di Roberto Prinzi – il Manifesto
La Libia è una pentola a
pressione sul punto di scoppiare. Le proteste di agosto in Tripolitania
contro le condizioni di vita precarie, la crisi energetica e il
malgoverno erano state un’avvisaglia. Quelle simili degli ultimi giorni
in Cirenaica, nell’est, sono più di una conferma.
Nel baratro in cui versa il paese – lacerato da una guerra fratricida e imperversato da milizie e mercenari stranieri – a pagare i conti del conflitto è soprattutto la popolazione civile,
ritrovatasi ancora più impoverita e senza servizi nell’ultimo anno e
mezzo e che ora guarda con crescente preoccupazione all’epidemia di
Covid-19 in pericolosa crescita nelle ultime settimane.
Le ultime proteste hanno avuto come fulcro Bengasi, il capoluogo della Cirenaica.
Qui domenica i manifestanti – alcuni armati con pistole – sono riusciti
a dar fuoco persino a un edificio governativo. Ma a mobilitarsi sono
state anche al-Bayda (sede del “governo ad interim” cirenaico) e
al-Marj. Qui, denuncia la missione Onu nel paese, la tensione è stata
altissima: le forze di sicurezza avrebbero usato «contro manifestanti
pacifici un uso eccessivo della forza».
Il bilancio delle Nazioni unite parla di un civile ucciso, di
altri tre feriti e un imprecisato numero di persone «arrestate e
detenute arbitrariamente». Il dito è puntato contro l’Enl,
l’autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Haftar, che però
accusa i «terroristi pronti a sfruttare le proteste per distruggere e
rubare proprietà pubbliche e private».
Il malcontento popolare ha avuto immediate conseguenze
politiche: il premier di Tobruk al-Thinni ha rassegnato due giorni fa le
dimissioni ad Aguilah Saleh, il presidente del parlamento di Tobruk non riconosciuto internazionalmente.
Alcune fonti locali riferiscono che ora sarà sostituito da Ibrahim
Bouchnaf (attuale ministro dell’interno del governo cirenaico) il cui
compito sarà quello di formare un nuovo esecutivo. Ma al momento sono
solo indiscrezioni: alcuni media libici scrivevano ieri mattina che
Saleh era intenzionato a respingere le dimissioni.
Già, Saleh, il «moderato» per la comunità internazionale e
per i nemici tripolini che vedono in lui l’unico interlocutore per la
pace. Ma è lui che realmente governa la Cirenaica o è ancora il
generale Haftar, nemico giurato del Governo di accordo nazionale (Gna)
di Tripoli del premier al-Sarraj? Le proteste di questi giorni pongono
legittimamente la domanda.
È vero che Haftar è isolato e che i partner stranieri lo hanno messo
da parte dopo le sue brucianti sconfitte militari. Tuttavia è lui
(grazie al sostegno di gran parte delle tribù) che tiene chiusi da più
di 240 giorni i campi petroliferi del paese. Una mossa nata in chiave
anti-Gna per dividere meglio i profitti del petrolio, ma che si sta
rivelando un clamoroso autogol: sia per le perdite economiche (a oggi
stimate a 9,8 miliardi di dollari) sia per i frequenti blackout, sempre
più insostenibili per la popolazione civile.
Ed è ancora Haftar, non Saleh, che decide la sorte dei 18
pescatori italiani e di due natanti sequestrati 12 giorni fa a largo di
Bengasi. Sono ambienti vicini al generale ad aver proposto uno
scambio nei giorni scorsi: il rilascio dei nostri connazionali in
cambio della liberazione di quattro libici arrestati nel 2015 a Catania e
condannati a 30 anni di carcere come trafficanti e assassini. Per l’Enl erano «giovani calciatori in cerca di fortuna in Germania».
Di tutt’altro avviso è il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro che
ha ricordato come, oltre a essere scafisti, «lasciarono anche morire in
maniera spietata 49 migranti sprangando il boccaporto della stiva per
non ritrovarseli in coperta». Il silenzio calato sulla vicenda preoccupa
sempre più i familiari dei 18 sequestrati che hanno protestato ieri a
Mazara del Vallo (Trapani) contro «l’inefficienza del governo italiano».
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