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18/09/2020

L'infinita lotta di classe di Confindustria

La lettera che il neopresidente di Confindustria, Carlo Bonomi, ha inviato ai presidenti delle associazioni confederate ha fatto capolino sulle pagine dei giornali, attirando l’attenzione anche dei sindacati, per il provocatorio riferimento ai “nuovi contratti rivoluzionari” che gli industriali vorrebbero firmare. L’espressione ha fatto giustamente scalpore, ma una lettura complessiva della lettera fa emergere, in maniera ancora più limpida, la visione di Confindustria nella sua interezza, e ci suggerisce quali saranno i temi su cui lottare nel prossimo futuro e quali i fortini da difendere. L’armamentario retorico padronale, infatti, emerge in tutta la sua limpidezza – condito dalle parole d’ordine dell’antistatalismo e del parassitismo che da sempre contraddistinguono il capitalismo italiano – ma è sulle relazioni sociali e sulla struttura istituzionale del mercato del lavoro che Bonomi indugia con particolare interesse.

Cogliendo l’occasione di criticare il blocco dei licenziamenti e l’estensione della Cassa Integrazione, strumenti di tutela dei lavoratori invisi ai capitalisti e ai loro portavoce politici, Bonomi richiede un’accelerazione della riforma degli ammortizzatori sociali. Richiede dunque, il completo passaggio – in buona parte, a dire il vero, già compiuto dal governo Renzi – da un sistema di ammortizzatori sociali cosiddetto in costanza di rapporto di lavoro ad un sistema basato interamente sulle politiche attive e sulla ricerca di un nuovo lavoro da parte del disoccupato. Fare un po’ di ordine ci servirà non solo a scopo esplicativo, ma anche al fine di segnalare quali sono gli interessi che si vogliono intaccare dietro la retorica edulcorata del riformismo del mercato del lavoro.

Prima del Jobs Act, infatti, il sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione in Italia era sostanzialmente basato su forme di trasferimento – cassa integrazione guadagni (CIG) e indennità di mobilità – non condizionate alla ricerca del lavoro, e che mantenevano comunque il lavoratore in prossimità del proprio posto di lavoro. Questa logica è stata superata quasi definitivamente dal Jobs Act che con la NASPI ha introdotto clausole stringenti per cui si perde il diritto al sussidio e ha spezzato il legame tra lavoratore e posto di lavoro. Prima del Jobs Act, infatti, il sistema di assicurazione sociale contro la disoccupazione in Italia era sostanzialmente basato, oltre che sulla cassa integrazione guadagni, sull’indennità di mobilità per i lavoratori licenziati. L’indennità di mobilità non era condizionata alla ricerca di un’occupazione e manteneva comunque in vita la possibilità del reintegro nel rapporto di lavoro, in quanto per i primi sei mesi dalla cessazione i lavoratori avevano una sorta di “diritto di prelazione”, avendo l’azienda l’obbligo, in caso di nuove assunzioni, di assumere prima i lavoratori in mobilità. Questa logica è stata superata quasi definitivamente dal Jobs Act, che con la NASPI, oltre ad aver eliminato il diritto di prelazione, ha introdotto clausole stringenti, in base alle quali se il lavoratore non accetta determinate offerte di lavoro, perde il diritto al sussidio. In tal modo, la riforma ha contribuito a rendere più labile il legame tra lavoratore e posto di lavoro. Inoltre, sono state introdotte condizionalità anche per i beneficiari di CIG con una sospensione o riduzione dell’orario di lavoro superiore al 50%.

Ammortizzatori sociali e sussidi di disoccupazione così come le tutele contro il licenziamento e i contratti a tempo indeterminato sono da anni sotto costante attacco da parte delle Istituzioni internazionali ed europee e dunque dei governi nazionali. In particolare, sussidi e ammortizzatori hanno subìto uno drastico ridimensionamento (nelle eligibilità e nelle prestazioni) poiché si ritiene, in accordo con la teoria economica dominante, che sussidi troppo generosi possano indurre il lavoratore a permanere nello stato di disoccupazione. Emerge quell’odioso approccio al problema della disoccupazione la cui colpa ricadrebbe interamente sul lavoratore. Secondo questa logica, dunque, ridurre la durata del sussidio, accompagnarlo a clausole di condizionalità e alla ricerca ‘attiva’ di una nuova occupazione ridurrebbe l’azzardo morale del lavoratore e lo incentiverebbe a trovare un nuovo lavoro – indipendentemente dal fatto che tale lavoro ci sia o meno. Proprio le clausole di condizionalità, vale a dire l’obbligo di partecipare alla formazione professionale e di non rifiutare un’offerta di lavoro definita ‘congrua’, rappresentano un potente strumento di indebolimento del potere contrattuale del lavoratore. Il rischio di perdere il sussidio, infatti, impedirà di continuare la ricerca di un impiego meglio retribuito costringendolo ad accettare un lavoro indipendentemente dalle proprie aspirazioni. Il corollario di tali misure – e qui entriamo nel campo dell’inganno semantico – sono le famigerate politiche attive del lavoro a gran voce richieste da Bonomi. Esse, lungi dall’essere la panacea per i mercati del lavoro saturi di disoccupati, rappresentano il modo in cui la fiscalità generale si fa carico della formazione professionale dei lavoratori secondo l’interesse delle imprese, nella vana speranza che ciò serva a creare posti di lavoro quando invece non si fa altro che fornire manodopera formata con soldi pubblici al servizio dei profitti privati. Su di esse fa particolare affidamento proprio chi dà una spiegazione della disoccupazione dal lato dell’offerta, vale a dire chi ritiene che la disoccupazione dipenda dalle caratteristiche proprie del disoccupato, e che basterebbe dunque avere caratteristiche in linea con la domanda di lavoro per essere occupati. Ma quando la domanda di lavoro stagna a causa di una domanda aggregata azzoppata dalle rigide regole di bilancio e dal contenimento dei salari, non vi è speranza di aumentare l’occupazione.

Il mondo padronale naturalmente stravede per queste misure e, per voce di Bonomi, richiede che ci si muova ulteriormente su questo solco affinché, si legge, vengano nettamente distinte la parte dell’importo del sussidio di natura assicurativa e la parte strettamente condizionata all’attività formativa. Non solo superare completamente quel “retaggio novecentesco” rappresentato dalla CIG, ma incrementare le condizionalità che gravano sulle spalle dei lavoratori.

Come gran parte della letteratura accademica di stampo liberista e del suo corollario politico, Bonomi chiede esplicitamente di rifarsi alle riforme Hartz, che tra il 2002 e il 2005 misero prepotentemente mano al mercato del lavoro tedesco. Oltre a favorire la diffusione dei mini-job (lavori ultra precari, mal pagati e privi di qualsiasi tutela previdenziale), l’obiettivo di tali riforme è stato quello di ridurre il costo del lavoro tedesco per favorire la competitività delle merci: uno dei metodi attraverso cui ciò è stato perseguito è stato la riduzione delle prestazioni dei sussidi e l’aggravamento delle clausole di condizionalità, logica pedissequamente seguita nel 2014 dal governo Renzi.

Mentre l’evidenza ha ormai smentito l’utilità di tali riforme nel determinare un miglioramento delle dinamiche occupazionali, è ben chiaro cosa esse abbiano prodotto in termini di distribuzione del reddito e di dinamica salariale. La quota salari tedesca, vale a dire la parte del prodotto nazionale che va al lavoro, è diminuita nei primi anni successivi alla riforma, tra il 2002 e il 2008, di ben 4 punti percentuali e ha recuperato il livello del 2001 solo nel 2018, segnando da allora un nuovo trend di decrescita. Una dinamica speculare è stata seguita dal costo del lavoro per unità di prodotto (il rapporto tra il costo e la produttività del lavoro) diminuito di 6 punti percentuali fino al 2008 e tornato ai livelli precedenti soltanto nel 2018. È la logica della deflazione salariale che le politiche europee vogliono estendere a tutta Europa, che il Jobs Act ha decisamente implementato in Italia e che Bonomi invoca prepotentemente. Invocazione che viene condita dalle lagnanze di chi si strappa le vesti per un Paese bloccato poiché i padroni non sono liberi di implementare la “riorganizzazione industriale” (tradotto, licenziare) né di effettuare investimenti. È il ben noto scambio tra riduzione delle tutele e aumento degli investimenti, da sempre promesso, ma, come è logico aspettarsi, verificatosi solo in una direzione: quella della precarizzazione del lavoro.

Al contrario, il volano della crescita economica e occupazionale del Paese risiede in una vigorosa ripresa della spesa pubblica, al di fuori della logica dei vincoli europei, e la ripresa di una grande stagione di contrattazione salariale che restituisca ai lavoratori il potere di acquisto e i diritti perduti e rimetta in discussione la distribuzione del reddito tra salari e profitti. Del resto, a ricordarci quanto ciò sia cruciale è proprio Bonomi. Quella sua roboante, ma in fondo laconica richiesta di contratti rivoluzionari slegati dalla logica novecentesca salario-orario di lavoro, suona come un avvertimento ai lavoratori e ai sindacati: dopo più di un decennio di blocco sostanziale della contrattazione, per cui tra il 2005 e il 2018 le retribuzioni reali sono cresciute di circa il 2%, non illudetevi di vedere aumenti significativi nei vostri salari. Confindustria è pronta e decisa a non consentirlo, e anzi, continua a chiedere al Governo sgravi e sussidi, oltreché il famigerato taglio del cuneo fiscale.

Una posizione emersa con ancora più chiarezza nell’incontro con i sindacati confederali della settimana scorsa in cui il presidente di Confindustria ha chiuso a qualsiasi ipotesi di riduzione dell’orario di lavoro e ha rilanciato una vecchia battaglia: coniugare aumenti salariali e produttività. Come se quest’ultima dipendesse dai lavoratori e non dalla dinamica economica del Paese e dunque dagli investimenti delle imprese.

La lettera di Bonomi, dunque, ci indica a suo modo la via, ricordandoci che i padroni non hanno mai deposto le armi della lotta di classe e indicandoci quali siano i nostri interessi da difendere: tutela contro i licenziamenti, contrattazione salariale e tutela del reddito dei disoccupati. Allo stesso modo ci chiarisce anche il quadro economico istituzionale in cui queste battaglie troveranno terreno più fertile: un quadro in cui lo Stato riprenda in mano le fila dell’azione economica e si impegni in politiche pubbliche per la piena occupazione. Un quadro senza dubbio inconciliabile con quello attuale.

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