Klaus-Dieter Borchardt, vicedirettore generale della Direzione Generale per l’Energia della Commissione Europea, spiega a Investigate Europe come “la Commissione Europea è nelle mani degli operatori del gas, che decidono quali progetti finanziare.”
Di fatto la politica energetica dell’Unione Europea viene decisa da una serie di soggetti privati, associati in una potente lobby: la ENTSOG (European Network of Transmission System Operators for Gas).
Questa precisa scelta imprenditorial-politica le ha dato priorità assoluta nelle sedi decisionali della UE, anteponendo gli interessi di attori privati rispetto al bene pubblico, impedendo di fatto la concorrenza ad altri soggetti – alla faccia sia del tanto sbandierato “libero mercato”, sia della supposto “profilo sociale” della UE.
“Per capire questo” – affermano l’autrice dell’inchiesta che abbiamo qui tradotto – “bisogna tornare al 2009, quando l’Europa voleva creare un mercato unico dell’energia, indipendente dalla Russia. Come di consueto, i governi hanno deciso di affidarsi al mercato per la realizzazione di questa politica, con il supporto delle aziende distributrici di energia del continente: l’italiana Snam, la spagnola Enagas, la francese GRTgaz, la tedesca Thyssengas e l’olandese Gasunie. Queste società sono in possesso di tutti i dati sensibili relativi ai gasdotti e alla sicurezza dell’approvvigionamento.”
Vi è quindi un monopolio in mano ai privati riguardo ai dati complessivi sul gas, attraverso i quali vengono prese decisioni politiche che investono tutto il continente ed i sudditi – pardon, cittadini – della UE.
Con queste premesse, non sorprende il fatto che negli ultimi dieci anni “la domanda di gas è stata molto più elevata della domanda effettiva. Lo stesso vale probabilmente per l’ultimo scenario fino al 2050.”
La previsione sui consumi europei, in soldoni, viene fatta sui dati forniti dalle aziende private che hanno tutto l’interesse a “gonfiare” le reali necessità, nonostante questa forbice tra bisogni reali e quelli prefigurati si sia andata allargando.
Non stupisce quindi che, se i decision maker sono coloro le cui fortune dipendono dalla rendita di questa risorsa naturale, vengano decise ingenti spese per la costruzione di nuove infrastrutture del gas – non meno di 104 miliardi – né che circa 1/5 dei “Progetti di Interesse Comune” approvati dal Parlamento Europeo per quest’anno siano relativi al gas, o che il 75% dei fondi stanziati per progetti di interesse comune, dal 1973, “sono stati spesi per progetti sostenuti dalle aziende dell’ENTSOG”, secondo l’ONG Global Witness.
L’autonomia energetica europea, di fatto, viene risolta “blindando” il mercato all’interno ed all’esterno – cioè la rendita di posizione degli importatori di questa risorsa – e soprattutto impedendo che questa abbia uno sbocco diverso dalla difesa a spada tratta dello status quo.
La domanda sorge spontanea: se coloro che decidono in sede europea sono di fatto soggetti privati, tra loro coalizzati in una lobby, interessati per loro stessa natura allo sviluppo di questo business, quale è spazio in può concretizzarsi una vera e propria “transizione ecologica” centrata su fonte rinnovabili e non inquinanti?
Molto poche, ad essere ottimisti, a meno di non rompere la “gabbia anti-ecologica” imposta dalla UE. Che richiede un drastico processo di rottura per interrompere la continuità delle politiche fin qui intraprese. Politiche che, tra l’altro, non pongono alcun limite rispetto ai criteri estrattivi.
Ma la geografia del gas europeo è un nodo che si inserisce compiutamente all’interno dal clima da nuova guerra fredda nell’intensificarsi dello scontro sia tra blocchi politici internazionali sia tra attori politici rilevanti.
Pensiamo alle tensioni del Mar Mediterraneo Orientale tra Turchia ed Ue, alla centralità della questione energetica nella “crisi bielorussa” dopo le recenti elezioni, o al posizionamento europeo nel conflitto armeno-azero (la cosiddetta “guerra dei 44 giorni”), considerato il ruolo strategico dell’Azerbaijan nel Risiko energetico europeo.
La Russia fornisce il 38,3% delle importazioni di gas della UE, la Norvegia il 24,5%, l’Algeria il 10,6%, il Qatar il 7,2%, la Nigeria il 5,1%, la Gran Bretagna il 4,5%, gli USA solo il 4%...
Basterebbero questi dati per comprendere molte ragioni circa i “punti caldi” di gran parte del pianeta.
La guerra mondiale del gas ha poi due attori principali: da un lato gli USA e dall’altro la Russia, entrambi tesi a “rubare” rendite di posizione ad Algeria e Qatar, fedele alleato della Turchia.
I primi, da importatori, sono diventati esportatori di gas e di petrolio grazie al fracking – un settore che ha bisogno di costanti ed ingenti investimenti finanziari – entrato in crisi in seguito al calo della domanda mondiale, dopo lo scoppio della Pandemia.
Trump ne aveva fatto uno dei perni della propria politica energetica e Biden ha affermato – in campagna elettorale – di non volerla bandire, contrariamente a ciò che chiede l’ala più progressista del partito e una buona parte dell’elettorato democratico, come sembra confermato dai sondaggi.
È chiaro che in un contesto di margini ridotti, causa contrazione del mercato mondiale, per non ridurre le proprie capacità produttive e un inasprimento della crisi occupazionale proprio in quegli Stati sempre più decisivi per le elezioni presidenziali, la futura amministrazione cercherà di imporre l’acquisto del proprio gas all’Europa e moltiplicherà gli sforzi per indebolire i competitor nel gas e nel petrolio, che diventano, o si confermano, ipso facto antagonisti politici.
Gli USA producono 110 miliardi “cubic feet” al giorno, una cifra più alta rispetto al recente picco negativo, ma comunque identica a quella di due anni fa. Erano solo 70 prima del 2010. E difficilmente potranno scendere ulteriormente.
La Russia ha un’economia ancora fortemente dipendente dall’esportazione di idrocarburi, da cui deriva il margine di spesa per gli investimenti in altri settori in grado di diversificare il proprio sviluppo, di reggere la “corsa agli armamenti” alimentando l’industria della difesa (altro settore d’eccellenza per le esportazioni della Federazione), e di garantire una molto relativa redistribuzione della ricchezza sufficiente alla governance delle contraddizioni sociali.
All’interno dell’attuale scontro monetario, che vede la valuta russa perdere sempre più posizioni rispetto al dollaro, “il Rublo è diventato la vittima principale dell’aumentata volatilità del mercato mondiale”, afferma Vladimir Tikhomirov, economista capo della BCS Global Market a Mosca. Una dinamica che costringe alla riduzione delle importazioni.
Per la Russia, la questione del gas quindi è una questione vitale per il mantenimento della pace sociale e per la proiezione della propria potenza politica. Di conseguenza, per i suoi avversari è una priorità limitarne il più possibile lo sviluppo di questo settore; si pensi al contenzioso sul Nord Stream 2, ormai completato, per cui gli USA hanno imposto due differenti “giri” di sanzioni, lo scorso dicembre e a luglio. Prima contro le compagnie impegnate nella costruzione della conduttura, poi a tutte le entità economiche che contribuiscono al progetto.
Mancano circa 80 km, su un tracciato di 3.100, per completare questa conduttura costruita dalla Gazprom, i cui costi di produzione sono stati pagati per metà con i prestiti dall’olandese Royal Dutch Shell, dall’austriaca OMV, dalla francese Engie e dai gruppi tedeschi Uniper e Winterhall.
Il gasdotto permetterà di raddoppiare la quantità di gas che giunge in Germania, fino a 110 miliardi di metri cubi e, oltre ad aumentare la dipendenza dell’economia tedesca dal gas russo, permetterà di bypassare l’Ucraina nel transito, tagliando fuori Kiev (fedele alleata di Washington) dai giochi sul gas.
Gazprom prevede comunque un calo delle vendite verso l’Europa e la Turchia del 16% quest’anno: 165 miliardi di metri-cubici, cioè un valore nettamente inferiore alle capacità attuali (219 miliardi).
La partita del gas, però, probabilmente si sposterà verso l’Asia, il continente che sembra avere tutti i numeri per essere il pivot dell’economia-mondo post-pandemica, e quindi di compensare abbondantemente il deficit di vendite al mercato occidentale.
Come riporta il Financial Times, in un articolo a quattro mani del 14 settembre: “Molte previsioni prefigurano che entro tre anni, la crescita nella domanda di gas da parte dell’Asia eliminerà l’eccesso di forniture di LNG, e la produzione domestica di gas in Europa aumenterà la necessità di importazioni”.
Bisogna ricordare che la Russia ha iniziato lo scorso inverno a rifornire la Cina attraverso la Pipeline “Power of Siberia”, il più grande progetto gasiero del mondo e simbolo dell’avvio di una partnership strategica tra i due Paesi.
Un contratto da 55 miliardi di dollari, stipulato tra la Gazprom ed il gigante dell’oil and gas cinese CNPC, che potrà raggiungere i 38 miliardi di metri cubi di gas trasportato lungo i 3.000 km della conduttura che attraversa la Siberia lungo il confine sud-orientale con la Cina.
Un pezzo importante dell’obiettivo pre-pandemico era di portare il volume di commercio reciproco tra i due Paesi a 200 miliardi di dollari entro il 2024.
La Cina è diventato il maggior socio in affari dei progetti di liquefazione del gas artico: Yamal LNG – citato nell’articolo che abbiamo qui tradotto – e il previsto Artic LNG 2; sono inoltre in discussione altri due progetti di pipeline dalla Russia alla Cina.
La recente affermazione del presidente cinese Xi – abbandonare il carbone entro il 2060 – potrebbe ulteriormente rafforzare la partnership strategica tra Mosca e Pechino almeno nel “medio-lungo periodo”, prima che la Repubblica Popolare sviluppi una sufficiente capacità autonoma per soddisfare le proprie necessità energetiche dentro un'ottica di transizione ecologica complessiva.
In questa prospettiva, lo sviluppo dell’energia ad idrogeno avrà sempre più un ruolo centrale, come dimostrano gli investimenti dell’azienda pubblica Sinopec.
Sipopec ha già ora più di 30mila stazioni di rifornimento ad idrocarburi, in Cina. Ma nell’ultimo anno ha costruito la prima stazione all’idrogeno, parte integrante di un piano governativo per impiantarne 1.000 in tutto il Paese nei prossimi dieci anni, in grado di rifornire un milioni di veicoli.
La stessa azienda è partner di Shangai Re-fire Technology, un produttore di tecnologia alimentata ad idrogeno che nel 2018 ha impiegato 500 mezzi pesanti di questo tipo a Shangai.
Come ha dichiarato il direttore generale della banca finanziaria del gruppo Song Zhenguo al Financial Times: “un forte segnale che Sinopec vuole essere un attore di importanza primaria in quest’area che sarà il futuro dell’energia.”
Mentre noi siamo in balia dei signori della rendita del gas, che dettano legge a Bruxelles...
Buona Lettura.
Di fatto la politica energetica dell’Unione Europea viene decisa da una serie di soggetti privati, associati in una potente lobby: la ENTSOG (European Network of Transmission System Operators for Gas).
Questa precisa scelta imprenditorial-politica le ha dato priorità assoluta nelle sedi decisionali della UE, anteponendo gli interessi di attori privati rispetto al bene pubblico, impedendo di fatto la concorrenza ad altri soggetti – alla faccia sia del tanto sbandierato “libero mercato”, sia della supposto “profilo sociale” della UE.
“Per capire questo” – affermano l’autrice dell’inchiesta che abbiamo qui tradotto – “bisogna tornare al 2009, quando l’Europa voleva creare un mercato unico dell’energia, indipendente dalla Russia. Come di consueto, i governi hanno deciso di affidarsi al mercato per la realizzazione di questa politica, con il supporto delle aziende distributrici di energia del continente: l’italiana Snam, la spagnola Enagas, la francese GRTgaz, la tedesca Thyssengas e l’olandese Gasunie. Queste società sono in possesso di tutti i dati sensibili relativi ai gasdotti e alla sicurezza dell’approvvigionamento.”
Vi è quindi un monopolio in mano ai privati riguardo ai dati complessivi sul gas, attraverso i quali vengono prese decisioni politiche che investono tutto il continente ed i sudditi – pardon, cittadini – della UE.
Con queste premesse, non sorprende il fatto che negli ultimi dieci anni “la domanda di gas è stata molto più elevata della domanda effettiva. Lo stesso vale probabilmente per l’ultimo scenario fino al 2050.”
La previsione sui consumi europei, in soldoni, viene fatta sui dati forniti dalle aziende private che hanno tutto l’interesse a “gonfiare” le reali necessità, nonostante questa forbice tra bisogni reali e quelli prefigurati si sia andata allargando.
Non stupisce quindi che, se i decision maker sono coloro le cui fortune dipendono dalla rendita di questa risorsa naturale, vengano decise ingenti spese per la costruzione di nuove infrastrutture del gas – non meno di 104 miliardi – né che circa 1/5 dei “Progetti di Interesse Comune” approvati dal Parlamento Europeo per quest’anno siano relativi al gas, o che il 75% dei fondi stanziati per progetti di interesse comune, dal 1973, “sono stati spesi per progetti sostenuti dalle aziende dell’ENTSOG”, secondo l’ONG Global Witness.
L’autonomia energetica europea, di fatto, viene risolta “blindando” il mercato all’interno ed all’esterno – cioè la rendita di posizione degli importatori di questa risorsa – e soprattutto impedendo che questa abbia uno sbocco diverso dalla difesa a spada tratta dello status quo.
La domanda sorge spontanea: se coloro che decidono in sede europea sono di fatto soggetti privati, tra loro coalizzati in una lobby, interessati per loro stessa natura allo sviluppo di questo business, quale è spazio in può concretizzarsi una vera e propria “transizione ecologica” centrata su fonte rinnovabili e non inquinanti?
Molto poche, ad essere ottimisti, a meno di non rompere la “gabbia anti-ecologica” imposta dalla UE. Che richiede un drastico processo di rottura per interrompere la continuità delle politiche fin qui intraprese. Politiche che, tra l’altro, non pongono alcun limite rispetto ai criteri estrattivi.
Ma la geografia del gas europeo è un nodo che si inserisce compiutamente all’interno dal clima da nuova guerra fredda nell’intensificarsi dello scontro sia tra blocchi politici internazionali sia tra attori politici rilevanti.
Pensiamo alle tensioni del Mar Mediterraneo Orientale tra Turchia ed Ue, alla centralità della questione energetica nella “crisi bielorussa” dopo le recenti elezioni, o al posizionamento europeo nel conflitto armeno-azero (la cosiddetta “guerra dei 44 giorni”), considerato il ruolo strategico dell’Azerbaijan nel Risiko energetico europeo.
La Russia fornisce il 38,3% delle importazioni di gas della UE, la Norvegia il 24,5%, l’Algeria il 10,6%, il Qatar il 7,2%, la Nigeria il 5,1%, la Gran Bretagna il 4,5%, gli USA solo il 4%...
Basterebbero questi dati per comprendere molte ragioni circa i “punti caldi” di gran parte del pianeta.
La guerra mondiale del gas ha poi due attori principali: da un lato gli USA e dall’altro la Russia, entrambi tesi a “rubare” rendite di posizione ad Algeria e Qatar, fedele alleato della Turchia.
I primi, da importatori, sono diventati esportatori di gas e di petrolio grazie al fracking – un settore che ha bisogno di costanti ed ingenti investimenti finanziari – entrato in crisi in seguito al calo della domanda mondiale, dopo lo scoppio della Pandemia.
Trump ne aveva fatto uno dei perni della propria politica energetica e Biden ha affermato – in campagna elettorale – di non volerla bandire, contrariamente a ciò che chiede l’ala più progressista del partito e una buona parte dell’elettorato democratico, come sembra confermato dai sondaggi.
È chiaro che in un contesto di margini ridotti, causa contrazione del mercato mondiale, per non ridurre le proprie capacità produttive e un inasprimento della crisi occupazionale proprio in quegli Stati sempre più decisivi per le elezioni presidenziali, la futura amministrazione cercherà di imporre l’acquisto del proprio gas all’Europa e moltiplicherà gli sforzi per indebolire i competitor nel gas e nel petrolio, che diventano, o si confermano, ipso facto antagonisti politici.
Gli USA producono 110 miliardi “cubic feet” al giorno, una cifra più alta rispetto al recente picco negativo, ma comunque identica a quella di due anni fa. Erano solo 70 prima del 2010. E difficilmente potranno scendere ulteriormente.
La Russia ha un’economia ancora fortemente dipendente dall’esportazione di idrocarburi, da cui deriva il margine di spesa per gli investimenti in altri settori in grado di diversificare il proprio sviluppo, di reggere la “corsa agli armamenti” alimentando l’industria della difesa (altro settore d’eccellenza per le esportazioni della Federazione), e di garantire una molto relativa redistribuzione della ricchezza sufficiente alla governance delle contraddizioni sociali.
All’interno dell’attuale scontro monetario, che vede la valuta russa perdere sempre più posizioni rispetto al dollaro, “il Rublo è diventato la vittima principale dell’aumentata volatilità del mercato mondiale”, afferma Vladimir Tikhomirov, economista capo della BCS Global Market a Mosca. Una dinamica che costringe alla riduzione delle importazioni.
Per la Russia, la questione del gas quindi è una questione vitale per il mantenimento della pace sociale e per la proiezione della propria potenza politica. Di conseguenza, per i suoi avversari è una priorità limitarne il più possibile lo sviluppo di questo settore; si pensi al contenzioso sul Nord Stream 2, ormai completato, per cui gli USA hanno imposto due differenti “giri” di sanzioni, lo scorso dicembre e a luglio. Prima contro le compagnie impegnate nella costruzione della conduttura, poi a tutte le entità economiche che contribuiscono al progetto.
Mancano circa 80 km, su un tracciato di 3.100, per completare questa conduttura costruita dalla Gazprom, i cui costi di produzione sono stati pagati per metà con i prestiti dall’olandese Royal Dutch Shell, dall’austriaca OMV, dalla francese Engie e dai gruppi tedeschi Uniper e Winterhall.
Il gasdotto permetterà di raddoppiare la quantità di gas che giunge in Germania, fino a 110 miliardi di metri cubi e, oltre ad aumentare la dipendenza dell’economia tedesca dal gas russo, permetterà di bypassare l’Ucraina nel transito, tagliando fuori Kiev (fedele alleata di Washington) dai giochi sul gas.
Gazprom prevede comunque un calo delle vendite verso l’Europa e la Turchia del 16% quest’anno: 165 miliardi di metri-cubici, cioè un valore nettamente inferiore alle capacità attuali (219 miliardi).
La partita del gas, però, probabilmente si sposterà verso l’Asia, il continente che sembra avere tutti i numeri per essere il pivot dell’economia-mondo post-pandemica, e quindi di compensare abbondantemente il deficit di vendite al mercato occidentale.
Come riporta il Financial Times, in un articolo a quattro mani del 14 settembre: “Molte previsioni prefigurano che entro tre anni, la crescita nella domanda di gas da parte dell’Asia eliminerà l’eccesso di forniture di LNG, e la produzione domestica di gas in Europa aumenterà la necessità di importazioni”.
Bisogna ricordare che la Russia ha iniziato lo scorso inverno a rifornire la Cina attraverso la Pipeline “Power of Siberia”, il più grande progetto gasiero del mondo e simbolo dell’avvio di una partnership strategica tra i due Paesi.
Un contratto da 55 miliardi di dollari, stipulato tra la Gazprom ed il gigante dell’oil and gas cinese CNPC, che potrà raggiungere i 38 miliardi di metri cubi di gas trasportato lungo i 3.000 km della conduttura che attraversa la Siberia lungo il confine sud-orientale con la Cina.
Un pezzo importante dell’obiettivo pre-pandemico era di portare il volume di commercio reciproco tra i due Paesi a 200 miliardi di dollari entro il 2024.
La Cina è diventato il maggior socio in affari dei progetti di liquefazione del gas artico: Yamal LNG – citato nell’articolo che abbiamo qui tradotto – e il previsto Artic LNG 2; sono inoltre in discussione altri due progetti di pipeline dalla Russia alla Cina.
La recente affermazione del presidente cinese Xi – abbandonare il carbone entro il 2060 – potrebbe ulteriormente rafforzare la partnership strategica tra Mosca e Pechino almeno nel “medio-lungo periodo”, prima che la Repubblica Popolare sviluppi una sufficiente capacità autonoma per soddisfare le proprie necessità energetiche dentro un'ottica di transizione ecologica complessiva.
In questa prospettiva, lo sviluppo dell’energia ad idrogeno avrà sempre più un ruolo centrale, come dimostrano gli investimenti dell’azienda pubblica Sinopec.
Sipopec ha già ora più di 30mila stazioni di rifornimento ad idrocarburi, in Cina. Ma nell’ultimo anno ha costruito la prima stazione all’idrogeno, parte integrante di un piano governativo per impiantarne 1.000 in tutto il Paese nei prossimi dieci anni, in grado di rifornire un milioni di veicoli.
La stessa azienda è partner di Shangai Re-fire Technology, un produttore di tecnologia alimentata ad idrogeno che nel 2018 ha impiegato 500 mezzi pesanti di questo tipo a Shangai.
Come ha dichiarato il direttore generale della banca finanziaria del gruppo Song Zhenguo al Financial Times: “un forte segnale che Sinopec vuole essere un attore di importanza primaria in quest’area che sarà il futuro dell’energia.”
Mentre noi siamo in balia dei signori della rendita del gas, che dettano legge a Bruxelles...
Buona Lettura.
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Tra geopolitica e lobbismo, la grande scacchiera del gas europeo
Tra geopolitica e lobbismo, la grande scacchiera del gas europeo
Mentre il ruolo dei combustibili fossili nel riscaldamento globale non è più in dubbio, l’Europa si prepara a spendere 104 miliardi di euro per sviluppare nuovi progetti sul gas, secondo i calcoli del consorzio Investigate Europe. Si tratta soprattutto di una partita a scacchi geopolitica e gli operatori delle reti sopravvalutano la domanda europea di gas.
Sotto raffiche di vento come quelle nella zona della Hauts-de-France che non si vedevano da mesi, le onde del Mare del Nord hanno colpito lo scafo rosso di un’immensa nave. La petroliera Zarga – lunga 345 metri – ha attraccato alla banchina principale del terminale GNL di Dunkerque, il secondo più grande terminale GNL dell’Europa continentale dopo Barcellona. È venuto a scaricare il suo carico: gas naturale liquefatto, o GNL.
Per trasportarlo a più di 3.000 chilometri di distanza, se non può essere trasportato via gasdotto, il gas deve essere liquefatto. Il processo prevede l’abbassamento della temperatura a -162 gradi Celsius e la successiva compressione. In questo modo, il suo volume si riduce di 600 volte e diventa più facile trasportarlo in gasiera attraverso i mari e gli oceani.
Da dove viene questo gas che arriva a Dunkerque? “Dalla Russia e dagli Stati Uniti, per metà dei cargo; altre fonti diversificate, per l’altra metà, spiega Juan Vazquez, presidente di Dunkerque LNG. L’anno scorso, Yamal è entrato in campo prima del previsto, e molti soggetti ne hanno approfittato.”
Yamal? Un sito di liquefazione del gas naturale nel nord della Russia è accusato di contribuire “all’apertura di una nuova ‘frontiera del gas’ nell’Artico russo, che potrebbe sia danneggiare una regione già indebolita dal riscaldamento delle temperature, sia portare a massicce emissioni di gas serra“, secondo la rete europea di Osservatori Aziendali (ENCO), guidata dall’ONG Corporate Europe Observatory (CEO), specializzata nell’influenza delle lobby sulla politica europea.
Queste accuse sono smentite dal mondo del gas: “Questo progetto è utilizzato per portare il gas russo che normalmente arriverebbe via gasdotto. L’impronta di carbonio è la stessa da molto tempo“, si difende un industriale.
Nell’ottobre 2019, ENCO ha pubblicato un rapporto intitolato “Chi controlla tutti i gasdotti?” . Il terminale di importazione di gas naturale liquefatto a Dunkerque, in Francia, e il terminale di Zeebrugge in Belgio sono tra i “progetti controversi in Europa“.
Entrambi hanno come azionista di riferimento il gruppo belga di infrastrutture del gas Fluxys. I principali clienti del porto GNL di Dunkerque sono EDF e Total, che è all’origine della sua costruzione. Della capacità di ri-gassificazione annuale del terminal, 13 miliardi di metri cubi, 9,5 miliardi sono riservati a lungo termine.
Sia Dunkerque che Zeebrugge sono tra i “principali porti europei a ricevere le navi cisterna per il GNL dall’estremo nord russo“, ma ricevono anche gas liquefatto americano, favorendo “l’intensificazione dello sfruttamento del gas di scisto negli Stati Uniti, con conseguenze devastanti per l’ambiente e la salute“.
La capacità di produzione di gas è esplosa negli Stati Uniti. Dal 2000 al 2015, nella produzione statunitense la quota di gas da fracking è passata da meno del 5% al 67%, e continua a crescere.
Nel 2019, il Segretario all’Energia degli Stati Uniti Rick Perry lo ha venduto come “il gas della libertà“. Perché il mondo del gas si sta evolvendo in un ambiente da Guerra Fredda, dove Stati Uniti e Russia si confrontano, cercando di imporsi ovunque a scapito di produttori storici come il Qatar e l’Algeria.
Per tutto il suo mandato, Donald Trump non ha mai smesso di fare pressione sui paesi europei affinché rinunciassero ad importare gas russo a favore di quello americano. I senatori repubblicani hanno ripreso questo argomento in una lettera al governo francese, dopo che i suoi rappresentanti nel consiglio di amministrazione di Engie si erano opposti a un contratto di importazione di gas di scisto con il gruppo americano NextDecade.
Questa “libertà” ha un prezzo elevato per l’ambiente, poiché questo gas viene estratto per fratturazione idraulica, portando alla distruzione e a volte all’inquinamento irreversibile dell’aria, delle acque sotterranee e del sottosuolo. Ciò ha del resto giustificato il divieto alla pratica della fratturazione in Francia.
Per Patrick Corbin, presidente dell’Associazione francese del gas, queste controversie sul gas di scisto, nonostante tutte le prove scientifiche, sono quasi infondate. “Il gas di scisto, una volta prodotto, ha la stessa qualità del gas naturale prodotto in altre condizioni. È assolutamente lo stesso prodotto. Il problema è di vietare il gas di scisto negli Stati Uniti, quindi buona fortuna. Posso capire che questa sia una preoccupazione. Ma questo dibattito deve svolgersi negli Stati Uniti, non in Francia”.
Questo non accadrà molto presto: anche se ha promesso un vasto piano per il clima, Joe Biden si è impegnato a non mettere in discussione la fratturazione.
“Come operatore di infrastrutture, il nostro ruolo si limita a fornire un servizio ai nostri clienti: riceviamo i carichi per ri-gassificarli. Noi non decidiamo nulla, i nostri clienti scelgono la provenienza del carico. Non abbiamo alcun controllo sull’origine del carico“, afferma Juan Vazquez, presidente di Dunkerque LNG.
In realtà, il terminale GNL di Dunkerque è solo una pedina su una scacchiera geopolitica molto più grande: il grande gioco europeo del gas.
Tutta l’attenzione è attualmente concentrata sul Nord Stream 2, oggetto di tutte le tensioni diplomatiche tra Europa e Stati Uniti, tra Europa orientale e occidentale. Lanciato nel 2017, questo gasdotto di 1.200 chilometri dovrebbe trasportare circa 55 miliardi di metri cubi di gas tra la Germania e la Russia, raddoppiando la capacità di consegna del Nord Stream 1, di cui segue quasi esattamente il percorso.
Le minacce di sanzioni statunitensi contro le aziende che partecipano o finanziano questo progetto sono state costanti. In seguito all’avvelenamento dell’avversario russo Alexei Navalny, si sono intensificate le pressioni da parte degli Stati Uniti e dell’Europa dell’Est per fermare Nord Stream 2 come parte delle sanzioni contro la Russia di Vladimir Putin. Anche se il progetto è stato finalmente escluso dalle sanzioni, la battaglia è tutt’altro che finita.
Più a sud, il Mar Mediterraneo è diventato teatro di tensioni internazionali per lo sfruttamento dei giacimenti di gas. Quest’estate, le prime esplorazioni turche su un campo situato tra le coste greche e turche hanno portato i due Paesi a dimostrazioni militari di forza nella zona, che Angela Merkel, per conto dell’Europa, ha avuto grandi difficoltà a fermare prima che si trasformassero in conflitto aperto.
Ma scaramucce e tensioni esistono ovunque nel Mediterraneo, lungo la costa libica, intorno a Creta, al largo delle coste di Israele e del Libano.
“EastMed è sovradimensionato”
Da diversi anni, Italia, Grecia, Cipro e Israele sostengono la costruzione dell’oleodotto EastMed. Insieme al gasdotto Poseidon, dovrebbe portare in Europa il gas del Mediterraneo orientale. Senza dimenticare il gasdotto Trans Adriatico (TAP), che è in fase di completamento.
Finanziato in parte con fondi UE, questo gasdotto di 3.500 chilometri trasporta 10 miliardi di metri cubi di gas dall’Azerbaigian all’Europa, attraverso la Grecia e l’Italia – in confronto, l’UE nel suo complesso importa 170 miliardi di metri cubi di gas dalla Russia all’anno.
Secondo i dati dell’ONG Global Energy Monitor e dell’associazione industriale Gas Infrastructure Europe (GIE), controllati da Investigate Europe, non meno di 104 miliardi di euro saranno spesi in Europa per finanziare nuovi progetti di gas: 12.842 chilometri di gasdotti aggiuntivi, un aumento di 116 miliardi di m³ di capacità di importazione di GNL e 40.650 megawatt in più per le centrali a gas.
Perché sprecare tutto questo denaro pubblico quando, secondo Eurostat, la domanda europea è meno della metà della produzione di gas attualmente disponibile? Che senso ha investire oggi in nuovi impianti con una durata di vita di circa 20 anni, quando i climatologi dell’IPCC ripetono che dobbiamo porre fine ai combustibili fossili il prima possibile?
“Questo è l’intero dibattito che circonda Nord Stream 2, dice Patrick Corbin. Oggi, un paese come la Francia, che è ben dotato di infrastrutture per il gas, con punti di importazione via terra e via mare, chiaramente non ne ha bisogno. Le sue infrastrutture attuali sono sufficienti. Ma ciò che è vero per la Francia è molto meno vero per la Germania, ad esempio. I tedeschi non hanno praticamente nessun terminale di importazione di GNL, anche se c’è l’impegno a costruirne uno. Sono anche estremamente dipendenti dal gas russo.“
Potente strumento di geopolitica, il gas è oggetto di un’intensa attività di lobbismo a Bruxelles. Pur essendo un combustibile fossile, e quindi contributore di emissioni di gas serra, il mondo del gas è riuscito a far accettare l’idea che si tratta di un’energia quasi pulita, in ogni caso un attore indispensabile nella transizione energetica, un alleato indispensabile delle energie rinnovabili per compensare la loro intermittenza.
Da allora, il gas è stato presente in tutte le fasi della politica energetica europea. Il 12 febbraio il Parlamento Europeo ha approvato la nuova lista dei Progetti di Interesse Comune (PCIs), “progetti di infrastrutture essenziali per completare il mercato europeo dell’energia al fine di aiutare l’UE a raggiungere i suoi obiettivi di politica energetica e climatica“, secondo la Commissione Europea.
Tra i 149 progetti prioritari selezionati per ricevere il finanziamento dell’UE vi sono 32 progetti relativi al gas naturale. Uno scandalo per le ONG che si occupano di clima.
Il Commissario per l’Energia, Kadri Simson, ha promesso agli eurodeputati che “la prossima lista non includerà alcun progetto sul gas naturale“, ma il vicedirettore generale della Direzione Generale per l’Energia della Commissione Europea, Klaus-Dieter Borchardt, ha ammesso oggi in un’intervista con Investigate Europe che questo potrebbe non essere il caso.
L’Europa sarà certamente costretta a finanziare nuovamente i progetti del gas, nella nuova lista prevista per il 2021, per il semplice motivo che “abbiamo impegni legali con le aziende“.
Klaus-Dieter Borchardt spiega come “la Commissione Europea è nelle mani degli operatori del gas che decidono quali progetti finanziare“. Per capire questo, bisogna tornare al 2009, quando l’Europa voleva creare un mercato unico dell’energia, indipendente dalla Russia. Come di consueto, i governi hanno deciso di affidarsi al mercato per la realizzazione di questa politica, con il supporto delle aziende distributrici di energia del continente: l’italiana Snam, la spagnola Enagas, la francese GRTgaz, la tedesca Thyssengas e l’olandese Gasunie. Queste società sono in possesso di tutti i dati sensibili relativi ai gasdotti e alla sicurezza dell’approvvigionamento.
Nasce così ENTSOG (European Network of Transmission System Operators for Gas), una lobby a Bruxelles in un elegante edificio del quartiere europeo, la cui missione è quella di fornire scenari sulla domanda di gas in Europa e, su questa base, proporre un elenco di nuove infrastrutture.
Con il suo monopolio dei dati, l’ENTSOG ha regolarmente previsto, negli ultimi dieci anni, che la domanda di gas sarà molto più elevata della domanda effettiva. Lo stesso vale probabilmente per l’ultimo scenario fino al 2050. “L’energia è sicurezza di approvvigionamento. Pertanto, dobbiamo sempre dimensionarci per soddisfare il picco della domanda, quando superiamo la media“, spiega un conoscitore del mondo del gas.
Frida Kieninger, di Food & Water Europe, partecipa alle riunioni da anni come osservatrice dei progetti prioritari per il gas. “Il processo di sviluppo di nuovi progetti di gas è opaco, afferma. I governi e le parti interessate si incontrano in ‘gruppi regionali’ con i promotori dei progetti sul gas, spesso seduti accanto ai rappresentanti dei ministeri. In alcuni incontri, sembra che un paese sia rappresentato solo dalla sua società del gas. Non ci sono verbali e non c’è una lista dei partecipanti.”
Inquietante, se si considera che, secondo un rapporto dell’ONG Global Witness pubblicato a giugno, il 75% dei fondi stanziati per progetti di interesse comune dal 1973 “sono stati spesi per progetti sostenuti dalle aziende dell’ENTSOG”.
Progetti di cui, per alcuni, l’Europa potrebbe certamente fare a meno. “EastMed, ad esempio, è sovradimensionata, ammette Klaus-Dieter Borchardt, il vicedirettore generale della DG Energia. Posso capire che ci sia molto gas nel Mediterraneo, ma avrebbe più senso utilizzare impianti regionali di gas liquido, piuttosto che portare il gas naturale attraverso un lungo gasdotto da Israele alla Grecia“.
Più recentemente, l’European Green Deal è stato anche oggetto di intense attività di lobbismo a Bruxelles. Secondo i dati del Corporate Europe Observatory, i principali membri della Commissione si sono incontrati 151 volte con rappresentanti degli interessi commerciali, ma solo 29 volte con rappresentanti degli interessi pubblici.
“Non sono attivo a Bruxelles, ma sono uno dei 151 di Parigi,” dice Patrick Corbin dell’associazione francese del gas. “Lo sento, ma oggi penso che i membri della Commissione abbiano più mezzi per formarsi un’opinione. Agiamo sempre in modo trasparente, non ci nascondiamo sotto un naso finto, lo facciamo il più possibile sulla base di studi seri e pubblici“.
Un altro industriale è d’accordo: “Dobbiamo smettere di demonizzare il fatto che i decisori politici cercano di ottenere informazioni. Penso che sia molto buono. Tutto è trasparente, non abbiamo nulla da negare”.
Speriamo che l’Unione Europea mostri la stessa chiarezza sui suoi obiettivi climatici, compresa la neutralità del carbonio entro il 2050.
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