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15/09/2020

Libia - Proteste a Bengasi, il governo si dimette

di Roberto Prinzi – il Manifesto

La Libia è una pentola a pressione sul punto di scoppiare. Le proteste di agosto in Tripolitania contro le condizioni di vita precarie, la crisi energetica e il malgoverno erano state un’avvisaglia. Quelle simili degli ultimi giorni in Cirenaica, nell’est, sono più di una conferma.

Nel baratro in cui versa il paese – lacerato da una guerra fratricida e imperversato da milizie e mercenari stranieri – a pagare i conti del conflitto è soprattutto la popolazione civile, ritrovatasi ancora più impoverita e senza servizi nell’ultimo anno e mezzo e che ora guarda con crescente preoccupazione all’epidemia di Covid-19 in pericolosa crescita nelle ultime settimane.

Le ultime proteste hanno avuto come fulcro Bengasi, il capoluogo della Cirenaica. Qui domenica i manifestanti – alcuni armati con pistole – sono riusciti a dar fuoco persino a un edificio governativo. Ma a mobilitarsi sono state anche al-Bayda (sede del “governo ad interim” cirenaico) e al-Marj. Qui, denuncia la missione Onu nel paese, la tensione è stata altissima: le forze di sicurezza avrebbero usato «contro manifestanti pacifici un uso eccessivo della forza».

Il bilancio delle Nazioni unite parla di un civile ucciso, di altri tre feriti e un imprecisato numero di persone «arrestate e detenute arbitrariamente». Il dito è puntato contro l’Enl, l’autoproclamato Esercito nazionale libico del generale Haftar, che però accusa i «terroristi pronti a sfruttare le proteste per distruggere e rubare proprietà pubbliche e private».

Il malcontento popolare ha avuto immediate conseguenze politiche: il premier di Tobruk al-Thinni ha rassegnato due giorni fa le dimissioni ad Aguilah Saleh, il presidente del parlamento di Tobruk non riconosciuto internazionalmente.

Alcune fonti locali riferiscono che ora sarà sostituito da Ibrahim Bouchnaf (attuale ministro dell’interno del governo cirenaico) il cui compito sarà quello di formare un nuovo esecutivo. Ma al momento sono solo indiscrezioni: alcuni media libici scrivevano ieri mattina che Saleh era intenzionato a respingere le dimissioni.

Già, Saleh, il «moderato» per la comunità internazionale e per i nemici tripolini che vedono in lui l’unico interlocutore per la pace. Ma è lui che realmente governa la Cirenaica o è ancora il generale Haftar, nemico giurato del Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli del premier al-Sarraj? Le proteste di questi giorni pongono legittimamente la domanda.

È vero che Haftar è isolato e che i partner stranieri lo hanno messo da parte dopo le sue brucianti sconfitte militari. Tuttavia è lui (grazie al sostegno di gran parte delle tribù) che tiene chiusi da più di 240 giorni i campi petroliferi del paese. Una mossa nata in chiave anti-Gna per dividere meglio i profitti del petrolio, ma che si sta rivelando un clamoroso autogol: sia per le perdite economiche (a oggi stimate a 9,8 miliardi di dollari) sia per i frequenti blackout, sempre più insostenibili per la popolazione civile.

Ed è ancora Haftar, non Saleh, che decide la sorte dei 18 pescatori italiani e di due natanti sequestrati 12 giorni fa a largo di Bengasi. Sono ambienti vicini al generale ad aver proposto uno scambio nei giorni scorsi: il rilascio dei nostri connazionali in cambio della liberazione di quattro libici arrestati nel 2015 a Catania e condannati a 30 anni di carcere come trafficanti e assassini. Per l’Enl erano «giovani calciatori in cerca di fortuna in Germania».

Di tutt’altro avviso è il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro che ha ricordato come, oltre a essere scafisti, «lasciarono anche morire in maniera spietata 49 migranti sprangando il boccaporto della stiva per non ritrovarseli in coperta». Il silenzio calato sulla vicenda preoccupa sempre più i familiari dei 18 sequestrati che hanno protestato ieri a Mazara del Vallo (Trapani) contro «l’inefficienza del governo italiano».

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