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29/09/2020

L’ultima dei neoliberisti: “regolarizziamo l’imprenditoria mafiosa”

Si parla molto, a periodi alterni, del pericolo che le mafie possano approfittare della carenza di liquidità di molte imprese – specie medio-piccole, ma non solo queste – per riciclare i propri proventi illegali e acquisire facilmente il controllo di aziende “pulite”.

Lasciamo da parte le giaculatorie finto moraliste dei Saviano di turno, e proviamo a guardare se il problema c’è e da cosa è alimentato o facilitato.

Il direttore di Milano Finanza, Paolo Panerai, ha dedicato all’argomento il suo editoriale del sabato, fornendo informazioni che i moralizzatori normalmente dimenticano. Perché sono in genere difficili da gestire per i loro committenti (Repubblica, per dirne uno, ossia la famiglia Agnelli). E sfornando anche una proposta che di sicuro è “sorprendente”.

Il problema esiste, ed è globale. Si fanno esempi concretissimi come la vendita di obbligazioni emesse da alcune famiglie di ‘ndrangheta – attraverso società costituite ad hoc e con la promozione da parte di una rispettabile banca di Ginevra – “garantite da fatture non ancora saldate per servizi alla sanità pubblica”, che intanto “sono state vendute su mercati finanziari di tutto il mondo”.

Un danno da un miliardo per la sanità regionale calabrese, una multa ancora da quantificare per la banca, e un guadagno sicuro per quella ’ndrina.

Si può dire che è colpa della facilità con cui determinate “famiglie” possono infiltrarsi nella pubblica amministrazione e financo negli ospedali, ma ci si dovrebbe ricordare che sul piano politico-elettorale quelle “famiglie” (peraltro note) hanno un peso determinante che sanno sfruttare benissimo, e soprattutto che l’infiltrazione è stata ancor più agevolata con la “privatizzazione ed esternalizzazione” di numerosi servizi ospedalieri prima gestiti in house (mense, catering, pulizie, portinerie, persino i servizi infermieristici, ecc).

Nell’operazione in questione non hanno fatto una grande figura Mediobanca (che comunque è “parte lesa”), e ancor meno Ernst & Young, che l’assisteva come “società di revisione”, ma sembra spesso cieca (non si era “accorta” neanche degli strani conti presentati dalla tedesca Wirecard, poi fallita col botto e grande scorno di Berlino).

Sotto osservazione e allarme è anche la capacità di “evoluzione” delle organizzazioni mafiose maggiori, “Con la formazione di giovani attraverso l’iscrizione alle migliori università del mondo. Gli inquirenti hanno accertato che la ‘ndrangheta ha fatto laureare giovani di famiglie affiliate alla London school of Economics o ad Harvard”.

Qui la debolezza della pubblica amministrazione non c’entra naturalmente nulla. Anzi. In università pubbliche, magari con tasse di iscrizione basse, quegli stessi pargoli della malavita sarebbero costretti a districarsi nella massa, a studiare sul serio materie di cui magari non gli frega nulla (rischiando la bocciatura), e non solo quelle quattro cose rilevanti per avviare un’“attività compatibile” con gli interessi della “famiglia”.

Si potrebbe insomma facilmente obbiettare che certe università private, dalle rette esorbitanti, possono essere frequentate soltanto da chi dispone di risorse straripanti. Dunque, capitani d’industria o grandi trafficanti di droga. Che si conoscono, frequentano, relazionano, annusano, “combinano”, apprendono reciprocamente.

Nessuna sorpresa, da parte nostra. Il capitalismo, in fondo, è nato con “l’accumulazione originaria”, ossia con pirati e conquistadores, razziatori senza scrupoli e senza limiti. Lo sanno anche a Milano Finanza: “la famiglia Morgan, poi fondatrice della JP Morgan, [era] sospettata di aver fatto il primo patrimonio con il traffico di armi”. L’imprinting è quello, e poi, come fa una rispettabile università privata votata al profitto a rinunciare a certe rette? Mica può chiedere il certificato antimafia alle proprie matricole...

Come ammette Panerai, “come fa ogni multinazionale di successo, la diversificazione del business, che partendo dalla droga spazia anche in altri campi, acquisendo così conoscenze e competenza per riciclare, pulire, ma anche far crescere il patrimonio e il fatturato al pari delle maggiori multinazionali. Con anche la visione globale per impiantare business leciti, se non fosse per la provenienza dei finanziamenti dal denaro sporco”.

Tra multinazionali e trafficanti internazionali, insomma, la differenza è solo nella “legalità” del business di partenza, ma sui business successivi la differenza scompare...

Le stesse operazioni di quantitative easing, in atto ormai da un decennio, facilitano il compito degli “imprenditori extralegali”: “le principali banche centrali, dalla Bce alla Fed americana, stampano moneta in continuazione, per usare un’espressione figurativa. In questo mare di liquidità, naturalmente diventa sempre più facile immettere nel sistema denaro sporco e ripescarlo pulito”.

Il cittadino timorato ed onesto, a questo punto, si chiede “e lo Stato che fa?”. La risposta è abbastanza simile a quella di Don Raffae’ (“Si costerna, s’indigna, s’impegna / Poi getta la spugna con gran dignità”). Ma il buon Panerai, costretto nei luoghi comuni dell’iperliberismo, non ci si raccapezza molto e finisce come “il brigadiero” di Poggioreale.

Scrive infatti: “Negli Usa la forza dei mafiosi è stata solo messa in difficoltà usando l’arma dei reati di evasione fiscale, con il clamoroso arresto di Al Capone. Probabilmente se l’Italia avesse o avrà a breve un’organizzazione efficiente per combattere l’evasione, prima o poi qualche risultato positivo potrà essere raggiunto. Anche perché il denaro sporco finisce in attività lecite. Quindi con un fisco efficiente e draconiano non solo si potrebbero introitare tasse e imposte in più di cui un Paese super indebitato come l’Italia ha assolutamente bisogno, ma, sia pure in maniera indiretta, si taglierebbero le unghie alla criminalità organizzata rendendo meno ricchi i loro investimenti”.

Sorvoliamo su Al Capone, inchiodato in quel modo nel 1931. Se negli Usa il fisco fosse rimasto così attento, oggi non si ritroverebbero un presidente miliardario che non paga tasse da dieci anni...

Ricordiamoci invece cosa accade, qui da noi, ogni volta che qualcuno – incautamente – propone di fare sul serio un po’ di guerra all’evasione fiscale (e a quella contributiva, che dissangua le casse dell’Inps e rende difficile alla lunga pagare le pensioni). Confindustria si alza, minaccia, scatena i suoi giornali e i suoi parlamentari di riferimento (equamente distribuiti in tutti gli schieramenti, per non sbagliare).

Qui, se pure il fisco – le Agenzie delle entrate sono da anni sotto organico, non si assumono nuovi “cacciatori” perché bisogna “risparmiare” sulla spesa pubblica – trova qualcuno che ha evaso milioni (chessò, un Valentino Rossi come tanti...) le regole consentono di praticargli uno sconto milionario. Mica come a noi fessacchiotti a busta paga, che se non paghiamo una contravvenzione subito ci perseguitano per anni, con relativo aumento dell’importo da pagare!

Di fatto, insomma, lo Stato (o “il pubblico”) in questa parte dell’Occidente è stato ridotto praticamente al silenzio. L’ordine è “non disturbare l’impresa, anzi favorirla al massimo”, perché “solo le imprese creano lavoro”. Falso, ma non fa niente...

Anzi, il neo presidente di Confindustria sta da mesi conducendo un’offensiva – mediatica e politica – perché lo Stato di fatto si occupi solo di gestire l’ordine pubblico e mettere i soldi per costruire infrastrutture (inutili o utili, a lui non frega assolutamente nulla; purché si costruisca e le imprese facciano profitti con i soldi pubblici). Mai e poi mai di mettere il naso nei bilanci delle imprese.

È qui che anche il Panerai – e tutto l’establishment economico-politico nazionale – “getta la spungna con gran dignità”.

Sentite la conclusione:

“In termini pratici, ciò vorrebbe dire che dopo alcune generazioni, o anche una sola, i guadagni fatti con attività illecite diventano puliti. Se questa regola fosse una regola forte, l’Italia potrebbe avere nei prossimi anni alcuni gruppi industriali e finanziari capaci di rafforzare il sistema economico nazionale. Ma allora perché non istituire la task force per imprimere un’accelerazione a questo processo e far sì che la delinquenza del passato diventi positiva per il futuro?”

Diamo insomma a Matteo Messina Denaro et similia – o almeno ai loro figli – la possibilità di “ripulirsi” velocemente e passare armi e bagagli (pardon: solo i bagagli) dalla parte della “legalità” e dell’“impresa rispettabile che crea lavoro”.

Altrimenti anche loro, come hanno fatto gli imprenditori che hanno raggiunto prima la “rispettabilità”, delocalizzano e vanno a fare gli imprenditori altrove. Invece così, se gli va e non trovano più conveniente fare qualcos’altro, “investono”!

Il ragionamento ha una (non elegante) logica: se le mafie sono ricche e combatterle significa “limitare” in qualche misura la “libertà di impresa”, allora “conviene” farle entrare direttamente nella classe dirigente...

Questo è il capitalismo italiano. Hic sunt leones...

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