Pubblichiamo un contributo di Rossella Selmini, docente del dipartimento di scienze giuridiche all’Università di Bologna, tratto dal blog “Studi sulla questione criminale”.
Uno scritto che ha il merito di mettere in luce l’aspetto più taciuto del decreto Lamorgese del mese scorso.
Infatti il testo di legge – ora in fase di conversione alle Camere – non interviene affatto in riforma dei cosiddetti decreti Minniti e Salvini, ma lascia intatte o addirittura aggrava alcune disposizioni in materia di ordine pubblico e “sicurezza urbana”, in primis il daspo urbano.
È quello che succede quando ci si ostina a percorrere una strada sbagliata, cercando di mettere le pezze a qualcosa che dovrebbe semplicemente essere cancellato. È questo il caso dei decreti Minniti e Salvini, che non possono essere riformati, ma cancellati!
I meccanismi punitivi che mettono in atto sono rivolti direttamente alla marginalità sociale, che intralcia i progetti di città-vetrina a cui sono destinate le città in cui viviamo, e al conflitto sociale, fino a colpirne anche le manifestazioni più embrionali.
Questi strumenti sono ancora più funzionali in una fase di capitalismo in crisi, in cui l’imbarbarimento del modello produttivo non riesce più a garantire la tenuta sociale e la vera e propria sopravvivenza delle fasce medie della popolazione, che vivono un progressivo impoverimento e dunque il rischio di esplosioni di rabbia sociale si fa sempre più presente.
Uno scritto che ha il merito di mettere in luce l’aspetto più taciuto del decreto Lamorgese del mese scorso.
Infatti il testo di legge – ora in fase di conversione alle Camere – non interviene affatto in riforma dei cosiddetti decreti Minniti e Salvini, ma lascia intatte o addirittura aggrava alcune disposizioni in materia di ordine pubblico e “sicurezza urbana”, in primis il daspo urbano.
È quello che succede quando ci si ostina a percorrere una strada sbagliata, cercando di mettere le pezze a qualcosa che dovrebbe semplicemente essere cancellato. È questo il caso dei decreti Minniti e Salvini, che non possono essere riformati, ma cancellati!
I meccanismi punitivi che mettono in atto sono rivolti direttamente alla marginalità sociale, che intralcia i progetti di città-vetrina a cui sono destinate le città in cui viviamo, e al conflitto sociale, fino a colpirne anche le manifestazioni più embrionali.
Questi strumenti sono ancora più funzionali in una fase di capitalismo in crisi, in cui l’imbarbarimento del modello produttivo non riesce più a garantire la tenuta sociale e la vera e propria sopravvivenza delle fasce medie della popolazione, che vivono un progressivo impoverimento e dunque il rischio di esplosioni di rabbia sociale si fa sempre più presente.
*****
Le recenti – e le mancate – modifiche ai “decreti Sicurezza” in materia di sicurezza urbana: la continuità di un modello punitivo
Le recenti – e le mancate – modifiche ai “decreti Sicurezza” in materia di sicurezza urbana: la continuità di un modello punitivo
di Rossella Selmini
Lo scorso 21 ottobre sono state modificate, con il decreto legge n. 130[1], alcune norme dei c.d. “decreti Salvini” (e, come vedremo qui, anche del precedente “decreto Minniti”)[2] e introdotte alcune altre disposizioni in materia penale e di procedura penale. Si tratta di una riforma molto attesa, e che ha provocato una certa euforia sulla stampa e sui social media, dove a volte si è parlato – impropriamente – di “cancellazione” dei decreti stessi. I decreti sono in realtà ben vivi e vegeti, in quella parte che non riguarda l’immigrazione.
Le aspettative di riforma erano per lo più rivolte alle norme sull’immigrazione e i commenti si sono infatti concentrati quasi esclusivamente su questi aspetti. Si è detto invece poco di alcune modifiche incluse in questo nuovo decreto, relative alle norme sulla c.d. sicurezza urbana, e delle riforme mancate. Nonostante il lunghissimo titolo del decreto non citi questa volta il termine “sicurezza” – un fatto che alcuni commentatori hanno apprezzato perché ritenuto indicativo di una volontà di spezzare il binomio sicurezza-immigrazione – in realtà alcune previsioni riguardano proprio quella che si definisce, ormai impropriamente, “sicurezza urbana”.
Guardando a questi aspetti – ai quali esclusivamente è dedicato questo commento – l’euforia si ridimensiona in fretta: il nuovo decreto, infatti, si muove decisamente sulla stessa linea delle precedenti decretazioni d’urgenza sulla sicurezza (sia i decreti Salvini che il decreto Minniti), e tende a replicarne i meccanismi punitivi, dimostrando una sostanziale continuità con il passato.
Più precisamente, il decreto legge 21 ottobre 2020 n. 130 interviene prima di tutto sull’art. 13 del decreto Minniti andando ad estendere la platea dei potenziali destinatari di un c.d. “daspo urbano” in certi casi specifici. Con l’improprio termine di “daspo urbano” ci si riferisce a una misura amministrativa di polizia – di competenza del questore – introdotta dal decreto Minniti in via generale per coloro che ricevono un ordine di allontanamento del sindaco (e non adempiono alle prescrizioni) e poi in maniera più specifica per certe categorie di persone. L’art. 13 del decreto Minniti riguarda proprio una di queste forme di divieto d’accesso “specifico”, rivolta cioè a coloro che siano stati condannati, nei tre anni precedenti, con sentenza definitiva o confermata in appello, per fatti connessi “alla vendita o la cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope”, che siano stati commessi in certi luoghi strategici della città, come scuole, università e locali pubblici o aperti al pubblico. Ora i destinatari della misura sono anche coloro che, sempre negli ultimi tre anni, siano stati anche soltanto denunciati o condannati – se pure in via non definitiva – per la vendita o cessione di sostanze stupefacenti o psicotrope. Inoltre, con una modifica che opportunamente è stata definita “un vero e proprio intervento di criminalizzazione” (Mentasti 2020) le violazioni di questi divieti d’accesso – che prima erano sanzionate amministrativamente – sono ora considerate reato, e punibili con la reclusione da sei mesi a due anni e con la multa da 8.000 a 20.000 euro.
Il decreto Salvini 1 aveva già riformato l’art. 13, introducendo un art. 13 bis riguardante il divieto di accesso nel caso di disordini negli esercizi pubblici e nei locali di pubblico intrattenimento. Anche qui, la recente riforma interviene ad ampliare la platea dei potenziali destinatari del provvedimento di messa al bando, prevedendo che il divieto di accesso possa essere disposto anche nei confronti di persone che siano state semplicemente denunciate (sempre per reati commessi in occasione di gravi disordini in queste zone specifiche) o in stato di fermo o di arresto convalidato dall’autorità giudiziaria. Inoltre, oltre a questi reati, il divieto di accesso può ora essere disposto anche nei confronti di chi sia stato denunciato negli ultimi tre anni anche per i delitti aggravati dalla finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso.
È quindi evidente che si amplia – in una misura che sarà da verificare empiricamente, ma potenzialmente importante – il numero di destinatari di questa misura di messa al bando.
Per il divieto di accesso specifico dell’art.13 bis, dove la violazione della misura amministrativa era già configurata come reato, la pena viene aggravata (da 6 mesi a due anni e da 8.000 a 20.000 euro, mentre prima era da 6 mesi a un anno e da 5.000 a 20.000 euro).
Infine, si precisa che il divieto di accesso che il questore può disporre include anche coloro che “stazionano” nei pressi dei pubblici esercizi e dei locali di pubblico intrattenimento (con tutte le difficoltà di definire cosa sia esattamente uno “stazionamento nelle immediate vicinanze”).
Si inserisce in questa cornice di inasprimento delle forme di controllo dei disordini nello spazio pubblico anche l’inasprimento della pena (attraverso un innalzamento del limite edittale massimo della sanzione pecuniaria e della reclusione) quando in occasione della rissa qualcuno rimanga ucciso o riporti lesioni personali.
L’analisi dei decreti Minniti e Salvini dimostra che dal primo agli ultimi due si è assistito ad una intensificazione delle misure perseguita attraverso due modalità: ampliamento dei soggetti passibili di una qualche misura amministrativa (ordine di allontanamento e divieto di accesso) e trasformazione delle violazioni delle misure amministrative in reati. Se nel decreto Minniti le interazioni tra diritto amministrativo punitivo e diritto penale erano ancora contenute, con i decreti Salvini si adotta in maniera più estesa un modello di “two step prohibitions” (Simester, Von Hirsch, 2006) o di “ibrido giuridico” (Beckett, Herbert, 2010) o di “prevenzione coercitiva” (Ashworth, Zedner, 2014) attraverso il quale il non rispetto della proibizione amministrativa (di sostare in un certo luogo, di entrare in una determinata area, di tenere o meno un certo comportamento) rappresenta un reato.
La critica che poteva quindi muoversi ai precedenti decreti Minniti e Salvini, può muoversi anche a questa recente riforma, che sul piano della c.d. sicurezza urbana prosegue nella espansione di un diritto amministrativo punitivo sempre più intrecciato con un potenziale intervento del penale.
Una continuità che si manifesta anche nel mancato intervento verso una serie di norme illiberali (in materia di controllo della protesta, per esempio) e di criminalizzazione della marginalità sociale. Tutta questa parte dei precedenti decreti (Salvini e Minniti) rimane invariata[3]: fatto di per sé degno di nota. Quando si interviene, quindi, come si è appena visto, si rimane nel solco dei vari “pacchetti sicurezza” che si sono succeduti nel corso di un ventennio: ampliamento della platea dei destinatari di misure ibride (amministrativo-penali), inasprimento delle pene, intensificazione dei dispositivi di controllo urbano (Cornelli 2017; Sbraccia 2019; Selmini 2020). E quando non si interviene, mantenendo di fatto in piedi un impianto fortemente punitivo, se pure prevalentemente basato sulla sanzione amministrativa, si dimostra di condividere sostanzialmente le strategie perseguite da anni per intensificare il controllo della marginalità urbana nello spazio pubblico e rendere più stringente il controllo della protesta.
Il decreto Salvini 1 prevede infatti una serie di misure che criminalizzano figure della marginalità urbana (Cassano 2019) come i mendicanti e i parcheggiatori abusivi, reintroducendo il reato di mendicità (Curi 2019) e introducendo una nuova figura criminosa per i parcheggiatori abusivi che violassero prescrizioni amministrative o per chi organizzava l’attività dei parcheggiatori abusivi stessi. Il decreto noto come Salvini bis, invece, ha introdotto una serie di norme che comprimono in maniera rilevante il diritto alla protesta, concretizzando così uno scivolamento ulteriore da una strategia di sicurezza urbana punitiva a interventi che sono di puro ordine pubblico (Zirulia, 2019). Nessuna di queste norme viene messa in discussione dalla recente riforma di ottobre, come se l’introduzione di dispositivi punitivi e criminalizzanti e che comportano una espansione del castigo, sia nella sua forma penale tradizionale che nella sua dimensione amministrativa e locale, sia un fatto del tutto accettabile e compatibile con lo stato di diritto e i principi della democrazia.
Se guardiamo a questa parte della riforma (sia quella attuata che quella mancata) dei decreti Minniti e Salvini, quindi, rimane davvero poco spazio per l’euforia. Il recente decreto intensifica gli interventi punitivi da un lato e lascia inalterate alcune delle norme più afflittive previste negli anni recenti sia verso le figure della marginalità urbana che per il controllo della protesta. E pressoché nessuna voce critica si è alzata a rivendicare una riforma di taglio diverso, che dimostrasse una reale volontà di invertire una tendenza punitiva consolidata, re-orientando le politiche di sicurezza alla prevenzione e non alla criminalizzazione della marginalità o all’ordine pubblico. A dimostrazione che le culture punitive sono saldamente entrate non solo nelle prassi istituzionali e legislative, ma probabilmente anche nella coscienza collettiva.
Fonte
Nessun commento:
Posta un commento