Things I found out through hard times and good
I wrote ’em all out in ink and blood
Sangue e inchiostro. È scritta così, l’epistola di San Bruce agli springsteeniani: facendo appello al cuore e al mestiere. “Sono nel mezzo di una conversazione che dura da 45 anni”, annuncia nel documentario
girato da Thom Zimny per accompagnare l’uscita del suo ventesimo album,
“Letter To You”. Una conversazione che questa volta sfonda i confini
della quarta parete e va a chiamare in causa direttamente il suo
pubblico: “È il mio primo disco in cui il soggetto è la musica stessa”,
confessa Springsteen. “Parla della popular music. Dell’essere in una
rock band, lungo il corso del tempo”. Non solo una raccolta di canzoni,
ma la celebrazione di un’intera carriera: ovviamente, di nuovo al fianco
dell’immarcescibile E Street Band.
C’è una chitarra, all’inizio e
alla fine della storia. La prima, quella che ha creato il sortilegio,
presa a noleggio dalla madre quando aveva sette anni: “Annusai il legno
(ancora oggi, uno degli odori più dolci e promettenti del mondo), ne
percepii la magia e il potere nascosto, la tenni fra le braccia, passai
le dita sulle corde”. E l’ultima, quella che ha tenuto a battesimo le
nuove canzoni, regalata da un fan italiano alla fine di uno dei concerti a Broadway:
“L’ho portata a casa e l’ho osservata: suonava magnificamente, con una
varietà di tipi di legno differenti. Un vero pezzo di artigianato.
Quando ho iniziato a sentire il bisogno di scrivere, l’ho presa
semplicemente in mano”. Per Bruce il segreto è tutto lì, nell’anima
racchiusa tra il legno e le corde: “Gli strumenti hanno un potere dentro
di sé. Le chitarre danno l’ispirazione, contengono le canzoni al loro
interno”.
Così, tra le pareti di casa Springsteen, da quella chitarra
ha cominciato a fluire la musica. Una musica infestata di ricordi e di
spettri, di ombre dei giorni passati e dei compagni di viaggio che non
ci sono più. “Last Man Standing”, si intitola non a caso il primo dei
brani scritti per “Letter To You”: vecchie fotografie con stivali e
giacche di pelle e la consapevolezza di essere ormai l’ultimo
sopravvissuto di quella prima band del Jersey Shore, i Castiles,
sfrontata e precaria come l’adolescenza.
Sarà stata la nostalgia,
sarà stato il desiderio di fare un regalo al popolo dei suoi seguaci:
fatto sta che Springsteen, stavolta, ha deciso di essere semplicemente
Springsteen. Invece di sforzarsi di sfuggire alla formula che l’ha
portato al successo (come ha fatto più o meno in tutti i dischi in
studio da “Born In The U.S.A.”
in avanti), si è risolto ad abbracciarla in pieno. È proprio questa la
forza di “Letter To You”: solo Bruce Springsteen e la E Street Band,
orgogliosamente fuori tempo e fieri di essere sé stessi. Niente provini,
niente sovraincisioni, tutto registrato insieme dal vivo: quattro
giornate di lavoro, “e il quinto giorno ci riposammo”.
Non c’è da stupirsi, allora, che il nuovo disco suoni in tutto e per tutto come il fratello minore di “The River”.
Le chitarre spigolose e taglienti, la batteria solenne, il lirismo di
pianoforte e organo, persino l’inconfondibile marchio di fabbrica del
sax (con Jake Clemons a fare da controfigura del compianto zio): tutto è
esattamente dove lo avevamo lasciato quarant’anni fa, forgiato da un
instancabile affiatamento sulle scene. E funziona proprio per questo,
perché è quello che Springsteen e la sua gang sanno fare meglio.
A suggello dell’indole passatista dell’album, la scaletta riserva addirittura un tuffo nel primissimo repertorio springsteeniano:
mentre selezionava i nastri degli archivi (destinati a quanto pare a un
nuovo capitolo di “Tracks”), Bruce ha pensato bene di dare una veste
compiuta a tre dei suoi leggendari demo di inizio anni
Settanta. Scelta sorprendentemente azzeccata, perché la rivisitazione
asciutta e vigorosa di “Janey Needs A Shooter” (presa in prestito
all’epoca da Warren Zevon)
ha un piglio da “Darkness On The Edge Of Town” che varrebbe già da solo
tutto il disco. Ma anche “Song To Orphans”, irrobustita da uno slancio
tutto dylaniano (armonica compresa), non fa rimpiangere l’originale, mentre “If I Was The Priest” prende un’andatura carica di epica western.
“Tried
to summon all that my heart finds true/ And send it in my letter to
you”, riassume Springsteen sulle note della classicissima power ballad
che dà il titolo all’album. Dubbi e certezze, giorni di sole e giorni
di pioggia, tutte le dure lezioni impartite dalla vita. Fin dalle prime
note, è il senso della mortalità a fare da guida: l’arpeggio acustico di
“One Minute You’re Here” si lascia accarezzare da un tappeto di
tastiere, dando alla brevità del tempo la direzione di un ritorno a
casa. Poi, la batteria di Max Weinberg scandisce la cavalcata di
“Burnin’ Train” con il suo galoppo incalzante.
Al netto di qualche
indulgenza di troppo verso il sentimentalismo (come nelle melodie di
“House Of A Thousand Guitars” e “The Power Of Prayer”, nonostante
l’effetto-flashback delle introduzioni pianistiche di Roy Bittan),
l’unico brano che suona fuori posto è l’apologo anti-populista di
“Rainmaker”, avulso dal contesto (anche tematico) dell’album con la sua
enfasi stile “The Rising”.
Certo,
l’autoreferenzialità è dietro l’angolo: canzoni su una band che
infiamma la platea, fatte apposta per essere suonate da una band che
infiamma la platea… “Ghosts” è la meta-canzone per eccellenza: riff alla Tom Petty,
ritornello da cantare come un inno e versi che hanno il sapore della
profezia che si autoavvera: “By the end of the set we leave no one
alive”. Il cuore del brano, però, sta nel chiamare a raccolta i
fantasmi: Clarence Clemons, Danny Federici, fino a George Theiss dei
Castiles… “I turn up the volume, let the spirits be my guide/ Meet you
brother and sister on the other side”.
Dall’altra parte,
sull’altra riva del fiume: la lettera di Springsteen forse è proprio
questo, un messaggio in bottiglia lanciato verso la terra sconosciuta
che ci aspetta. “I’ll see you in my dreams, we’ll meet again in another
land”, promette nell’elegia posta a conclusione dell’album. Ma il suo è
anche un messaggio sui legami che costruiamo quaggiù, su quella
fratellanza che nemmeno la morte può sciogliere. Sulla casa che vogliamo
per noi stessi e per gli altri: una casa illuminata nella notte, come
quella che immagina in “House Of A Thousand Guitars”, animata dal suono
di tutte le chitarre di una vita. “È come quella canzone gospel, “I’m
Working On A Building”. È la casa che ho lavorato a costruire in tutti
questi anni”. Bello ritrovarsi lì, sulla strada che porta a casa. E
magari, in un tempo migliore, di nuovo insieme sotto un palco.
FonteHere the bitter and the bored
Wake in search of the lost chord
That’ll band us together for as long there’s stars
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