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24/11/2020

L’indigeribile sul “cenone di Natale”

Chi di voi non ha passato l’estate a Porto Cervo? Chi di voi non è un habitué delle piste di Cervinia?

Corna a parte, bisognerà che qualcuno studi scientificamente il modo in cui si costruiscono le campagne per ottenere obbiettivi a prima vista impresentabili.

Se uno sta a sentire i principali media, in questi giorni, sembra che il problema sia come riuscire a far passare il Natale sulla neve “a tutti”, come se – appunto – davvero tutta la popolazione non facesse altro.

Si sa che lo sci è un passatempo di massa per benestanti (borghesia medio-alta), oppure un mezzo di trasporto inevitabile per chi vive in una comunità montana (insieme alla motoslitte...).

Ottenere l’apertura delle piste e delle stazioni turistiche invernali è insomma un interesse di minoranza. Fatta di imprenditori del settore (e anche lavoratori, quasi tutti “stagionali”) e benestanti stanchi di “sacrifici” nel proprio movimentare.

Una minoranza di cui fanno parte integrante buona parte dei giornalisti con contratto “articolo 1” (assunti a tempo indeterminato, insomma), non certo gli stagisti o i collaboratori (migliaia) pagati pochi euro “a pezzo”.

Dunque, per rendere socialmente più accettabile questa “rivendicazione”, c’era una profonda necessità di mescolare questa “rivendicazione” con il ben più esteso socialmente “cenone di Natale” (che interesserebbe anche i ristoratori, in crisi vera), o il più comune “pranzo di famiglia”.

Anche volendo evitare l’obiezione pauperistica (oltre 5 milione di persone fanno fatica a mettere qualcosa in tavola tutti i giorni, ma non sono molti quelli che se ne preoccupano seriamente), resta in piedi la constatazione sanitaria incontestabile: tutti i comportamenti festaioli, con qualsiasi budget, sono di per sé “assembramenti” incontrollabili.

In famiglia, come impedire ai nipotini di abbracciare i nonni, i figli i genitori, ecc.? Nei cenoni al ristorante, idem. Nei luoghi chiusi, è ormai accertato, ci si può contagiare anche senza abbracciarsi affatto. E a Natale tutti i luoghi in cui ci si vede sono necessariamente “al chiuso” (e pure con il riscaldamento).

Eppure i tg ci presentano a tutte le ore decine di gestori di funivie, o attività similari, assicurare che sui loro impianti il “distanziamento” è assicurato.

Uno pensa al movimento in montagna all’aperto ed è disposto persino a dargli ragione (basta dimenticare le cabine chiuse delle funivie...). Poi però si è costretti a pensare che, a fine giornata, quando il sole cala e la temperatura precipita, bisogna stare al riparo. E che si tratti di un bed&breakfast o di una pensioncina, di un albergo cinque stelle o una cosa un po’ alla buona, si cena in compagnia di altra gente proveniente da vari posti.

Nei periodi vacanzieri, peraltro, lo scopo generale di una larga parte dei partecipanti (specie nelle fasce più giovanili o comunque ancora “sul mercato”) è proprio quello di conoscere altra gente, frequentare, rimorchiare, divertirsi, ecc.

Come in discoteca d’estate, insomma (e comunque ce ne sono altrettante anche in montagna). E se questa estate abbiamo avuto la “tragedia della Costa Smeralda”, pur con temperature alte e un tasso di contagiosità al minimo storico, non è difficile immaginare cosa potrebbe diventare gennaio-febbraio dopo un Natale di massa vissuto senza troppe precauzioni, in presenza di statistiche spaventose e oltre 600 morti al giorno.

Anche noi abbiamo famiglia, figli, genitori, nipoti e nonni. Che vivono in altre case, province, regioni. Tutti noi attendiamo “le feste” per vederli, abbracciarli, giocare (non necessariamente a tombola!), mangiare, bere, ecc. E anche per i più anziani di noi – qualcuno c’era addirittura nel ‘68... – è normale pensare alla vacanza come una liberazione a tutto tondo (mica possono recitare da bigotti quelli che hanno fatto la “rivoluzione sessuale” del Novecento!).

Però, se dobbiamo pensare a come si affronta una pandemia di queste dimensioni e mortalità, tutti noi siamo obbligati a diventare seri e riporre i desideri (bisogni legittimi, in questo caso) nell’armadio delle cose che faremo di sicuro appena possibile. Non siamo insomma disposti a contagiare o venire contagiati dalle persone che ci sono care.

Le nostre soluzioni le andiamo ripetendo ogni giorno, ma sappiamo che tutti i governi dell’Occidente neoliberista hanno preferito “convivere con il virus” per salvare il Pil. Con il risultato oggettivo, davanti agli occhi di tutti e registrato da tutte le statistiche, di ammazzare centinaia di migliaia di persone e far crollare egualmente l’economia.

Dunque vediamo che si ha faccia come il culo di parlare delle “libertà natalizie” proprio perché questo governo, come quelli similari, continua a gestire la pandemia con l’occhio fisso sulle terapie intensive. E basta.

Solo quando il sistema sanitario è vicino al crollo scatta qualche divieto, invariabilmente mirato alle “attività del tempo libero”. E a quel punto scatta l’orgia delle misure insensate (“si chiude alle 18”, “no alle 20”, “fino a 6 persone”, “no, fino a 8, ma non controlleremo”, col cappello e senza cappello...) che fanno crollare la credibilità anche degli scienziati presenti nel Cts e aprono praterie ai negazionisti veri.

Si punta insomma solo a prendere tempo, tirare avanti nell’attesa del vaccino che dovrebbe risolvere tutti i problemi. E chissenefrega se il bilancio dei morti – e degli invalidati, perché questo virus fa anche danni stabili... – continua a salire verso vette da tempi di guerra.

Il profitto è tutto, la vita umana niente. In discoteca come sulle piste... il profitto uccide.

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