Pubblichiamo il testo integrale di una intervista che abbiamo
rilasciato il 9 giugno scorso a Lorenzo Pedretti. Il contributo è stato
recentemente pubblicato sul periodico dell’ANPI Provinciale di Bologna,
‘Resistenza e nuove resistenze’. Il volume completo è disponibile a questo link.
Quanti fondi ha stanziato l’Ue?
Circa 3.400 miliardi secondo la Commissione europea (Ce), ma in realtà sono molti di meno.
2.450 miliardi provengono infatti dagli Stati membri, come gli
interventi per 330 miliardi della prima fase della pandemia. Gli impegni
veri e propri dell’Ue si articolano in tre misure.
Quali?
La Banca europea per gli investimenti (Bei) si impegna a garantire
crediti d’impresa per 200 miliardi, ma il loro uso dipende dalla volontà
delle imprese d’investire. Poi c’è il fondo Sure: 100 miliardi per
sussidi di disoccupazione che andranno divisi in 10 anni e tra 27 Stati
membri. Avranno un impatto marginale. Nella sola Italia spendiamo circa
30 miliardi all’anno in sussidi di disoccupazione in tempi normali.
Infine c’è il Meccanismo europeo di stabilità (Mes), un’organizzazione
internazionale che dovrebbe concedere prestiti fino a 240 miliardi,
nella misura del 2% del Pil per Paese (circa 38 miliardi per l'Italia).
Così gli Stati non s’indebiterebbero direttamente sui mercati.
Cosa implica accedere al Mes?
Una boccata di ossigeno oggi e la stretta del cappio al collo domani.
Finanziarsi a un costo minore, ma con un risparmio minimo: 7 miliardi
in dieci anni. Si dice che il solo vincolo è destinare i fondi alla
sanità. Ma i prestiti verrebbero elargiti in sette tranche e per
accedervi gli Stati dovranno rispettare le regole di bilancio precedenti
la crisi, nel segno dell’austerità. Se uno Stato se ne discosta, il Mes
può interrompere la linea di credito.
Quali misure sono in via di definizione?
Il Recovery Fund, ora Next Generation Eu, in base a cui la UE s’indebiterebbe fino a 750 miliardi. Partirebbe dal 2021 ed è ancora oggetto di contrattazioni.
Questo programma si comporrebbe di prestiti per 250 miliardi, da
restituire, e di 500 miliardi a fondo perduto. All’Italia spetterebbero,
rispettivamente, circa 90 e 80 miliardi. Anche in questo caso,
tuttavia, verrebbero elargiti in rate condizionate alle solite
“riforme”, ad esempio una nuova e peggiorativa riforma delle pensioni.
Come giudicate queste misure?
Insufficienti ad affrontare la crisi e pericolose per le loro
condizionalità. Forse evitano turbolenze sui mercati finanziari ma non
aiutano realmente gli Stati membri. Rischiano anzi di ostacolare la
ripresa.
E la BCE di Christine Lagarde?
Ha avviato un programma di acquisto di titoli di debito pubblico per 1.350 miliardi (Pepp, Pandemic emergency purchase programme) che prosegue il Quantitative easing di
Mario Draghi. Questo mostra la sua capacità di fissare i tassi
d’interesse sul debito che i singoli paesi pagano. Ma è una misura eccezionale e
temporanea.
Come mai?
Lo scopo non è aiutare gli Stati in difficoltà facilitandone il
finanziamento sui mercati, ma evitare turbolenze finanziarie. Inoltre, la Bce da
statuto acquista titoli in proporzione alla quota che ogni Paese ha
conferito al suo bilancio. In tempi normali questo farebbe aumentare gli
spread, poiché la Germania paga i tassi di interesse minori ma ha anche
la quota di bilancio maggiore. Adesso la Bce acquista più titoli
italiani ma, finito il programma gli acquisti si ridurranno. Potrebbe
sterilizzare lo spread acquistando quantità sufficienti di titoli, ma il
suo mandato non è quello di sostenere le politiche pubbliche. Anzi, ne
lega le mani lasciando esposti alla speculazione finanziaria i Paesi che
dovessero discostarsi dalle sue indicazioni.
Cosa fanno le altre banche centrali?
Aiutano i governi a trovare i fondi per affrontare la crisi. La Bank of England monetizza il debito:
acquista titoli di debito senza passare dai mercati finanziari fornendo
al Tesoro britannico circa 200 miliardi di sterline. La Fed americana e
la Bank of Japan hanno lanciato programmi di acquisto illimitato di
titoli sia statali sia delle amministrazioni locali.
Cosa intendiamo con austerità?
Vuol dire che lo Stato spende meno di quanto riceva dalle tasse
(esclusa la spesa per interessi sul debito pubblico) e s’impegna a
tagliare le spese. In Italia è così dal 1992, anche se il termine è
tornato in auge dal 2011. Questa prassi deriva dai vincoli del trattato
di Maastricht, del Patto di stabilità e crescita e del Patto di bilancio
europeo: prevedono che il rapporto debito pubblico/Pil tenda al 60%, e
che il rapporto deficit/Pil non superi il 3%. Ciò impedisce agli Stati
di fare politiche espansive e di combattere la disoccupazione.
Come è stata giustificata?
Secondo alcuni economisti meno spesa pubblica equivarrebbe a tassi
d’interesse inferiori e ciò stimolerebbe l’iniziativa privata. Molti
studi hanno però dimostrato come la spesa pubblica aiuti la crescita.
L’austerità non ha effetti espansivi ed è anzi pericolosa per il
rapporto debito/Pil. Tagliare la spesa pubblica, soprattutto in una
crisi, deprime la crescita e se il Pil non cresce tale rapporto
aumenta.
Perché continuiamo così?
Perché la politica sceglie di non perseguire l’obiettivo della piena
occupazione e punta a flessibilizzare il mercato del lavoro. Ma l’Ocse
ha sostenuto che queste riforme, che in Italia vanno dal pacchetto Treu
al Jobs Act, hanno effetti nulli sull’occupazione e negativi sui salari.
Questo però ha una sua logica perversa: quando l’austerità riduce la
crescita, indebolire i salari è il solo modo per rimanere competitivi
verso Paesi che hanno fatto lo stesso. In ciò è campione la Germania,
che così riduce la crescita dei prezzi delle sue merci e campa di
esportazioni. Cresce a scapito dei suoi lavoratori e degli altri Stati
dell’Ue e non stimola la propria domanda interna. Ma quando la domanda
altrui si riduce (in Cina per le guerre commerciali e in Europa perché
vengono compressi salari e consumi) anche la sua crescita frena.
Ritenete il debito pubblico un problema?
No. È il viatico per aumentare la domanda aggregata e favorire la crescita economica e occupazionale.
Chi dice che è un onere per le generazioni future mente. Lo sosteneva
persino un liberale quale Luigi Einaudi. Politiche in deficit sono
l’unica soluzione per ovviare alla nostra crescita stagnante.
L’Ue non si preoccupa dei disoccupati?
No. Prevede un tasso di disoccupazione compatibile con un’inflazione stabile (Nairu, Non-accelerating inflation rate of unemployment).
Nel caso italiano si aggira intorno al 10%, pari a quello attuale. Per
il mandato della Bce conta più raggiungere l'obiettivo d’inflazione che
sostenere l’occupazione. Ma con disoccupazione elevata e senza
politiche fiscali espansive, non solo il pericolo inflazionistico è
improbabile ma assistiamo a inflazione stagnante se non a deflazione.
Significa che sono tutelati solo i profitti?
Praticamente sì. La quota dei salari sul reddito nazionale è crollata
ovunque. In Italia era pari al 67,5% nel 1960 e nel 2019 era poco sopra
il 52%. Questo è avvenuto indebolendo i lavoratori: precariato, blocco
dell’adeguamento dei salari, soppressione dell’articolo 18. Ma le
imprese non hanno aumentato le assunzioni, perché ciò che stimola
l’occupazione è la domanda aggregata, che invece è stagnante a causa di
austerità e indebolimento dei salari. In più la libera circolazione dei
capitali e la minaccia delle delocalizzazioni rappresentano un continuo
ricatto nei confronti dei lavoratori. Nell’ultimo bollettino economico
del 2015 la Bce ha scritto che, nonostante le riforme del mercato del
lavoro, il tasso di crescita dei salari diminuiva meno del previsto.
Ostilità verso il lavoro, nero su bianco.
L‘emergenza sanitaria cambia le cose?
Evidenzia le conseguenze dei tagli al sistema sanitario e l’emersione
drammatica di povertà, disoccupazione e disuguaglianze. Ma non sembra
che la politica italiana ed europea voglia cambiare approccio. Le
condizionalità implicano mettere in sicurezza l’economia per poi tornare
allo status quo precedente la crisi, scaricandone il costo sui più
deboli.
I trattati Ue si possono riformare?
No, ma il problema non è tecnico (per riformarli serve l’unanimità)
bensì politico e legato ai rapporti di forza vigenti. Germania e Paesi
nordeuropei si oppongono a qualunque modifica, anche minima, dei
trattati e delle politiche dell’Ue. L’unica soluzione è avere il
coraggio di dire che i trattati vanno messi in discussione. Colpisce
come questo tema sia un tabù per gran parte della politica, soprattutto a
sinistra. Bisogna sollevarlo, militare nei soggetti che possono esservi
sensibili, non lasciarlo in mano alle destre, che lo sfruttano per meri
fini di consenso, e sfidare la narrazione di politici e media
principali. Il progressismo o si oppone ai vincoli Ue o è finito in
partenza. Infatti i partiti di centro-sinistra, dopo aver realizzato
tutte le riforme restrittive del mercato del lavoro d’Europa, sono
andati in crisi ovunque.
Ma l’Ue non argina i nazionalismi?
Li fomenta, semmai. Nell’Ue non c’è cooperazione bensì competizione
tra gli Stati membri, specie fra Nord e Sud. E l’impoverimento causato
dall’austerità ha fatto aumentare il bacino elettorale delle destre.
Quali conseguenze avrebbero l’uscita dall’euro, o dall’Ue nel suo complesso?
Non sono facilmente prevedibili ma non si tratta solo di questioni
tecniche. Tutto dipende da chi gestirà la transizione, da interessi
nazionali dominanti, alleanze internazionali, riserve di moneta estera
in nostro possesso per finanziare le importazioni, e altro ancora.
Uscire è però necessario per rimettere al centro dell’agenda politica
l’obiettivo della piena occupazione e della lotta alle disuguaglianze.
Cosa suggerite nell’immediato?
Emettere tutti i titoli di debito pubblico necessari
e verificare quanti ne acquista la Bce. La caduta del Pil italiano è
stimata tra il -8 e il -12%, mai successo in tempo di pace. Per ora la
Bce acquista più titoli di prima ma, se dovesse smettere, la
contraddizione dentro l’Ue sarebbe palese. Per riprenderci da questa
crisi servirà un cambio di rotta radicale. Altrimenti precipiteremo.
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