29/09/2020
Nagorno-Karabakh: i dubbi di Mosca
Per la seconda volta in poco più di due mesi, il conflitto di lunga data tra Armenia e Azerbaigian, attorno alla regione contesa del Nagorno-Karabakh, è riesploso con un bilancio provvisorio di vittime che appare già il più grave da molti anni a questa parte. Se i governi di praticamente tutto il mondo hanno subito fatto appello alle due parti per un cessate il fuoco, le ragioni dello scontro si sovrappongono e sono complicate dal rimescolamento in atto degli equilibri strategici euro-asiatici e risentono, in particolare, dell’intreccio di rapporti e rivalità tra Turchia, Russia e Stati Uniti.
Com’è sempre accaduto nei casi precedenti, la ripresa delle attività militari si è accompagnata alla solita campagna di disinformazione condotta da entrambe le parti. Per il primo ministro armeno, Nikol Pashinyan, le forze armate azere avrebbero lanciato un attacco nella mattinata di domenica contro il territorio del Nagorno-Karabakh, costringendo Yerevan a una controffensiva. Per il governo dell’Azerbaigian, al contrario, sarebbero stati i bombardamenti armeni contro le proprie postazioni e alcune aree popolate da civili e scatenare la risposta militare.
Le agenzie di stampa internazionali hanno parlato di almeno 16 vittime tra i militari delle forze del Nagorno-Karabakh e di un numero imprecisato di civili nella sola giornata di domenica. Lunedì i combattimenti si sono ulteriormente aggravati e il numero di morti è salito in modo preoccupante. Fonti armene hanno ammesso di avere registrato 58 militari caduti sul campo e 200 feriti. L’Azerbagian ha dato invece notizia di sei civili uccisi, mentre le perdite tra le forze armate non sono state rivelate. La gravità della situazione è testimoniata dalla decisione delle autorità del Nagorno-Karabakh di istituire la legge marziale, così come ha fatto l’Azerbaigian e il governo armeno, e l’arruolamento obbligatorio di tutti i maschi di almeno 18 anni.
Lo scontro tra Armenia e Azerbaigian risale agli anni appena precedenti la dissoluzione dell’Unione Sovietica. La situazione del Nagorno-Karabakh, geograficamente appartenente all’Azerbaigian ma popolato in maggioranza da armeni e riconosciuto come entità indipendente solo da Yerevan, risulta contesa fin dal cessate il fuoco del 1994, seguito a un sanguinoso conflitto durato sei anni.
Da allora, come già ricordato, si sono verificati scontri episodici tra i due paesi, durati in genere solo alcuni giorni, ma talvolta con perdite significative. Nel 2016, ad esempio, una guerra di quattro giorni combattuta con artiglieria pesante, aerei da guerra e carri armati provocò quasi duecento morti tra i militari dei due paesi e alcune decine tra i civili. L’episodio più recente prima di questa settimana era stato registrato lo scorso mese di luglio. In quell’occasione i morti erano stati sedici e i combattimenti erano insolitamente scaturiti da scaramucce in una zona di confine armeno-azera non collegata alla regione del Nagorno-Karabakh.
Anche quest’ultimo inasprirsi del conflitto caucasico si inserisce ovviamente nel quadro di una situazione tesissima e irrisolta da ormai tre decenni. I fattori di rischio sono però in questa circostanza decisamente maggiori rispetto al passato e potrebbero determinare una pericolosa escalation difficile da fermare attraverso la consueta mediazione delle potenze interessate, le quali, anzi, rischiano di essere trascinate in una guerra potenzialmente più ampia.
Un fattore da tenere in considerazione è la fermissima presa di posizione della Turchia che ha assicurato pieno appoggio all’Azerbaigian, con cui condivide profondi legami storici e culturali. Nelle scorse settimane era circolata la notizia che Ankara aveva inviato circa duemila “ribelli” impegnati nella guerra in Siria, con ogni probabilità reclutati nella galassia dei gruppi jihadisti sostenuti dalla Turchia, per combattere a fianco delle forze azere in Nagorno-Karabakh.
In questa prospettiva, il riesplodere del conflitto tra Armenia e Azerbaigian può essere in parte ricondotto alle ambizioni del presidente turco Erdogan per ridisegnare il quadro delle influenze nella regione mediorientale e caucasica. L’obiettivo sarebbe in questo caso la totale riconquista del territorio del Nagorno-Karabakh da parte azera. Comunque sia, proprio il coinvolgimento turco è uno degli elementi che rendono difficoltoso il meccanismo diplomatico che in passato aveva fermato le operazioni militari di Baku e Yerevan. Infatti, la questione del Nagorno-Karabakh è oggi complicata dalle tensioni esistenti tra la Turchia e i paesi mediatori, da quelli UE alla Russia fino agli Stati Uniti, attorno ad altre crisi in atto, come Siria, Libia, Cipro e Mediterraneo orientale.
L’eventuale intervento di Ankara a fianco dell’Azerbaigian metterebbe così la Turchia e la Russia su posizioni contrapposte in ben tre conflitti, dopo Libia e Siria, facendo traballare ancora di più la già incerta partnership strategica che Putin ed Erdogan stanno cercando di costruire.
Le implicazioni del conflitto in Nagorno-Karabakh sono comunque molteplici ed estremamente complesse. Alcuni osservatori hanno rilevato come nella situazione più delicata si trovi proprio la Russia. Mosca intrattiene rapporti amichevoli sia con l’Armenia sia con l’Azerbaigian. Di Yerevan, però, la Russia è un alleato formale ed ha obblighi di difesa nell’ambito dell’organizzazione per la “sicurezza collettiva” CSTO, considerata una sorta di alternativa alla NATO, guidata da Mosca e di cui fa appunto parte l’Armenia.
Quest’ultimo paese, oltre a essere membro dell’Unione Economica Euroasiatica (EEU), sempre a guida russa, ospita anche un contingente militare del potente alleato ma, a complicare ulteriormente le cose, i cambiamenti politici interni risalenti a un paio di anni fa hanno rimescolato le carte in tavola e la posizione strategica armena appare in piena evoluzione. Nella primavera del 2018, cioè, il governo di Yerevan, guidato dall’ex presidente Serzh Sargsyan, era stato deposto da una “rivoluzione colorata” della quale in molti avevano ricondotto la regia in Occidente.
L’operazione aveva portato alla guida del governo l’ex giornalista Nikol Pashinyan, innescando un cauto ripensamento delle priorità strategiche dell’Armenia, nel tentativo di riposizionare il paese caucasico nell’orbita occidentale. Non è da escludere quindi che gli scontri di luglio e quelli in corso siano stati provocati proprio da Yerevan in collaborazione con Washington e in funzione anti-russa, in primo luogo attraverso la destabilizzazione dei rapporti tra Russia e Turchia.
Il dilemma del Cremlino è d’altra parte evidente, non solo dagli appelli alla calma lanciati in queste ore a entrambi i paesi in guerra. Il precipitare della situazione costringerebbe infatti la Russia a intervenire, anche se in maniera riluttante, a sostegno dell’Armenia. Ciò provocherebbe una spaccatura nel Caucaso che finirebbe, nella migliore delle ipotesi, per incrinare i rapporti di Mosca con Baku e Ankara e, nella peggiore, per mettere di fronte militarmente Russia e Turchia. Oltretutto con l’incognita del comportamento della NATO, impegnata ad accelerare il tentativo di accerchiamento della Russia ma al cui interno è chiara da tempo la crescente ostilità di molti membri nei confronti della Turchia di Erdogan.
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