"Non le cose turbano gli uomini ma i giudizi che gli uomini formulano sulle cose" Epitteto, Manuale
Probabilmente solo questo autunno-inverno, a fronte di una nuova ondata pandemica o del suo affievolirsi, si capirà qualcosa in più sulla natura del covid dal punto di vista “medico-scientifico” (terreno spinosissimo questo del rapporto non lineare tra tecnoscienza, potere, capitale, informazione…). Ciò non toglie che, anche dovesse sperabilmente confermarsi la relativamente bassa letalità del virus sull’insieme delle popolazioni, il suo impatto è un fenomeno sociale di primaria grandezza legato al quadro di insicurezza strutturale dell’esistenza dentro il capitalismo globale, di cui le percezioni soggettive di paura, come sull’altro versante di scetticismo o negazione, sono manifestazione oggettiva. La pandemia – crisi sociale non solo globale ma simultanea – si sta rivelando infatti un notevole acceleratore delle particelle già discretamente impazzite del capitalismo a più di dieci anni dallo scoppio della crisi globale. Al tempo stesso è un potente rivelatore delle patologie del capitalismo all’altezza della sussunzione reale e un catalizzatore di reazioni sociali profonde. Reazioni che manifestano all’oggi tendenze contraddittorie compresenti che in parte si scontrano, in parte si intrecciano, con esiti politici indeterminati. Qui di seguito, per punti, alcune valutazioni in corso d’opera e qualche ipotesi interpretativa.
§ 1. Doppia crisi: deglobalizzazione o crisi della globalizzazione? Usa/Cina; cambio di passo UE; keynesismi selettivi
Ad un’analisi impressionistica il coronavirus può apparire uno shock esogeno: in realtà, non solo il sistema economico globale era a inizio 2020 già sotto notevole stress, ma l’intreccio tra crisi economico-finanziaria e sconvolgimenti in senso lato ambientali andrebbe oramai considerato a pieno titolo un fattore endogeno.
Le contraddizioni sistemiche del capitalismo globalizzato, comprensive di un rapporto sempre più distruttivo verso la natura, sono la scaturigine profonda dell’intreccio tra pandemia e crisi economico-sociale da essa innescata. Questo ennesimo passaggio – che solo un inveterato economicismo potrebbe trascurare in quanto non direttamente scaturente da processi “economici” – rimanda alla disconnessione sempre più marcata tra riproduzione sistemica del capitale e riproduzione sociale complessiva.
1.1. Ciò non significa sottovalutare l’uso che i poteri sovranazionali, statali e sub-nazionali, possono fare, già van facendo di questa crisi in funzione di un più ampio controllo sulle popolazioni e/o di tentativo di rilancio dell’accumulazione su nuove basi. Ma ciò che al momento pare delinearsi è piuttosto una crisi della governance politica, ancorché differenziata per portata ed effetti nei diversi paesi e aree geo-economiche. La crisi pandemica ha prodotto una scossa tremenda in un terreno già percorso da molteplici smottamenti, costringendo i governi (e le comunità scientifiche, con significativi contrasti al loro interno) a reazioni di negazione o scetticismo prima, sorpresa e panico poi.
1.2. La pandemia ha rappresentato così l’innesco di quello che potrebbe essere il secondo tempo della crisi globale scoppiata nel 2008-9, all’incrocio tra contingenza e tendenze di fondo. L’emergenza è infatti andata a collidere in maniera violenta con i problemi lasciati irrisolti da quella crisi, che non ha visto una effettiva ripresa generalizzata basata su un forte rilancio dell’accumulazione. Non a caso, da ultimo, il barometro dell’economia mondiale segnava tempesta alla luce della guerra dei dazi Usa-Cina, della caduta delle borse nel 2018 poi tamponata con iniezioni di liquidità delle banche centrali, dei segni di recessione in Giappone e Germania, degli enormi interventi sul mercato repo della Federal Reserve statunitense negli ultimi mesi del 2019, dell’approssimarsi dell’ennesima guerra sul prezzo del petrolio, ecc.
1.3. Dietro questi segnali, precipitati nello shock produttivo e di domanda innescato dalla pandemia, si intravede un’accelerazione di tendenze generali già in atto. Contrazione del commercio mondiale, sfilacciamento delle filiere globali, riduzione degli investimenti esteri fanno il paio, sul piano economico, con l’offensiva geopolitica di Washington contro la Cina volta al decoupling almeno parziale delle due economie. Siamo allora di fronte a un’inversione del ciclo, all’inizio della de-mondializzazione? Allo stato, è forse più appropriato parlare di crisi della globalizzazione. Il punto cruciale, infatti, è che la globalizzazione non è in primis o esclusivamente una politica che si possa impunemente dismettere: è innanzitutto uno “stadio” del processo di affermazione del mercato mondiale. Certo, un processo per natura interminabile e foriero di contraddizioni esplosive che possono anche, a date condizioni, farlo deflagrare. Ora, una rottura effettiva della globalizzazione è funzione, principalmente, di quanto andrà a fondo lo scontro Usa/Cina. Washington deve bloccare e invertire l’ascesa della Cina intaccandone a fondo la stessa tenuta unitaria come stato, nel quadro di un programma di regime change globale a difesa del dominio mondiale del dollaro. La Cina è spinta dal suo stesso corso capitalistico verso una collocazione meno subordinata all’interno del mercato mondiale, che pure non punta a rovesciare né ha i numeri per dominare (i discorsi sul Secolo Cinese sono risibili). Washington deve, per le contraddizioni crescenti interne ed esterne del suo dominio mondiale, piegare quel corso alle proprie esigenze, mettendo altresì in riga gli “alleati” europei, in primis Berlino, agendo di fatto da paese revisionista dell’ordine internazionale. Ma si tratta di un processo non esente da ostacoli rilevanti e contraddizioni dirompenti.
Primo: è da vedere se le multinazionali Usa possono rilocalizzare il capitale fisso investito in Cina che permette di appropriarsi della gran parte del plusvalore estratto dalla classe operaia cinese mentre, al contempo, la condizione proletaria interna agli States andrebbe a tal punto abbassata da rendere convenienti le riallocazioni.
Secondo: c’è il rischio che l’incasinamento dovuto alla recrudescenza della crisi mondiale e dello scontro geopolitico possa intaccare seriamente il predominio del dollaro prima che la strategia yankee di sbaraccamento della Cina abbia successo.
Terzo: è possibile una ripresa non asfittica dell’accumulazione solo incrementando l’estrazione di plusvalore a scala globale o non si sta palesando la necessità sistemica di procedere ad una distruzione massiccia del capitale fisso, ben oltre quella che avrà luogo di capitale fittizio e che ogni attore cercherà di scaricare su partner e avversari?
Comunque sia, che abbia successo la strategia statunitense oppure si vada verso la disarticolazione del sistema internazionale e lo scontro bellico (tutt’altro, quindi, dalle illusioni o speranze multipolariste di molti), il mercato mondiale, anche nel pieno degli scontri più accesi, resta l’arena essenziale per l’estrazione e la realizzazione del plusvalore (tutt’altro, quindi, dalle illusioni sovraniste sulla possibilità di restaurare mercati autosufficienti a scala nazionale o regionale). Da esso non si torna indietro salvo l’esplodere di un conflitto militare mondiale che lo renda, per la durata del conflitto, impraticabile. Un conflitto, comunque, che sarebbe per una ri-spartizione del mercato mondiale stesso.
1.4. In questo quadro di disarticolazione, gli altri attori nazionali, anche pressati dalle proprie popolazioni, spingono su una ri-nazionalizzazione delle proprie politiche a fronte di una politica statunitense sempre più ostile, per i rivali, o sempre meno affidabile, per gli “alleati”. In particolare, l’Unione Europea è stretta tra lo scontro Usa/Cina, da un lato, e l’esigenza di giocare un ruolo globale in proprio, dall’altro. Ciò spiega, dopo le solite iniziali divisioni al suo interno a fronte dell’emergenza virus, il cambio di passo attuato sotto la spinta della Germania. Con l’accantonamento del patto di stabilità e il varo del Recovery Fund – che prevede una provvisoria e parziale mutualizzazione dei debiti statali dei paesi membri, certo legata a condizionalità – ci si è preoccupati, innanzitutto, della tenuta sociale dei paesi più colpiti dal covid, sul fronte meridionale della UE. In prospettiva però si punta a riorganizzare, intorno al polo egemone tedesco, la struttura produttiva e la finanza europee in funzione della competizione crescente sui mercati globali. L’obiettivo di Berlino è di preservare e rafforzare UE ed euro per ovviare ai segnali statunitensi di sempre maggiore ostilità, che preluderebbero ad una maggiore sottomissione a Washington in funzione anti-cinese e anti-russa. In più, l’emissione di debito comunitario – e di debito green (sponsorizzato dalla mobilitazione gretiana) – potrebbe attirare sull’euro capitali da sottrarre al dollaro e ai Treasury Bond statunitensi e parare così il rischio speculazione già concretizzatosi con l’eurocrisi dei primi anni Dieci.
Restano, però, notevoli difficoltà perché questo passaggio diventi effettivo: divisioni interne all’Europa (sfruttate da Washington, che egemonizza i paesi dell’Est Europa e potrebbe giocare contro Berlino i paesi meridionali), titubanza di Berlino a rompere con l’atlantismo e in prospettiva scontro interno tra due fronti politici, impossibilità dell’euro di fungere da moneta mondiale, ritardo enorme accumulato nella competizione digitale, assenza di una politica imperialista unitaria, e su tutto la necessità di procedere a riforme profonde che intaccheranno gli equilibri sociali interni ai singoli paesi nonché quelli tra paesi membri. Lo scontro tra Berlino e Washington andrà comunque avanti, in forme ora più aperte ora sotterranee.
1.5. Sia in Europa che negli Stati Uniti sembra comunque delinearsi un cambio di passo nelle strategie economiche rispetto alla precedente crisi. Assistiamo a misure di erogazione di liquidità (debito) a salvataggio non più solo della finanza, ma anche per interventi effettivi nella cosiddetta economia reale. Si tratta, sulla carta almeno, di massicci interventi statali di stampo keynesiano atti innanzitutto a tamponare la crisi occupazionale e a preservare gli apparati produttivi in vista di una (eventuale) “ripresa”. In prospettiva si tratterà però di incrementare la base reale del valore per sostenere con rinnovati profitti sia l’enorme bolla di capitale fittizio alimentata dall’ulteriore indebitamento statale, sia l’acuita concorrenza globale. Le economie andranno incontro a ulteriori processi di ristrutturazione e concentrazione, a scala nazionale e sovranazionale, lasciando sul campo le imprese-zombie fin qui sopravvissute e parte della forza-lavoro. Gli assetti sociali, a seguito del secco ridimensionamento dei salari e dei risparmi di proletari e ceti medi salariati e del secco ridimensionamento e/o torchiatura di buona parte del ceto medio indipendente, verranno sconvolti da una profonda ristrutturazione produttiva e sociale (digitalizzazione, automazione, riconversione verde, riforma dei servizi pubblici e del welfare, ecc.). Se di keynesismo si potrà effettivamente parlare, sarà dunque ultra-competitivo e ultra-selettivo, a tutti i livelli, e niente affatto indolore per le società, a misura dei debiti che andranno ripagati con gli interessi. I sogni nutriti a sinistra di un rilancio e riqualificazione delle spese sociali andranno incontro a una doccia fredda.
§ 2. Reazioni sociali: Cina; Occidente
Le reazioni sociali alla pandemia hanno rappresentato e rappresentano, nella loro diversità e mutevolezza, il terreno di posizionamento delle diverse classi, nelle diverse aree geopolitiche, rispetto al palesarsi di alcune importanti disfunzioni se non veri e propri limiti strutturali del sistema capitalistico (fragilità delle catene del valore, urbanizzazione irrazionale, infrastrutture sociali in declino, ritmi di vita iperaccelerati e patogeni, ecc.). Non va trascurato il fatto che sanità e scuola, tra i servizi più colpiti dall’epidemia, restano a tutt’oggi il pilastro welfaristico del residuo compromesso sociale in Occidente. Di qui le sparute scintille di coscienza e spinte alla mobilitazione cui abbiamo assistito. Se dall’alto le reazioni all’emergenza sicuramente vengono utilizzate, essa va altresì smuovendo le acque fin qui stagnanti di una società traumatizzata da dieci anni di crisi. Le classi si lasciano “manipolare” finché si tratta di ordinaria amministrazione del compromesso sociale dato, ma non si ingannano quando eventi cruciali lo scuotono bucando il filtro della comunicazione e della vita quotidiana normalmente sussunta ai feticci del capitale.
2.1. Partendo dalla Cina, duramente colpita nell’economia e nell’immagine dallo scoppio dell’epidemia, non si può negare che lo stato centrale ha mostrato notevoli capacità di gestione della crisi ribaltando in parte in termini di soft power le negative ripercussioni iniziali. Cruciale è stato un fattore quasi sempre trascurato nei commenti occidentali: la forte reazione comunitaria delle masse cinesi alla notizia del diffondersi del virus con conseguente pressione sui vertici statali a fronte della trascuratezza e dell’incompetenza delle autorità locali. Alla spinta dal basso si sono così affiancate le mosse di Pechino con un intervento deciso in quanto in gioco era la legittimazione del partito e dello Stato. Si è quindi trattato dell’ennesima dialettica democratica – intesa nel senso di costituzione materiale del rapporto tra proletariato, partito e Stato – con il “popolo” che ha spinto sul potere che, a sua volta, ha lanciato una campagna nello stile della “guerra di popolo”, contro il virus ma anche contro la possibilità che l’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti, potesse approfittare della crisi sanitaria per dare un colpo alla tenuta del paese. Contestualmente, a misura che il virus si diffondeva nel mondo, il modello cinese di intervento – ovviamente condizionato nella sua rigidità dalle gravi carenze dell’infrastruttura sanitaria – ha avuto un’immediata ripercussione in Occidente nel rapporto tra popolazione e rispettivi governi fissando quasi un benchmark nella gestione della crisi epidemica. (L’Italia, primo paese occidentale colpito duramente dall’epidemia, è stato anche il primo ad adottare un lockdown rigido ancorché non totale). È come se la Cina avesse con ciò lanciato un messaggio universalistico – fin qui prerogativa dell’Occidente – non declinato sui diritti umani ma sulla necessità di prendere misure decise e di cooperare globalmente per superare la pandemia. Questo, insieme all’invio di attrezzatura medica, ha palesato un sottofondo politico (e geopolitico) che ha contato nello spostamento degli umori e delle reazioni dell’opinione pubblica dei paesi occidentali. In questo senso, ma per ora solo in questo senso, la spinta dal basso per una lotta efficace al virus ha alluso alle potenzialità dell’azione proletaria oltre i confini nazionali. D’altro canto la risposta di Pechino non va sopravvalutata perché l’epidemia ha messo in estrema difficoltà l’economia cinese e il suo tentativo di risalire la catena del valore. A differenza del 2008/2009, allorché le sue misure keynesiane hanno contribuito a che l’Occidente non precipitasse in una depressione economica, la Cina è oggi completamente dentro la crisi ed esposta a un indebitamento maggiore dai ritorni decrescenti. Non solo non potrà salvare l’Occidente, ma dovrà salvare se stessa e per farlo, tenendo conto della guerra economica in corso con gli Usa, probabilmente dovrà salvarsi dall’Occidente. Lo stesso patto sociale tra Stato, ceto medio e proletariato, sempre meno praticabile come scambio tra stabilità politica e crescita economica, dovrà mutare, con quanto ne seguirà in termini di instabilità interna che andrà ad aggiungersi a quella internazionale (v. vicenda di Hong Kong).
2.2. In Occidente ha inizialmente prevalso lo sconcerto di fronte al fatto che un virus sconosciuto potenzialmente letale non sia restato confinato alle periferie del mondo. Al di là di atteggiamenti anche molto differenti, quello che è emerso è che per ampi settori di popolazione il modo di vivere quotidiano di occidentali non è più percepito come sicuro. Con un gioco di rimando rispetto all’incertezza complessiva e profonda prodotta da dieci anni di crisi e all’attitudine meno positiva, se non in certi settori del tutto negativa, verso gli effetti della globalizzazione. Su queste basi – che non sono solo soggettive, rappresentando l’incertezza oramai una condizione strutturale – il virus pur avendo fin qui quasi sempre mostrato una letalità più bassa del temuto ha avuto e sta avendo un impatto sociale notevole dagli effetti ancora non ben calcolabili. Tale situazione ha rimesso in moto la testa e la pancia di proletari e ceti medi e potrebbe aprire a domande inaspettate. Presa d’atto dello stato disastroso dei sistemi sanitari; percezione del montante clima neomalthusiano verso anziani e malati in genere; frattura, all’interno dello stesso mondo di chi vive del proprio lavoro, tra ragioni inderogabili dell’economia da un lato e cura della vita e della salute dall’altro; riflessioni, seppur solo accennate, sulla forma del vivere che ci ha portati a questo punto; dubbi se il sistema di poteri “plurale” e “democratico” sia veramente al servizio della comunità; distinzione che si fa strada tra bisogni “essenziali” e no; domanda su cosa è essenziale produrre, come distribuirlo senza mettere a rischio la salute: tutto ciò attiene ad alcuni nodi importanti del rapporto tra riproduzione sociale e riproduzione sistemica capitalistica. Contestualmente si è fatta strada la richiesta dal basso di venire incontro all’esigenza di reddito per chi ne è rimasto privo attingendo al capitale complessivo accumulato – in forma monetaria e soddisfatta dallo stato, dunque tutta interna al rapporto di capitale – e non lasciare completamente al mercato produzioni e servizi indispensabili. In germe, quindi, una serie di esigenze almeno parzialmente in contraddizione con le necessità del capitale per come si è strutturato negli ultimi decenni: esse hanno segnalato un’istanza in senso lato di classe niente affatto scontata alla luce dell’interiorizzazione proletaria della “naturalità” del capitalismo, e in particolare delle ragioni superiori dell’impresa. Almeno nel periodo di percezione del maggior rischio sanitario, la cifra generale degli umori e delle (minime) pratiche dal basso è stata quella di far pressione sullo Stato a tutela della salute collettiva, o di mobilitarsi in questo senso laddove i governi non sono venuti incontro a tali richieste, per una sorta di socialismo rozzo emergenziale. Il tutto accompagnato in alcune imprese private da scioperi spontanei per la sicurezza dei lavoratori e da una spinta allo smart working per la protezione della salute in ampi settori di ceto medio salariato, pubblico o autonomo.
In sintesi, mentre il virus si è incaricato di mettere a nudo alcune patologie della nostra società, dominata dall’industrializzazione della vita, le reazioni sociali emergenti in seno al proletariato hanno innescato – confusamente e non senza sofferenze e contraddizioni legate alle misure di restrizione delle libertà individuali e al carico riproduttivo gravante sulle donne – un bisogno di comunità che è giunto, anche solo per poco, a mettere l’economia in secondo piano rispetto alla vita. Riproduzione della specie contro mera riproduzione della forza-lavoro.
§ 3. Di nuovo neopopulismi?
Le reazioni sociali alla pandemia – tanto più se questa non scomparirà così presto – rappresentano dunque un passaggio forte senza che per questo, sia chiaro, si delinei una crisi ingestibile per il capitale. In quale direzione si va? Per alcuni aspetti la situazione sembra confermare in Occidente la dinamica del neopopulismo[1] – come terreno nuovo della contraddizione di classe una volta esauritosi il movimento operaio classico – impostosi nei paesi imperialisti con la crisi globale. A patto di focalizzarsi non sulle espressioni organizzative contingenti, ma sul confuso intreccio tra istanze classiste e comunitarie-nazionali, espresse in senso ora cittadinista ora sovranista, segno della profonda trasformazione dei rapporti di classe. Infatti, pur nell’inedito contesto di doppia crisi, epidemica e economica, rivediamo all’opera queste istanze nella loro ambivalenza:
- la rivendicazione di sovranità sulla vita: salute contro economia, possibile non al singolo ma alla comunità, che preme sullo Stato affinché esso disciplini gli interessi egoistici privati facendosi portatore delle esigenze della riproduzione sociale – nell’ambivalenza della rivendicazione cittadinista di uno Stato di tutti;
- la presa di distanza nei comportamenti, ancorché parziale e provvisoria, dall’individualizzazione del rischio – dispositivo neoliberista di scarico delle responsabilità sociali sul singolo lasciato a se stesso – che ha riproposto il nodo della costruzione di una responsabilità comune. La situazione drammatica ha costretto a reagire non come il singolo ma come singoli al plurale, premessa di un non scontato corso sociale in controtendenza all’atomizzazione fin qui imperante, ma non senza la pericolosa contropartita di un controllo delegato al potere statale, illusorio surrogato della comunità che si nutre dei limiti di questa;
- la dinamica di classe che ha visto settori (minoritari) di proletariato manifatturiero e dei servizi farsi sentire, anche con scioperi, contro il disprezzo delle imprese per la vita della gente e a fronte della diversa incidenza e letalità del virus a seconda dei fattori di classe e razza, pur nella contraddizione chiaramente percepita tra la propria riproduzione come classe e specie umana e il diktat dell’economia che presiede alla propria riproduzione immediata monetaria;
- il senso comune interclassista della difesa comune contro il virus, pur nella crescente divaricazione tra i differenti settori e interessi del “popolo” (v. sotto § 4.);
- la crescente insofferenza, in ampi strati delle popolazioni europee, verso gli Stati Uniti, il negazionismo trumpiano, l’arroganza manifestata da Washington su tutti i piani; ma anche il rigurgito di sovranismo anti-UE a fronte dell’assenza di una strategia comune delle tecnocrazie europee nella fase iniziale dell’epidemia (ma anche il probabile riallineamento pro-UE di settori popolari a seguito dei previsti “aiuti” sconterà il fatto che la “svolta” di Bruxelles è il portato, oltreché dell’eccezionalità della situazione, proprio degli umori populisti che i governi italiano e francese in particolare hanno a modo loro raccolto per una contrattazione più dura ai tavoli comunitari).
In parte spinte spontanee, in parte istanze esplicite, queste espressioni confermano la presenza di un campo sociale nuovo, imprevisto e incomprensibile alle “sinistre”, che va molto al di là dei suoi provvisori contenitori. Quelle neopopuliste restano, comunque, fondamentalmente reazioni, non potendo incarnare nella destrutturazione della società capitalistica in corso un’alternativa di modello sociale complessivo, come invece è stato per tutta una fase con il riformismo operaio che ha accompagnato, pur tra crisi e disastri, un capitalismo con ampi spazi di espansione.
§ 4. Slittamenti: nuove linee di faglia; secondo tempo del neopopulismo?
Gli slittamenti, le discontinuità sono però altrettanto significativi. Contro ogni ipotesi di sviluppo lineare, con la pandemia sono entrate in gioco nuove variabili. Oltre ai fattori globalizzazione e precarizzazione, sono infatti comparse nuove linee di faglia, foriere di potenziali contrapposizioni, sul terreno della difesa della salute contro il primato dell’economia, delle condizioni di lavoro più o meno “protette”, delle differenze generazionali, per nominare solo le più eclatanti. I campi sociali e politici fin qui esistenti ne risulteranno sicuramente scombussolati.
4.1 La linea di divaricazione più netta è quella emersa tra i settori, prevalentemente proletari ma anche di ceto medio salariato del settore pubblico, che antepongono la sicurezza delle proprie condizioni al lavorare per altri, da un lato, e proletari delle piccole-medie imprese impauriti dalla possibile disoccupazione, “autonomi” che vivono del proprio lavoro nel settore dei servizi alle imprese e alle persone, parte del ceto medio produttivo con possibilità di accumulazione sempre più precarie e senza effettiva indipendenza ma convinti di lavorare in proprio, dall’altro, che si oppongono a misure restrittive che impediscono o rendono difficile la prosecuzione delle attività. È in questi settori che, già durante o subito dopo la fase più acuta della pandemia, ha trovato consenso la narrazione del lockdown (effettivo o presunto) come ingiustificata dittatura sanitaria pro poteri forti, “privilegiati”, stato, ecc. (salvo poi esigere essi stessi appoggio statale a spese della comunità, per lo più sotto forma di sussidi e sconti fiscali). È un fatto che i due settori non solo hanno difficoltà a collegare le proprie istanze ma – agendo in senso opposto il nesso tra riproduzione del capitale e riproduzione della propria vita – al momento sono su fronti contrapposti. E qualitativamente differenti, caratterizzandosi il secondo settore per l’assenza dell’istanza comunitaria, l’illusione di poter tornare alla “libertà” perduta e una logica di auto-impresizzazione pur nel rancore verso il grande capitale, che va ad accaparrarsi fette di mercato a danno dei pesci piccoli. La crisi pandemica accelera dunque la scomposizione dei ceti medi e la divaricazione di una parte di essi dal proletariato. Nondimeno, l’interclassismo proprio dell’orizzonte neopopulista non lascerà affatto il posto sul versante proletario a posizionamenti classisti “puri”, andrà piuttosto a riconfigurarsi. Non sarà comunque di poco conto il fatto che, con un guizzo subito scomparso, si è vista riemergere l’importanza cruciale della collocazione direttamente produttiva del proletariato, potenzialmente in grado di bloccare l’intera riproduzione del capitale.
4.2 Altra linea di faglia, ancora sotto traccia, è quella che va scavandosi tra le generazioni. In particolare, tra giovani e adulti fin qui poco toccati dal rischio virus e quanti tra i più anziani hanno o la possibilità di meglio autotutelarsi o vengono di fatto spinti verso una forma di (auto)segregazione, in un montante clima neo-malthusiano. In effetti, l’attitudine della massa dei giovani di fronte alla pandemia – oscillanti tra “senso di responsabilità” verso i più fragili e comportamenti “liberatori” rigorosamente individuali o amicali nell’ambito di un consumismo da eventi compensativo – non segnala al momento un ripensamento della propria misera collocazione in questa società, tra l’essere riserva di lavoro precario e fruitori di consumi inutili o distruttivi, né dei possibili modi alternativi di socialità. Sembra il loro ancora un immaginario legato alle aspettative di “ceto medio in formazione” – puoi essere tutto ciò che saprai essere – con credito facile e arricchimento accessibili in funzione della meritocrazia dell’intelligenza. Immaginario cui continua a contribuire l’istituzione scolastica con la subalternità controproducente degli insegnanti, i quali hanno da tempo costruito la loro identità sull’illusione di essere vettori insostituibili (?) della mobilità sociale (?) dei propri studenti. È sperabile che la crisi pandemica inizi a scuotere tutto ciò. Certo, l’ordine secco impartito dalle imprese – per le quali la scuola di massa, al di là di ogni retorica sulla formazione, deve fungere prevalentemente da parcheggio per i figli della propria forza-lavoro – a “riaprire” le scuole quali che siano le condizioni di sicurezza, la dice lunga su quello che il capitale prepara più in generale per il ceto medio salariato delle infrastrutture pubbliche. Del resto, il peggioramento complessivo della condizione dei lavoratori – quale migliore occasione di una crisi dovuta a cause “naturali”?! – è l’obiettivo di un possibile uso capitalistico anche della faglia generazionale, con i giovani che potrebbero essere scagliati contro i “vecchi privilegiati” nel tentativo delle imprese di trovare, per una propria rivitalizzazione, nuove riserve di energia disponibili a basso costo. Dumping generazionale in vista in una società capace solo di sprecare e bruciare le energie della gioventù, ma anche nascosto potenziale di quest’ultima.
4.3 In questo senso giocano anche i limiti delle reazioni di chi, per lo più salariato, ha cercato di opporsi alle “ragioni” dell’impresa e al social-darwinismo di alcuni governi:
- non si è andati molto oltre la difesa immediata della salute nell’illusione diffusa di tornare a “come si era prima” o, almeno, di poter minimizzare i danni con richieste categoriali puramente economiche (verso cui, nella migliore delle ipotesi, spingono i sindacati);
- lo stesso soggetto che ha spinto per misure restrittive è facile che spinga ora per la riapertura delle attività economiche, vuoi perché preso dalla drammaticità delle prospettive occupazionali vuoi per una mutata percezione della soglia del rischio sanitario (“col virus si deve convivere”);
- è forte la delega allo Stato per le misure di prevenzione del rischio e poi di difesa del reddito; anche se non c’è una richiesta di un “potere forte”, i governi sapranno utilizzare tale legittimazione per far passare a tempo debito l’inevitabile socializzazione delle perdite sulla base del richiamo all’unità di tutti nei sacrifici;
- non c’è chiarezza sulle cause prettamente sociali della pandemia (non, ovviamente, del virus) legate al modo di produzione capitalistico.
Tutto ciò potrebbe risospingere quella parte di proletariato ancora legata al residuo compromesso sociale nella passività o, peggio, accodarlo nei confronti di quei settori di capitale più concentrati che dell’emergenza epidemica puntano a fare il trampolino di lancio per ricette economiche shock; mentre i settori meno “protetti” cadrebbero in balia, senza peraltro capacità di condizionamento, del sovranismo (in Europa, al momento, più di facciata e filo-americano) della piccola borghesia portata alla rovina dal grande capitale.
4.4 Altri slittamenti prefigurano invece, per lo meno in Europa, potenziali ma non scontati passaggi in avanti nella chiarificazione dei rapporti di classe e nel posizionamento proletario:
- mentre nella prima fase del neopopulismo lo scontro, per lo più ancora di umori e comportamenti elettorali, è stato globalisti contro cittadinisti-sovranisti, la doppia crisi in corso rimette sì in campo la necessità di secche misure stabilite a scala nazionale, al contempo rende evidente che la scala decisiva delle questioni, o almeno uno dei terreni fondamentali, tanto più a fronte ad una pandemia, è quella internazionale;
- emerge uno spostamento importante del disagio neopopulista dal piano fin qui prevalentemente politico – espresso dalla rivolta cittadinista contro i “corrotti” e da quella sovranista contro i poteri sovranazionali – al piano del funzionamento dell’economia e della società (lo scarso interesse in Italia per il referendum “anti-casta” è indicativo dello slittamento degli umori di massa);
- soprattutto, è in atto una divaricazione tra spinte dal basso e contenitori politici istituzionali, che si sono fin qui fatti rappresentanti dei perdenti della globalizzazione. Anche se non abbiamo ad oggi un conflitto di classe aperto – tipo mobilitazione dei Gilets Jaunes francesi[2], che ha messo in crisi le pretese credenziali populiste del lepenismo di nuovo conio – la presa dell’asse sovranista (il cosiddetto populismo di destra) sul popolo è stata messa alla prova. L’esito non può non aver sollevato seri dubbi, in particolare sul versante proletario, soprattutto alla luce del sostanziale negazionismo rispetto all’epidemia dei campioni sovranisti “di destra”, costretti dagli eventi a riposizionarsi in maniera piuttosto netta nel campo della libertà di impresa e del più sfrenato individualismo proprietario (Lega italiana, AfD, conservatori brexiters, ecc.), nonostante le ragioni non sempre peregrine addotte contro il “capitalismo della sorveglianza” dalle frange “anarco-capitalistiche” di questo spettro politico. Ma anche il cosiddetto populismo “di sinistra” non se la passa molto meglio a misura che è stato ricondotto nell’alveo di politiche istituzionali centriste ed europeiste (M5S, Podemos) perdendo ogni possibilità di appuntamento con il futuro.
4.5 Negli Usa la dinamica è ancor meno lineare. La crisi covid, gestita dall’amministrazione Trump al modo che sappiamo, si è intrecciata non solo con una grave disoccupazione, ma anche con la mobilitazione antirazzista scoppiata a seguito dell’assassinio di George Floyd. Con il virus che colpiva, e continua a colpire, lungo evidenti linee di classe e di colore affondando il coltello nella disastrosa situazione sociale, la questione razziale è diventata la cifra di un disagio complessivo. È l’insieme della vita sociale che si rivela sempre meno accettabile per uno spettro di sfruttati più ampio dei neri, tra guerra contro i poveri e guerra tra poveri. Grazie alla partecipazione, simpatia o anche solo attenzione che ha suscitato all’interno di settori proletari bianchi – anche di una parte degli elettori di Trump quattro anni fa – la mobilitazione antirazzista ha così iniziato a mettere in difficoltà il sovranismo trumpista, che alla base proletaria si era rivolto con la prospettiva di riconquista del primato industriale e di risparmi sulle spese per guerre lontane. Ma, va detto, difficilmente essa potrà andare all’immediato oltre questo primo, importantissimo risultato a misura che rimane incentrata sull’anti-trumpismo e sulla pur fondamentale lotta antirazzista: qui i punti di caduta sono già ben visibili nella capacità di recupero da parte del fronte democratico in termini di politiche identitarie che escludono programmaticamente di portare il conflitto su un terreno di classe, l’unico in grado di parlare al settore degli sfruttati bianchi che, piaccia o meno, resta decisivo. Trump ha così modo di rieditare, seppur in tono meno “classista”, il suo fronte con il richiamo a “legge e ordine” e la chiamata alle armi contro la Cina (condivisa, peraltro, dai democratici e, come umore, da gran parte degli elettori), dopo essere ricorso a importanti sussidi economici anti-disoccupazione (l’helicopter money che piace a tanta sinistra). Le possibilità del sovranismo di destra sono dunque tutt’altro che esaurite – così come l’imperialismo Usa non è affatto alla canna del gas. Le elezioni presidenziali, eventualmente dopo un “incidente” internazionale contro Pechino o Teheran, potrebbero serbare sorprese. Ma ciò non toglie nulla all’importanza di questa scesa in campo che lascia intravedere i contorni, pur non ben decifrabili, di una potenziale guerra di classe nel ventre della bestia imperialista.
4.6 Insomma, il passaggio in atto, assai tortuoso, potrebbe preludere a un (confuso, “sporco”) secondo tempo del neopopulismo che, ben oltre il terreno elettorale fin qui privilegiato, vedrebbe sciogliersi alcune delle ambivalenze viste nella direzione di un approfondimento delle istanze classiste proletarie e, contestualmente, della radicalizzazione di quelle sovraniste-nazionaliste, in tendenziale rotta di collisione reciproca, mentre andrebbero a bruciarsi le posizioni intermedie. Il che non significa, a breve-medio termine, la possibilità di una ripresa proletaria su basi proprie. Al di là delle situazioni specifiche, il grosso problema per uno scarto in avanti del proletariato dal posizionamento neopopulista sta nella difficoltà di creare un movimento generale anche partendo da un terreno e un settore particolari ma in grado di fare del proprio problema una questione vitale per l’ampio spettro degli sfruttati, dunque su contenuti almeno implicitamente politici (ma non istituzionali), sulla falsariga di quanto tentato dai GJ. Anche per questo non si può escludere l’eventualità di una guerra di tutti contro tutti – una guerra civile, sotterranea o palese, senza guerra di classe, anche fomentata dai diversi racket del potere – laddove i contesti nazionali dovessero implodere per ragioni economiche, geopolitiche o sociali. La confusione è grande sotto il cielo... Molto dipenderà dagli sviluppi tortuosi di una crisi a denti di sega, sì all’ingiù ma finora senza precipitazioni catastrofiche, dall’evoluzione dello scontro geopolitico tra Usa e Cina, da un’eventuale ricollocazione più autonoma della Ue – che nel caso potrebbe trascinare con sé settori già euroscettici – e, infine, dagli esiti della profonda ristrutturazione capitalistica che ha già iniziato il suo corso.
§ 5. Ristrutturazione capitalistica
Una variabile fondamentale è data dal corso e dal ritmo che assumerà la ristrutturazione capitalistica innescata dalla doppia crisi: che cosa comporterà, se ci saranno reazioni, di quali classi e di che tipo? La sua necessità si era resa inderogabile da prima che scoppiasse la pandemia, a fronte del rallentamento produttivo dei due motori, Cina e Germania, che hanno fin qui sostenuto l’accumulazione globale. La nuova situazione rappresenta l’occasione d’oro per una terapia-shock basata su automazione, intelligenza artificiale, digitalizzazione generalizzata tramite piattaforme dei processi produttivi (anche la casa diventa luogo di produzione), logistici e riproduttivi (scuola, sanità, pubblica amministrazione, ordine pubblico, ecc.). Un futuro annunciato, non una novità assoluta: a ciò la socializzazione e l’assuefazione alle macchine digitali preparano da tempo, trasversalmente a generazioni e aree geoeconomiche. E non è detto che, in controtendenza a quanto visto finora, la trasformazione di un’altra consistente fetta di attività in lavoro direttamente digitale non susciti maggiore consapevolezza dell’espropriazione e dell’impoverimento in corso e qualche reazione di lotta.
Nel frattempo si approfondiscono i processi di centralizzazione dei capitali – Big Tech e Big Pharma in prima fila – di messa fuori mercato dei competitori più deboli, di assoggettamento dei capitali meno concentrati: processi che vanno a incrociarsi con le acuite tensioni geopolitiche (§ 1.3-4). I processi lavorativi subiranno con le nuove tecnologie – la classica estrazione di plusvalore relativo – un’intensificazione decisa che anche in Occidente renderà superfluo molto lavoro, ne dequalificherà altro, rimescolerà le gerarchie di direzione e controllo riconfigurando i ruoli tecnici. Non solo il proletariato ma anche i ceti medi, comunque collocati, subiranno profonde trasformazioni in peggio, le riserve fin qui accumulate tenderanno ad assottigliarsi. Tanto più che la configurazione degli spazi urbani e la rendita immobiliare verranno a riconfigurarsi con le ricadute del caso su forme di vita urbane e periurbane e su fonti di reddito così come la crisi dell’economia degli eventi e del consumo culturali, se non contingenti, incideranno a fondo sulle narrazioni globaliste già peraltro non in buona salute.
Non a caso il padronato e il ceto politico più “progressisti” hanno in mente forme di compensazione come un reddito universale di sopravvivenza e la generalizzazione, ma al ribasso, delle prestazioni welfaristiche, nel mentre propugnano politiche migratorie atte ad allargare il bacino di forza-lavoro disponibile a basso costo. Che, però, questo possa bastare a superare gli assetti cosiddetti post-fordisti stabilendo un nuovo standard di valore mondiale senza previa e consistente distruzione di capitale fittizio e fisico, resta da vedere...
§ 6. Riflessioni conclusive
Per concludere. Sullo sfondo di una vera e propria crisi della civiltà capitalistico-industriale, la vicenda covid sembra prefigurare confusamente lo scontro tra due partiti – in senso “storico”, non “formale” – quello economicista-neomalthusiano contro quello dell’individuo sociale, che sa mettere al primo posto la riproduzione della specie umana. Il primo, il partito borghese sottomesso alla valorizzazione è per ora ben saldo al potere, pur essendo percorso da contraddizioni, anche interne, sempre più dirompenti destinate ad accrescersi con l’inceppamento dell’accumulazione. Il secondo, esauritasi la parabola del movimento operaio, è allo stato molecolare e si staglia fragilissimo sullo sfondo di un confuso humus sociale. Ma ha dato segni di vita, ed è già qualcosa, in particolare su due aspetti in prospettiva fondamentali.
Primo, con la reazione istintiva contro la subordinazione della vita alle ragioni del capitale di una parte della classe sfruttata e oppressa, minoritaria ma sostenuta da un senso comune assai più ampio, non è scesa in campo per interessi particolari ma ha in un certo senso lottato contro se stessa come elemento del capitale, ha contrapposto, pur inconsapevolmente, la riproduzione sociale a quella sistemica, ha cozzato, senza volerlo, con i limiti della propria condizione proletaria particolare, interna al capitale, come limiti alla riproduzione della comunità umana.
In secondo luogo, ha dimostrato di saper concretamente disconnettere, sia pure per una breve parentesi, la riproduzione della vita dalla riproduzione del capitale.
Si darà, in prospettiva, la possibilità di una presa d’atto da parte di ampie masse della crisi della riproduzione sociale complessiva, natura compresa, nel suo urtarsi contro i limiti sempre più distruttivi posti dalla riproduzione del capitale?
Che tutto ciò avvenga attraverso catastrofi, economico-sociali, belliche e ambientali, sta purtroppo nelle cose: il capitale è come un vampiro, tanto più tiene quanto più i vivi diventano deboli, si ammalano, provano paura. Ma di qui si dovrà passare, e non è detto che dalla paura – una delle componenti fondamentali delle passioni umane – debbano emergere sempre solo risposte regressive.
Humani nihil a me alienum puto...
Note
1 V. R. Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios 2019 e Il neopopulismo come problema, in A. Barile, Il secondo tempo del populismo, Momo 2020, dove ho abbozzato una fenomenologia incrociando le due varianti cittadinismo/sovranismo, una genealogia che rimanda alla storia del movimento operaio novecentesco e al passaggio cruciale del Sessantotto, e infine un’ipotesi teorico-politica.
2 Vedi Nicola Casale, Gilets Jaunes. La vittoria dei vinti?, Asterios 2019 e Tristan Leoni, Sur les Gilets jaunes, entrambi in rete.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento