla logica novecentesca salario-orario di lavoro,
suona come un avvertimento ai lavoratori e ai sindacati: dopo più di un
decennio di blocco sostanziale della contrattazione, per cui tra il
2005 e il 2018 le retribuzioni reali sono cresciute di circa il 2%, non
illudetevi di vedere aumenti significativi nei vostri salari.
Confindustria è pronta e decisa a non consentirlo, e anzi, continua a
chiedere al Governo sgravi e sussidi, oltreché il famigerato taglio del
cuneo fiscale.
Una posizione emersa con ancora più chiarezza nell’incontro con i sindacati confederali della settimana scorsa in
cui il presidente di Confindustria ha chiuso a qualsiasi ipotesi di
riduzione dell’orario di lavoro e ha rilanciato una vecchia battaglia:
coniugare aumenti salariali e produttività. Come se quest’ultima
dipendesse dai lavoratori e non dalla dinamica economica del Paese e
dunque dagli investimenti delle imprese.
La lettera di Bonomi, dunque, ci
indica a suo modo la via, ricordandoci che i padroni non hanno mai
deposto le armi della lotta di classe e indicandoci quali siano i nostri
interessi da difendere: tutela contro i licenziamenti, contrattazione salariale e tutela del reddito dei disoccupati.
Allo stesso modo ci chiarisce anche il quadro economico istituzionale
in cui queste battaglie troveranno terreno più fertile: un quadro in cui
lo Stato riprenda in mano le fila dell’azione economica e si impegni in
politiche pubbliche per la piena occupazione. Un quadro senza dubbio
inconciliabile con quello attuale.
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