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14/09/2020

La crisi britannica

A meno di quattro mesi dall’inizio ufficiale del “divorzio” tra Gran Bretagna ed Unione Europea sembra riaffacciarsi lo spettro di una “Brexit senza-accordo”.

A quattro anni circa dal referendum che ha sancito l’uscita del Regno Unito dalla UE l’incertezza su quelli che saranno i rapporti tra le due entità è ancora dominata dall’incertezza.

A fianco, in parte come conseguenza o quanto meno concausa, tornano contestualmente in primo piano la possibilità di un secondo referendum sull’indipendenza scozzese – dopo quello del 2014 – e la tenuta di un referendum per l’unificazione dell’Irlanda, previsto dagli accordi di pace anglo-irlandesi del 1998.

Il percorso più che accidentato per un accordo commerciale dopo la separazione del Regno Unito dall’Unione è giunto ad una nuova impasse in seguito ad una iniziativa legislativa dell’esecutivo di Boris Johnson, che ha messo in discussione la possibilità di un accordo di libero scambio tra GB e Unione che desse continuità – in forme mutate – ai rapporti commerciali tra le due entità politiche.

Secondo l’analisi illuminante di Guido Salerno Aletta immediatamente successiva all’accordo raggiunto all’inizio di quest’anno: “Dopo la Brexit, il futuro delle relazioni commerciali tra Gran Bretagna ed Unione europea si fonda su un requisito che trova posto nella Dichiarazione politica, che ha valore di indirizzo: per quanto riguarda la competizione commerciale su un piano di gioco livellato, non c’è più l’impegno ad un allineamento dinamico agli standard dell’Unione, ma solo quello a non regredire rispetto ai livelli esistenti al termine del periodo di transizione.

In ordine al commercio di beni, mentre si conferma che Uk ed Ue saranno due mercati distinti, viene meno il riferimento al “single custom territory” per via dello speciale trattamento doganale riservato all’Irlanda del Nord e della creazione di una frontiera interna, con l’impegno ad accordi ambiziosi per evitare frizioni doganali e per combattere le attività illegali.”

Ma sembra che dalla difficile realizzazione di un punto di equilibrio tra le esigenze di Gran Bretagna e UE si sia giunti, o meglio si possa giungere, ad una rottura.

Il governo conservatore britannico ha infatti reso pubblico mercoledì 9 settembre un progetto di legge che contraddice in parte l’accordo già firmato relativo all’uscita del Regno Unito dall’Unione e che permetterebbe a Londra di “violarlo”, in pratica in barba al diritto internazionale.

BJ sembra disposto a “varcare il Rubicone” o a forzare pretestuosamente l’orizzonte delle trattative con la UE, mentre i i 27 – per voce del vice presidente della Commissione Manos Sefcovic – ne chiedono a gran voce il ritiro già da giovedì della scorsa settimana, giorno di chiusura dell’agitato ottavo round di trattative UE-Regno Unito.

A Bruxelles è un coro unico di indignazione per il comportamento britannico, preso come l’ennesimo smacco del caustico primo ministro britannico nei confronti dei suoi ex partner.

Questa ipotesi legislativa permetterebbe a Londra di prendere unilateralmente delle decisioni commerciali nella “provincia” dell’Irlanda del Nord, un potere che secondo l’accordo sulla Brexit dovrebbe essere condiviso con gli Stati Europei.

Questo accordo internazionale, in nuce “giuridicamente” scricchiolante, era il prodotto di una concezione pragmatica tesa innanzitutto a raggiungere un accordo senza troppo considerare le sue intrinseche debolezze, per salvare la faccia ad entrambi. In effetti chiedeva ad un Paese non più membro dell’Unione Europea di applicare – in questo caso specifico – la giurisdizione europea.

Dietro gli aspetti formali si nasconde però un conflitto sostanziale tra due sovranità politiche differenti, Gran Bretagna ed Unione Europea.

Inoltre questa vicenda dà la cifra del conflitto tra l’esecutivo britannico ed il Parlamento, che vorrebbe di fatto esautorare con piglio decisionista: non una novità, per l’esperienza governativa di BJ.

Di fatto questa legge, se approvata, permetterebbe di violare le disposizioni chiave del trattato concluso l’anno scorso, che mirava ad assicurare una concorrenza “leale” dopo la Brexit ed evitare il ritorno della frontiera tra l’Irlanda del Nord e l’Eire, conformemente all’Accordo di Pace del 1998.

“Il testo di legge britannico prevede che i ministri possano ormai emanciparsi dall’interpretazione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. È un atto di ribellione nei confronti della Corte, non considerata come una istituzione competente che agisce, ma come una fonte d’interpretazione che si decide di ignorare”, spiega a «Mediapart» Loïc Azoulai, docente di diritto a Sciences-Po a Parigi.

L’esame del testo di legge dovrebbe iniziare questo lunedì alla Camera dei Comuni, dove il governo conservatore dispone di una maggioranza di 80 seggi, assicurata dalla schiacciante vittoria ottenuta alle ultime elezioni in cui BJ era riuscito a capitalizzare il consenso rispetto alla sua scelta per il Leave al referendum.

Alcuni deputati tory “ribelli” – una ventina – minacciano di non votare la legge, e chiedono al Ministro della Giustizia britannico, Robert Buckland, di dimettersi per marcare il suo disaccordo.

Nonostante questa fronda, gli “hard brexiters” avrebbero i numeri per portare avanti il progetto

Domenica su questa ipotesi legislativa si sono espressi negativamente due ex primi ministri, il conservatore John Major ed il laburista Tony Blair, accusando il governo di “imbarazzare la Gran Bretagna” con una legislazione “irresponsabile, sbagliata nel principio e pericolosa nella pratica” insieme ad altre figure di spicco della politica britannica, così come della speaker del Congresso statunitense, la democratica Nancy Pelosi.

I “good friday agreements” avevano messo fine a trent’anni di guerra civile in Irlanda del Nord, spianando la strada ad una soluzione politica del conflitto armato tra Londra e gli indipendentisti irlandesi.

Da allora il Sinn Féin – la cui la proposta strategica è da sempre quella dell’unificazione politica dell’Isola – è diventata una rilevante forza politica non solo nel Nord, ma anche nell’Eire.

All’inizio di quest’anno si era reso protagonista di un exploit elettorale a febbraio, “vanificato” quest’estate da un fragile accordo – una specie di conventio ad escludendum contro il Sinn Fein – tra i due partiti che si sono tradizionalmente spartiti il potere a Dublino – il Fianna Fáil ed il Fine Gael – ed i “Verdi”.

L’ipotesi di un referendum per l’unificazione – previsto dagli accordi del ’98 – è rientrata prepotentemente nell’agenda politica della formazione dello storico leader indipendentista Gerry Adams dopo una campagna elettorale in cui si erano anteposte le proposte sociali relative alle storture del modello neo-liberista irlandese, sapientemente coniugate con le istanze patriottiche del partito.

È iniziata infatti quest’estate una campagna per rendere possibile la tenuta del referendum entro 5 anni.

Mary Lou McDonald, segretaria del SF, in una recente intervista all’Irish Times ha ribadito che “l’unità dell’Irlanda coinvolge tutti, non è un affare del Sinn Féin”.

Stando ai sondaggi è un’aspirazione che travalica le tradizionali divisioni politiche.

La leader irlandese afferma la priorità di questa battaglia nella propria agenda politica: “il nostro compito immediato è la preparazione per il cambiamento istituzionale”.

I cambiamenti demografici nell’Irlanda del Nord – dove la maggioranza protestante/unionista sta scomparendo – è un altro dato che mostra come le circostanze siano favorevoli.

Per ora il SF non si esprime su Stormont e quale sarà il processo di transizione su cui si deve aprire il dibattito. Ma “siamo in un momento in cui abbiamo l’opportunità ed il contesto politico. Possiamo cambiare l’Irlanda”.

La campagna per l’unità irlandese (A decade of Opportunities – Toward The New Republic) è di fatto iniziata questa estate come forma di pressione sul governo nazionale – che sembra piuttosto sordo alla road map proposta – e come percorso di sensibilizzazione popolare per una Repubblica inclusiva e rispettosa di tutte le sue componenti.

Intanto la Prima Ministra scozzese, Nicola Sturgeon – leader del Scottish National Party – nel corso della presentazione del proprio programma per la creazione di un fondo per 100 mila posti di lavoro “green” e le proposizioni per un “Servizio di Cura Nazionale”, a fine agosto, aveva espresso la volontà di tenere a marzo un secondo referendum sull’indipendenza scozzese.

Secondo Sturgeon la crisi pandemica ha dimostrato come le limitazioni alle capacità decisionali scozzesi hanno minato le possibilità di intervento.

Intende quindi preparare la cornice giuridica affinché si possa svolgere il referendum, senza per ora ipotizzare rotture unilaterali fuori dalla cornice legislativa vigente.

I sondaggi intanto registrano per la prima volta una maggioranza favorevole all’indipendenza, mentre 6 anni fa l’ipotesi unionista vinse di misura, con il 54-55%. Un mutamento d’opinione che gli analisti attribuirebbero “alla Brexit e alla percezione secondo cui la Sturgeon ha gestito la pandemia da coronavirus meglio di Johnson”, afferma il Financial Times.

Tornando al confronto tra Gran Bretagna e Unione Europea, i toni si sono notevolmente esacerbati questo fine settimana, con le accuse di BJ secondo cui l’UE starebbe minacciando un “blocco” in Irlanda del Nord che impedirebbe alle derrate alimentari del Regno Unito di giungervi. Accuse giudicate false dall’establishment politico dell’Irlanda e smentite pubblicamente, sia dal ministro della giustizia sia da quello degli Esteri.

Da qualsiasi angolazione la si guardi, è chiaro che la crisi britannica – esaltata dalla catastrofica gestione della pandemia – sta aprendo la strada ad ipotesi politiche inedite, segno di cambiamenti profondi che l’establishment sembra incapace di governare.

Dalle fratture esistenti possono nascere rotture dello status quo e si potrebbero giocare scommesse politiche fin qui ritenute impensabili.

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