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17/11/2020

Bruce Springsteen - 2020 - Letter To You

Things I found out through hard times and good
I wrote ’em all out in ink and blood

Sangue e inchiostro. È scritta così, l’epistola di San Bruce agli springsteeniani: facendo appello al cuore e al mestiere. “Sono nel mezzo di una conversazione che dura da 45 anni”, annuncia nel documentario girato da Thom Zimny per accompagnare l’uscita del suo ventesimo album, “Letter To You”. Una conversazione che questa volta sfonda i confini della quarta parete e va a chiamare in causa direttamente il suo pubblico: “È il mio primo disco in cui il soggetto è la musica stessa”, confessa Springsteen. “Parla della popular music. Dell’essere in una rock band, lungo il corso del tempo”. Non solo una raccolta di canzoni, ma la celebrazione di un’intera carriera: ovviamente, di nuovo al fianco dell’immarcescibile E Street Band.

C’è una chitarra, all’inizio e alla fine della storia. La prima, quella che ha creato il sortilegio, presa a noleggio dalla madre quando aveva sette anni: “Annusai il legno (ancora oggi, uno degli odori più dolci e promettenti del mondo), ne percepii la magia e il potere nascosto, la tenni fra le braccia, passai le dita sulle corde”. E l’ultima, quella che ha tenuto a battesimo le nuove canzoni, regalata da un fan italiano alla fine di uno dei concerti a Broadway: “L’ho portata a casa e l’ho osservata: suonava magnificamente, con una varietà di tipi di legno differenti. Un vero pezzo di artigianato. Quando ho iniziato a sentire il bisogno di scrivere, l’ho presa semplicemente in mano”. Per Bruce il segreto è tutto lì, nell’anima racchiusa tra il legno e le corde: “Gli strumenti hanno un potere dentro di sé. Le chitarre danno l’ispirazione, contengono le canzoni al loro interno”.

Così, tra le pareti di casa Springsteen, da quella chitarra ha cominciato a fluire la musica. Una musica infestata di ricordi e di spettri, di ombre dei giorni passati e dei compagni di viaggio che non ci sono più. “Last Man Standing”, si intitola non a caso il primo dei brani scritti per “Letter To You”: vecchie fotografie con stivali e giacche di pelle e la consapevolezza di essere ormai l’ultimo sopravvissuto di quella prima band del Jersey Shore, i Castiles, sfrontata e precaria come l’adolescenza.

Sarà stata la nostalgia, sarà stato il desiderio di fare un regalo al popolo dei suoi seguaci: fatto sta che Springsteen, stavolta, ha deciso di essere semplicemente Springsteen. Invece di sforzarsi di sfuggire alla formula che l’ha portato al successo (come ha fatto più o meno in tutti i dischi in studio da “Born In The U.S.A.” in avanti), si è risolto ad abbracciarla in pieno. È proprio questa la forza di “Letter To You”: solo Bruce Springsteen e la E Street Band, orgogliosamente fuori tempo e fieri di essere sé stessi. Niente provini, niente sovraincisioni, tutto registrato insieme dal vivo: quattro giornate di lavoro, “e il quinto giorno ci riposammo”.

Non c’è da stupirsi, allora, che il nuovo disco suoni in tutto e per tutto come il fratello minore di “The River”. Le chitarre spigolose e taglienti, la batteria solenne, il lirismo di pianoforte e organo, persino l’inconfondibile marchio di fabbrica del sax (con Jake Clemons a fare da controfigura del compianto zio): tutto è esattamente dove lo avevamo lasciato quarant’anni fa, forgiato da un instancabile affiatamento sulle scene. E funziona proprio per questo, perché è quello che Springsteen e la sua gang sanno fare meglio.

A suggello dell’indole passatista dell’album, la scaletta riserva addirittura un tuffo nel primissimo repertorio springsteeniano: mentre selezionava i nastri degli archivi (destinati a quanto pare a un nuovo capitolo di “Tracks”), Bruce ha pensato bene di dare una veste compiuta a tre dei suoi leggendari demo di inizio anni Settanta. Scelta sorprendentemente azzeccata, perché la rivisitazione asciutta e vigorosa di “Janey Needs A Shooter” (presa in prestito all’epoca da Warren Zevon) ha un piglio da “Darkness On The Edge Of Town” che varrebbe già da solo tutto il disco. Ma anche “Song To Orphans”, irrobustita da uno slancio tutto dylaniano (armonica compresa), non fa rimpiangere l’originale, mentre “If I Was The Priest” prende un’andatura carica di epica western.

“Tried to summon all that my heart finds true/ And send it in my letter to you”, riassume Springsteen sulle note della classicissima power ballad che dà il titolo all’album. Dubbi e certezze, giorni di sole e giorni di pioggia, tutte le dure lezioni impartite dalla vita. Fin dalle prime note, è il senso della mortalità a fare da guida: l’arpeggio acustico di “One Minute You’re Here” si lascia accarezzare da un tappeto di tastiere, dando alla brevità del tempo la direzione di un ritorno a casa. Poi, la batteria di Max Weinberg scandisce la cavalcata di “Burnin’ Train” con il suo galoppo incalzante.

Al netto di qualche indulgenza di troppo verso il sentimentalismo (come nelle melodie di “House Of A Thousand Guitars” e “The Power Of Prayer”, nonostante l’effetto-flashback delle introduzioni pianistiche di Roy Bittan), l’unico brano che suona fuori posto è l’apologo anti-populista di “Rainmaker”, avulso dal contesto (anche tematico) dell’album con la sua enfasi stile “The Rising”.

Certo, l’autoreferenzialità è dietro l’angolo: canzoni su una band che infiamma la platea, fatte apposta per essere suonate da una band che infiamma la platea… “Ghosts” è la meta-canzone per eccellenza: riff alla Tom Petty, ritornello da cantare come un inno e versi che hanno il sapore della profezia che si autoavvera: “By the end of the set we leave no one alive”. Il cuore del brano, però, sta nel chiamare a raccolta i fantasmi: Clarence Clemons, Danny Federici, fino a George Theiss dei Castiles… “I turn up the volume, let the spirits be my guide/ Meet you brother and sister on the other side”.

Dall’altra parte, sull’altra riva del fiume: la lettera di Springsteen forse è proprio questo, un messaggio in bottiglia lanciato verso la terra sconosciuta che ci aspetta. “I’ll see you in my dreams, we’ll meet again in another land”, promette nell’elegia posta a conclusione dell’album. Ma il suo è anche un messaggio sui legami che costruiamo quaggiù, su quella fratellanza che nemmeno la morte può sciogliere. Sulla casa che vogliamo per noi stessi e per gli altri: una casa illuminata nella notte, come quella che immagina in “House Of A Thousand Guitars”, animata dal suono di tutte le chitarre di una vita. “È come quella canzone gospel, “I’m Working On A Building”. È la casa che ho lavorato a costruire in tutti questi anni”. Bello ritrovarsi lì, sulla strada che porta a casa. E magari, in un tempo migliore, di nuovo insieme sotto un palco.

Here the bitter and the bored
Wake in search of the lost chord
That’ll band us together for as long there’s stars

Fonte

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