Il libro di Rémy Herrera, economista e ricercatore al Centro di Economia della Sorbona (CNRS) e Zhiming Long, economista, professore all’Università Tshinghua di Pechino, pubblicato per la prima volta in Francia nel 2019 da Éditions critiques, presenta un utilissimo e fondamentale quadro dello sviluppo economico della Cina dalla fondazione della RPC, proclamata da Mao Zedong il 1° ottobre 1949, ai nostri giorni.
Lavorando sui tempi lunghi della storia, per meglio sgomberare il campo dai tanti luoghi comuni e pregiudizi in circolazione sulla Cina, gli autori ci mostrano chiaramente che il successo industriale e commerciale di questo Paese non è un miracolo degli anni 2000, ma il risultato di strategie mirate e di sforzi colossali messi in atto sin dalla presa del potere politico da parte del Partito Comunista Cinese.
Nell’ampia terza parte – sulla natura del sistema politico-economico cinese – gli autori affrontano, con l’ausilio delle “lenti di Marx” e dell’ampio e originale apporto di statistiche e studi economici, una questione (se non la questione) fondamentale per l’orientamento del movimento operaio e comunista su scala mondiale: alla domanda che dà il titolo al libro – la Cina è capitalista? – il lettore attento troverà dati, argomenti e ragionamenti per la comprensione del percorso del “socialismo con caratteristiche cinesi”, ben distante da quello capitalistico.
Dall’Introduzione degli autori
A sentire ciò che se ne dice, dalla destra alla “sinistra” – anche comunista – a leggere ciò che si scrive su questo argomento, quasi all’unanimità, almeno nei Paesi occidentali, la Cina avrebbe capitolato: sarebbe diventata, qualunque cosa i suoi dirigenti pretendano, capitalista. Il caso è stato giudicato.
Le apparenze (valgono come prove?) spingono infatti in questa direzione. All’interno della Cina, miliardari sempre più numerosi non mostrano forse il loro successo, a volte più ostentatamente dei loro omologhi stranieri? Gran parte della popolazione non si è già immersa nel consumismo più sfrenato?
Le più influenti società transnazionali del Nord del mondo non hanno forse impiantato le loro filiali per trasformare il Paese nella “prima fabbrica del mondo”, importare materie prime per assemblare prodotti di consumo fabbricati approfittando di una manodopera ben formata, motivata e a bassi salari, e poi riesportare i loro prodotti e venderli ai consumatori di tutto il mondo?
Le banche più potenti della finanza globale non vi hanno tutte delle filiali? All’estero, le imprese private cinesi non sono forse onnipresenti sui mercati internazionali del sistema capitalistico globale? E non annientano ovunque i loro concorrenti? Non stanno entrando nelle strutture di capitale di molte imprese occidentali?
Ma soprattutto, i meccanismi di mercato capitalistici, dopo essere stati combattuti duramente in Cina, non sono stati introdotti e massicciamente generalizzati dopo le riforme economiche del 1978 decise dalle autorità cinesi, cioè in realtà dal Partito Comunista Cinese stesso?
Tanti fatti incontestabili, che in termini puramente logici dovrebbero bastare a chiudere il dibattito. Definitivamente.
D’altra parte, chi, salvo qualche vecchio comunista nostalgico o dei giovani sognatori utopisti, crede ancora oggi, nel profondo del suo cuore, in una possibile, credibile, praticabile alternativa al capitalismo? Quest’ultimo, da più di cinque secoli, non ha forse superato tutte le sue crisi, sconfitto tutti i suoi avversari, vinto tutte le resistenze? Non ci ha forse apportato il progresso, lo sviluppo, la civiltà stessa?
La “conversione” della Cina ai dogmi del mercato e dell’iniziativa privata non sarebbe forse l’indice che il capitalismo continua la sua espansione globale? L’economia pianificata amministrativamente ha forse dimostrato di non poter funzionare? Il socialismo realmente esistente non ha forse dimostrato da tempo di essere nient’altro che penurie, frustrazioni, pesantezza burocratica, privilegi della nomenklatura, repressione e terrore?
Questo sistema non ha forse dimostrato la sua incapacità di tollerare il libero soggetto individuale, di incoraggiare l’imprenditorialità, di permettere alla creatività e all’innovazione di sbocciare per il bene di ciascuna e di ciascuno?
Il socialismo non è forse irrimediabilmente condannato al fallimento e, in attesa di questo esito fatale, spinto alla violenza, ai peggiori abusi? Il suo certificato di morte non è stato formalmente redatto al momento del crollo dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti dell’Europa dell’Est? E il marxismo non è stato sepolto con lui? La storia non ha finalmente deciso e pronunciato il suo verdetto? Una volta per tutte.
Allora a che serve discuterne? Perché le cose non sono forse così semplici. E ci sembra che esse siano anche singolarmente complesse nel caso della Cina attuale. Tanto più che le performance della sua economia per decenni sono eccezionali, senza precedenti nella storia.
Questo libro vuole rompere il consenso e disturbare alcune certezze. La sua tesi centrale sosterrà che sarebbe sbagliato attribuire questo successo alla cosiddetta “adesione” di questo Paese al capitalismo; e ciò anche se ci si accontenta di mantenere la definizione elementare del sistema capitalistico come sistema basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e di scambio.
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