In questi giorni, sfogliando le pagine
dei giornali, capita di imbattersi in due notizie, apparentemente
slegate tra loro. Alla base di queste due notizie ci sono due numeri,
uno negativo ed uno positivo: -8,1% e +2,1%.
Il primo numero fotografa il crollo dei consumi registrato a settembre, rispetto allo scorso anno, dai radar di Confcommercio:
l’associazione che unisce oltre 700.000 imprese del terziario rileva
una forte caduta delle vendite che si concentra nei servizi ricreativi
(-73%), nel turismo (-60%) e in bar e ristoranti (-38%). È l’immagine di
una flessione economica che si protrae dal mese di marzo e che inizia
ad assumere i connotati di una lunga depressione, con effetti
potenzialmente devastanti per il tessuto produttivo. Piangono i piccoli
commerci, molti dei quali non avranno la forza finanziaria per riaprire i
battenti quando sarà passata la tempesta, ma non ridono i grandi centri
commerciali, terrorizzati dalla prospettiva di veder sfumare le vendite
natalizie, che rappresentano circa il 40% del loro budget annuale.
Voltiamo pagina e leggiamo l’altra notizia. Questa volta il dato, che sembrerebbe incoraggiante, proveniente dall’Istat:
nel contesto della crisi scatenata dalla pandemia, le esportazioni del
nostro Paese si muovono in controtendenza e crescono su base annua del
2,1%, con un’espansione più forte al di fuori dell’area dell’euro
(+2,8%) in cui spiccano il +11,1% verso gli USA e il +33% verso la Cina,
ma in aumento anche all’interno dell’Unione Europea (+1,4%) con
importanti sbocchi verso la Germania (+6%).
Quella stessa pandemia che ha drasticamente ridotto le vendite
all’interno del Paese non sembra curiosamente intaccare le vendite delle
nostre imprese quando sono rivolte all’estero. Ragionandoci, in fondo,
le due notizie potrebbero non essere così slegate tra loro. Anzi, ci
forniscono lo spunto per leggere questi dati come convergenti intorno ad
un’ipotesi.
Nel fuoco della pandemia e della crisi
che ne consegue, è possibile osservare nitidamente come sia
strutturalmente cambiato il modello di sviluppo economico della nostra
economia. Una trasformazione che è iniziata ormai trenta anni fa,
sensibilmente accelerata nel corso dell’ultimo decennio. Assistiamo
infatti ad un declino dei redditi da lavoro provocato da una stagnazione
dei salari reali, dalla sottoccupazione (un impiego ridotto dei
lavoratori) e dalla dilagante precarietà dei contratti. Ciò comporta la
riduzione dei consumi che, a sua volta, trascina giù la domanda interna.
Il crollo dei consumi di questi mesi è
dovuto al calo generale dei redditi legato sia alla perdita di numerosi
posti di lavoro tra i lavoratori più precari (contratti a tempo
determinato, Co.Co.Co., false partite IVA, piccole partite IVA fallite)
rimasti privi di reddito, sia alla riduzione dei redditi dei lavoratori
in cassa integrazione unita all’incertezza legata alla scadenza del
blocco dei licenziamenti che potrebbe dar luogo a ulteriori perdite
occupazionali.
A fronte di un crollo dei consumi
interni che segue una tendenza già avviata da tempo, molte imprese
italiane per eludere il problema della riduzione degli sbocchi della
propria produzione hanno puntato sulla domanda estera. I dati sulle
esportazioni dimostrano in effetti che i flussi di beni esportati crescono
in media del 2% all’anno dall’inizio del nuovo millennio, nonostante le
due crisi del 2008-09 e del 2011-12, e che persino nell’anno della
pandemia le esportazioni continuano a marciare. Del resto, se da un lato
l’ormai pluridecennale stagnazione dei salari italiani significa calo
della domanda interna, dall’altro, dal punto di vista dei costi,
significa riduzione del costo del lavoro. Considerato che il costo del
lavoro è la voce più rilevante dei costi di produzione di una merce, una
riduzione dei salari implica una crescente competitività delle merci
italiane sui mercati internazionali. Dunque, la diminuzione dei redditi
da lavoro produce simultaneamente due effetti del tutto complementari:
il calo della domanda interna e l’aumento della domanda estera. Un gioco
a somma zero che preserva la capacità di vendita delle imprese e, allo
stesso tempo, porta con sé evidenti conseguenze distributive: reddito
sottratto ai salari che va ad ingrassare i profitti d’impresa.
Con l’esplosione della crisi legata
alla pandemia questa tendenza in atto non ha fatto altro che
rafforzarsi. A fronte di una caduta dei consumi e quindi della domanda
interna, le esportazioni continuano a crescere. Non si può dire con
certezza che la crisi attuale abbia ulteriormente ridotto i salari dei
lavoratori delle imprese esportatrici favorendo così una crescita delle
esportazioni, anche se alcune imprese hanno costretto i lavoratori ad andare ugualmente al lavoro senza dover corrispondere loro un salario. Tuttavia, si può ritenere che la crisi non abbia in alcun modo ostacolato il trend di crescita ormai decennale nel volume e nel peso delle merci esportate nell’economia italiana.
L’analisi di questi dati ci permette
di osservare, dunque, che questa trasformazione ha contorni ben
definiti. Non si tratta affatto di un terremoto che sconvolge
l’organizzazione economica e sociale; piuttosto, nella pandemia e
nell’accelerazione dei processi economici che la crisi porta sempre con
sé, la nostra economia si sta muovendo verso un modello organizzativo
preciso e sensibilmente diverso da quello che aveva caratterizzato il
nostro Paese dal dopoguerra ad oggi. In passato, la solidità del sistema
economico era garantita da una crescita basata sul dinamismo della
domanda interna: con la crescita progressiva di occupazione e salari
crescevano i consumi interni e gli investimenti (anche e soprattutto
pubblici), in un circolo virtuoso che portava all’espansione continua
dei livelli di attività. In quel modello di economia mista ed elevata
occupazione i lavoratori guadagnavano giorno dopo giorno, lotta dopo
lotta, maggior potere contrattuale e, forti anche di uno stato sociale
sempre più vasto, erodevano quote di prodotto sociale al profitto; la lotta di classe era viva, ed i lavoratori avanzavano.
Viviamo oggi, nel particolarissimo contesto della pandemia, una
violenta accelerazione del processo politico e sociale che rappresenta
la reazione del profitto a quella situazione. La difesa stabile di
elevati margini di profitto imponeva un cambio del paradigma economico:
abbandonare un modello di crescita basato sulla domanda interna, perché
troppo favorevole ai salari, e realizzare un’organizzazione della
produzione orientata all’esportazione
e dunque basata su bassi livelli delle retribuzioni. Se nel vecchio
modello la linfa del sistema economico erano i salari dei lavoratori,
che si traducevano in consumi interni, e l’intervento pubblico diretto
in economia, che produceva consumi e investimenti pubblici, il nuovo
modello poggia al contrario su una progressiva erosione dei salari
interni per rendere più competitive
(cioè meno costose) le nostre merci sui mercati internazionali. Prima
la produzione nazionale aveva bisogno dei nostri consumi per espandersi,
ora ha bisogno del nostro lavoro povero per espandersi all’estero.
Ecco perché la riduzione dell’8,1% dei
consumi e l’aumento del 2,1% delle esportazioni sono due facce della
stessa medaglia, due fenomeni intimamente legati che ben rappresentano
le caratteristiche salienti di un sistema economico e sociale fondato
sul lavoro povero, il dilagare della precarietà e dello sfruttamento.
Dunque, il contesto emergenziale scaturito dalla pandemia non trascina
nel baratro della crisi l’intera società, delineando con maggior
chiarezza, e magari accelerando, questo nuovo modello di sviluppo.
La migliore immagine di questa realtà
proviene proprio da uno sguardo più approfondito circa quello che accade
nel settore terziario. Abbiamo aperto questa riflessione guardando al
crollo delle vendite del commercio al dettaglio, che investe tanto i
piccoli negozi di quartiere quanto i grandi centri commerciali. Questo
dato non deve ingannarci: non significa che, su questo versante, la
crisi colpisce uniformemente lavoratori e imprese, salari e profitti.
C’è un segmento di capitale, le grandi multinazionali del commercio al
dettaglio, che ha moltiplicato il proprio fatturato grazie alla pandemia: Amazon, ad esempio, ha triplicato i propri profitti concentrando
su di sé una quota sempre più grande dei consumi delle famiglie chiuse
dalle misure di contenimento dei contagi ed impoverite dalla crisi.
Dunque, persino nel settore più danneggiato dai mesi di lockdown e
dalle nuove norme varate per contrastare l’epidemia si può cogliere
appieno la cifra della trasformazione in atto verso un’economia in cui
la ricchezza, il capitale, appare sempre più concentrato nelle mani di
pochi, mentre la stragrande maggioranza della popolazione viene
condannata alla precarietà e alla povertà.
Ulteriori contorni di questo scenario
possono essere colti anche se ci soffermiamo sulla superficie del
dibattito pubblico intorno alla pandemia: la retorica bellica che
accompagna, fin dall’inizio, l’approccio scelto dal Governo per gestire
la crisi non è altro che un’arma usata per rafforzare la trasformazione
in atto. Se fossimo davvero stati in guerra, una guerra contro il virus,
non avremmo avuto alcun problema a nazionalizzare i settori industriali
necessari a produrre le mascherine ed i respiratori a partire dal marzo
scorso, né a confiscare tutti i mezzi di trasporto utili a raddoppiare
le capienze del trasporto pubblico locale, né a confiscare tutti i posti
letto utili a gestire in sicurezza la diffusione dei contagi, e così
via. Nulla di tutto questo è stato fatto: nessun clima di guerra quando
in gioco ci sono gli interessi del profitto. Al contrario, la retorica
della guerra torna utile e viene agitata quando si tratta di calpestare i
diritti e gli interessi dei lavoratori, proprio perché nella crisi è in
atto quella transizione verso un modello politico neoliberista che si
fonda sul dilagare dello sfruttamento e delle sue necessarie appendici
di precarietà e povertà. Sono emblematiche, in tal senso, le dichiarazioni recentissime
del Ministro per la Pubblica Amministrazione Dadone, che così commenta
la minaccia di sciopero delle organizzazioni sindacali in difesa dei
livelli retributivi del lavoro pubblico: “Qualcuno pensa di bloccare
l’Italia e mettere a rischio la già fragile tenuta sociale del Paese che
proviamo a difendere in questa guerra”. Il lavoratore che difende il
suo salario viene dipinto come una sorta di traditore della Patria, un
fiancheggiatore di quel nemico invisibile che nel frattempo miete
vittime innocenti.
Nel 2020, dunque, e nel
particolarissimo contesto della crisi pandemica che dilaga nel mondo
intero, la lotta di classe è ancora viva e vegeta. Ma in termini
invertiti rispetto al dopoguerra: gli interessi di pochi avanzano e
calpestano il benessere di tutti per custodire gelosamente i propri
margini di profitto e il proprio potere. Ricordiamocelo quando ci
chiederanno di abbassare la testa e restare uniti, lavoratori e padroni,
contro il nemico comune, il virus.
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