L’ultimo lavoro di Emiliano Brancaccio ci mette subito sull’avviso. “Non sarà un pranzo di gala. Crisi, catastrofe, rivoluzione” è il titolo che annuncia una riflessione a tutto tondo sulla crisi del sistema dominante, ma anche sulle alternative indispensabili ad evitare che la “crisi delle classi dominanti trascini nella rovina tutte le classi in lotta”.
Brancaccio, economista e docente dell’Università del Sannio, ha avuto l’occasione di incrociare la spada in dibattiti pubblici con diversi esponenti dell’establishment: da Mario Monti a Romano Prodi, da Olivier Blanchard a Lorenzo Bini Smaghi.
E da questi dialoghi emergono in modo contundente sia le contraddizioni interne alle classi dominanti dove “Nasce così una lotta, tutta interna alla classe capitalista, tra aggressione dei grandi e resistenza dei piccoli”, sia le contraddizioni tra il sistema dominante e le possibilità di emancipazione complessiva delle società e dei segmenti sociali che la compongono, proprio perché la deregolamentazione dei mercati sta erodendo il tessuto sociale.
Il giudizio sull’esaurimento della “spinta propulsiva del capitalismo” appare nitido e non fa sconti rispetto all’ideologia diffusa e dominante in questi ultimi quattro decenni. “L’ideologia dominante e la teoria economica che la supporta ci inducono a guardare il capitalismo con uno sguardo cristallizzato sulle sue origini gloriose, in cui una classe borghese in ascesa si incaricava di abbattere l’ancien regime dei privilegi aristocratici. In quel breve attimo della storia, la sconfitta del rentier feudale ad opera dell’imprenditore capitalista segna realmente un progresso generale, non solo economico ma anche civile e politico.
La conquista del potere da parte dei capitalisti è oggettivamente un momento di sviluppo in senso liberale e democratico, per ragioni materiali piuttosto ovvie: il modo di produzione che i borghesi incarnano non solo accresce la ricchezza sociale più rapidamente ma la ripartisce anche maggiormente all’interno della società, per il semplice motivo che essi sono più numerosi dei proprietari terrieri. È per questo che il capitalismo delle origini risulta associato a una fase di maggiore partecipazione politica e di primordiale espansione dei diritti”.
Ma il capitalismo ha cessato di essere progressivo da un bel pezzo, almeno da quando ha cessato di temere la “minaccia comunista” dalla fine degli Ottanta.
“Il movimento oggettivo che stiamo qui analizzando, però, indica che quella fase originaria è soverchiata dagli stessi sviluppi del capitale. Il regime contemporaneo di centralizzazione, per certi versi, somiglia sempre più al vecchio feudalesimo che allo scintillante capitalismo rivoluzionario delle origini”.
Brancaccio avanza una ipotesi anche sui caratteri della feroce polarizzazione sociale avvenuta in questi decenni: “La polarizzazione sembra assumere anche i tratti di una tendenziale uniformizzazione delle condizioni della classe subalterna. È una dinamica che avvicina le condizioni di vita e di lavoro a livello internazionale, generalmente dando luogo a una loro convergenza verso il basso. Ma uniformizzazione, a ben vedere, significa molto di più.
Il punto da comprendere è che la centralizzazione capitalistica, inesorabilmente, tanto tende a concentrare il potere di sfruttamento in poche mani quanto tende a livellare le differenze tra gli sfruttati. Che si tratti di nativi o di immigrati, di donne, uomini o transgender, man mano che si sviluppa il capitale tratterà questi soggetti in modo sempre più indifferenziato, come pura forza lavoro universale”.
Inevitabile che la crisi pandemica abbattutasi sul mondo ma in particolare sui paesi a capitalismo avanzato li abbia messi di fronte al proprio fallimento sistemico. I tentativi di tamponare le falle che si sono aperte con misure che in qualche modo ridanno spazio all’iniziativa pubblica (vedi i sussidi, i ristori e l’aumento della spesa pubblica dopo decenni di tagli), per Brancaccio non sono altro che una “reazione piccolo-borghese“. Dunque mentre cresce la potenza del capitale centralizzato, “monta al contempo la fragilità del suo monopolio politico. Più vicina è la catastrofe, più vicina è l’occasione di una svolta“.
Come affrontare di petto la catastrofe e indicare quindi una alternativa? Brancaccio mette i piedi nel piatto riaffermando la necessità della pianificazione. E qui invita le forze alternative ad impugnare con maggior coraggio e determinazione il tema del piano contro quello del mercato, a riconquistare in qualche modo l’egemonia rispetto alla chiave di lettura e alle scelte imposte dal capitalismo, non per mitigarlo o per salvarlo ma per superarlo: “Tutta la creatività del collettivo, tutta la forza fisica e intellettuale della militanza devono riunirsi intorno a questo concetto straordinariamente fecondo. E tutte le iniziative devono quindi essere riconcepite nella cornice logica del piano”.
Una affermazione più che condivisibile e che rappresenta una indicazione utile a definire almeno uno dei parametri dell’alternativa possibile: la pianificazione.
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