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12/09/2020

Lo scontro geopolitico in Medio Oriente

Per comprendere la politica dell’attuale amministrazione statunitense, tesa a fare si che gli Stati africani e “Medio-orientali” normalizzino le proprie relazioni diplomatiche con Israele, bisogna riflettere sulla strategia di disimpegno diretto degli USA nell’area, il contemporaneo maggiore protagonismo militare russo e anche la sempre più influente iniziativa economica della Repubblica Popolare Cinese.

All’oggi il tentativo di costituire una sorta di “NATO araba”, in particolare in funzione anti-iraniana, che abbia come perno Isreale e le petromonarchie del Golfo sembra votato all’insuccesso, eccezion fatta per ciò che riguarda gli Emirati Arabi Uniti e le dichiarazioni di oggettiva complicità – per ciò che riguarda la “normalizzazione” dei rapporti diplomatici con Israele – della Lega Araba.

Ben poca cosa di fronte ai “No” ricevuti da Marocco, Algeria, Sudan e ai “passi indietro” dell’Arabia Saudita rispetto a questa ipotesi.

Nel mentre la Turchia di Erdogan – membro NATO – sta sempre più cercando di porsi come riferimento di una parte dei mussulmani sunniti per la difesa della causa palestinese.

Pochi se ne sono accorti, ma la politica neo-ottomana di Erdogan – oltre che per un rinnovato protagonismo che va dalla Libia al Corno d’Africa, attraversando il Mediterraneo – passa anche per un rapporto privilegiato con Hamas ed un aiuto materiale alla popolazione palestinese, sia a Gaza sia nella West Bank.

L’incontro tenutosi lo scorso anno tra Ismail Haniyeh – il capo politico di Hamas – ed Erdogan ha avviato ufficialmente una svolta, con decine di militanti di Hamas che hanno ottenuto la cittadinanza turca e la possibilità di viaggiare in più di un centinaio di Stati.

La cosa ha “raggelato” le relazioni tra Israele e Turchia – il primo Stato a maggioranza mussulmana a riconoscere Israele, con cui l’entità sionista aveva strette relazioni difensive e di sicurezza per tutti gli anni ’90 – ed impensierito gli Stati Uniti, anche per il sempre maggiore ascendente che il leader turco ha su una parte rilevante del mondo mussulmano.

Bisogna ricordare che vi era una convergenza oggettiva tra l’interesse turco a destabilizzare la Siria di Bashar Al-Assad – dopo esserne stato un partner importante – e quello sionista, che vede in Damasco un nemico storico.

Quest’insuccesso della politica estera statunitense replica quello della cosiddetta “Conferenza del Secolo” sulla questione palestinese – boicottata da tutte le organizzazioni palestinesi e a cui Russia e Cina non hanno partecipato – e si affianca alle divergenze tra gli Stati Uniti e gli altri Paesi firmatari dell’“Accordo sul Nucleare” del 2015 con l’Iran, da cui proprio l’amministrazione Trump è unilateralmente uscita nel 2018.

In questo contesto, l’avvio della partnership strategica tra Cina e Iran può fare girare definitivamente pagina alla Repubblica Islamica, permettendole di assumere quel ruolo di potenza regionale che il mantenimento e poi l’inasprimento delle sanzioni statunitensi all’Iran – ed ai Paesi che con lei commerciavano – aveva limitato.

Un partnership – quella sino-iraniana – che prevede un piano della durata di 25 anni, cui sono favorevoli sia l’ala “riformista” (disillusa dal disimpegno europeo nel mantenere gli impegno presi) sia quella “conservatrice”, che apprezza il modus operandi della Repubblica Popolare, poco incline ad esercitare ingerenze politiche nei confronti dei Paesi con cui intrattiene rapporti economici anche stretti.

Il documento di 18 pagine dell’accordo, visionato da prestigiose testate internazionali, “suggerisce molte aree di potenziale cooperazione che includono energia, petrolchimica, tecnologia e settori militari, così come progetti marittimi”, riferisce il Financial Times.

Si tratterebbe di un “salto di qualità” rispetto a un rapporto già consolidato: il commercio sino-iraniano per l’anno scorso – che per l’Iran finisce a marzo – è stato di più di venti miliardi di dollari, circa un quarto del commercio complessivo della Repubblica Islamica.

L’accordo dovrebbe essere firmato il prossimo anno, probabilmente qualunque sia il risultato delle elezioni presidenziali negli USA a novembre e di quelle iraniane il prossimo.

Quest’intesa dovrebbe avere riflessi diretti su tutta la “Mezzaluna sciita”, cioè su tutte le formazioni della resistenza medio-orientale di cui la Repubblica Islamica è il perno, aumentandone il peso in tutti quei Paesi che ne fanno parte; soprattutto Iraq, Siria, Libano e Yemen.

In questo complicato risiko di relazioni che stanno mutando, l’UE sta cercando di giocare le proprie carte soprattutto attraverso la Francia in Libano, anche per “sbarrare la strada” al ruolo sempre più rilevante della Cina nell’area e smarcarsi in parte dagli USA nella politica relativa all’Iran.

Di seguito, abbiamo tradotto l'articolo Jamil Anderlini, apparso sul Financial Times il 9 settembre, perché mette in luce l’influenza sempre maggiore che ha la Cina in questo quadrante e che si spinge fino in Asia minore attraverso l’Afghanistan, con la mediazione del Pakistan, uno dei maggior partner cinesi.

Anderlini si sofferma sugli interessi strategici cinesi relativi alla “Nuova Via della Seta” e le importanti strozzature marittime – per l'approvvigionamento energetico cinese – lungo il suo percorso.

Leggendo la dura e cruda realtà, si ha l’impressione che il progetto statunitense iniziato prima con l’invasione dell’Afghanistan nel 2001 e poi dell’Iraq nel 2003, e proseguito con il tentativo di destabilizzazione della Siria nel 2011, subito dopo l’attacco alla Libia – con l’uso tra l’altro dei tagliagole islamici – sia miseramente fallito.

E anche il loro “Piano B” – la costruzione della “NATO araba” e la normalizzazione dell’entità sionista – non stia proprio accumulando successi diplomatici.

Buona lettura

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La strategia cinese in Medio Oriente danneggia gli Stati Uniti

Beijing guadagna petrolio e influenza, mentre da Washington si fanno passi indietro

Gli oppositori all’invasione statunitense in Iraq del 2003 hanno sempre sostenuto che la vera motivazione fosse ottenere il controllo della seconda riserva di petrolio conosciuta più grande del mondo.

Anche gli ideatori dell’Operation Iraqi Freedom erano convinti che i profitti ottenuti dal petrolio iracheno avrebbero fornito i fondi per la ricostruzione di uno Stato clientelare pro-americano, che avrebbe aiutato a ridisegnare i confini del Medio Oriente a vantaggio degli Stati Uniti.

Ma se petrolio e influenza erano gli obiettivi, allora sembra che sia stata la Cina, non gli USA, a vincere la guerra in Iraq – senza mai sparare un colpo.

Oggi la Cina, il più grande importatore di petrolio greggio, è il maggior partner commerciale iracheno. Solo la Russia vende più petrolio a Beijing. Nella prima metà di quest’anno, le esportazioni di petrolio dall’Iraq alla Cina sono aumentate di quasi il 30% rispetto all’anno scorso e ammontano a più di un terzo delle esportazioni totali dell’Iraq.

Durante una visita a Beijing dell’anno scorso, Adel Abdul Mahdi, l’allora primo ministro iracheno, ha dichiarato che le relazioni tra Cina e Iraq erano pronte ad un enorme balzo in avanti ed il suo ministro dell’elettricità ha scritto che “la Cina è la nostra prima scelta in quanto a partner strategici a lungo termine“.

Nel frattempo, le esportazioni di petrolio iracheno negli USA si sono quasi dimezzate nella prima metà dell’anno e il Pentagono ha intenzione di ritirare, nei prossimi mesi, un terzo delle truppe stanziate in Iraq.

Una dinamica simile si sta sviluppando in Afghanistan, ora che la guerra statunitense più lunga della storia si appresta ad una conclusione. Ufficiali afghani e pakistani hanno comunicato al Financial Times che Beijing sta, nei fatti, controllando il processo di pace e sta promettendo ai talebani sontuosi investimenti energetici e in infrastrutture, non appena gli USA se ne saranno andati definitivamente.

L’influenza della Cina sta crescendo rapidamente in Medio Oriente, mentre l’impegno degli USA viene messo in dubbio sia dagli alleati nella regione sia dagli stessi politici statunitensi. Beijing è il principale investitore straniero nella regione e ha siglato partnership strategiche con tutti gli stati del Golfo, a parte il Bahrain.

La maggioranza degli investimenti sono andati agli alleati storici degli USA, molti dei quali sono ben felici di acquistare anche tecnologia militare cinese.

La prima base militare cinese oltremare è stata stabilita a Djibouti tre anni fa. Ma Beijing sta investendo pesantemente in porti commerciali, che possono essere facilmente convertiti per uso navale in altre posizioni strategiche, tra cui i porti di Gwadar in Pakistan e di Duqm in Oman, ai lati opposti del golfo dell’Oman.

Insieme allo Stretto di Malacca, tra Malesia e l’isola indonesiana di Sumatra, la Cina considera lo Stretto di Hormuz e lo Stretto di Bab Al-Mandab come fondamentali per la propria sopravvivenza militare, dal momento che il grosso delle sue importazioni energetiche passano per questi punti strategici.

Con il deteriorarsi dei rapporti tra Cina e USA, ha assunto particolare urgenza l’obiettivo di Beijing di fortificare il proprio controllo su questi canali, per indebolire un’eventuale tentativo statunitense di tagliarli se dovesse esplodere un conflitto. È la ragione principale per la quale la Cina ha costruito una flotta più estesa e forse più avanzata di quella statunitense.

Fino a poco fa, Beijing ha adottato una politica cauta in Medio Oriente, mantenendo rapporti amichevoli con tutti, senza stabilire però alleanze. Il successo di questa pratica è evidente nel momento in cui sta negoziando un investimento di 400 miliardi di dollari e un patto di sicurezza con l’Iran, mentre aiuta il nemico dell’Iran, l’Arabia Saudita, nel suo programma nucleare.

Inoltre supporta pienamente la causa palestinese, mentre fa la corte a Israele per condividere tecnologia all’avanguardia e lasciar entrare compagnie statali cinesi in porti strategici.

Ma forse il segnale più forte della crescita dell’influenza cinese nella regione è il fatto che ogni paese a maggioranza musulmana ha supportato la presunta incarcerazione di fino a due milioni di musulmani in campi di rieducazione nella Cina occidentale.

In dichiarazioni pubbliche e lettere congiunte alle Nazioni Unite, una serie di Paesi tra cui Arabia Saudita, Egitto, Kuwait, Iraq e gli Emirati Arabi Uniti, hanno lodato i campi e la soppressione dell’Islam nella regione di Xinjiang come strumenti necessari di antiterrorismo e di de-radicalizzazione, che hanno portato felicità, soddisfazione e sicurezza.

Negli USA, due presidenti di fila sono stati eletti con la promessa di interrompere il coinvolgimento del Paese in Medio Oriente. All’alba della rivoluzione del petrolio di scisto, con l’America ormai virtualmente autosufficiente per la produzione energetica, le ragioni per investire ulteriore sangue e fondi nella sabbia vacillano.

Diventa sempre più palese la riluttanza di Washington nel continuare a fare lo sceriffo della regione, mentre altri Paesi, in particolare la Cina, si accaparrano i profitti. È stata l’amministrazione Obama la prima a proporre il “Pivot to Asia”, per concentrare le attenzioni diplomatiche e militari statunitensi in Asia e contrastare la crescente egemonia regionale cinese. Il presidente Donald Trump ha dato una spinta a questa strategia.

Ma ciò che va a complicare le ragioni per una ritirata degli USA dal Medio Oriente è proprio la rapida crescita della Cina nella regione. Se l’obiettivo degli USA è di contrastare le ambizioni cinesi in Asia e supportare i propri alleati Giappone, Corea del Sud e Taiwan, ritirarsi dal Medio Oriente è l’ultima cosa di cui ha bisogno.

La maggior parte dei Paesi asiatici sono ancora più dipendenti dalle tratte navali petrolifere della Cina. Cedere il controllo di canali strategici lungo la penisola araba a Beijing obbligherebbe tutti i Paesi asiatici a ripensare le proprie alleanze strategiche e li renderebbe molto più proni alle politiche diplomatiche cinesi in tutto il mondo.

Chiunque vinca le elezioni presidenziali USA a novembre dovrà affrontare la dura realtà che la competizione e contenimento della Cina oggi passa per il controllo del Medio Oriente.

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