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26/11/2020

Armenia - La tenaglia tra Russia e Turchia (1)

di Marco Santopadre

È un’Armenia scioccata e amareggiata quella che accoglie decine di migliaia di profughi in fuga dai territori conquistati dalle truppe azere o ceduti a Baku dall’accordo sul cessate il fuoco del 9 novembre. I centomila sfollati che si stanno ammassando – dopo aver fatto terra bruciata dietro di sé – in un paese di soli tre milioni di abitanti, già vicino allo stremo per la crisi economica, l’emergenza Covid e il recente conflitto, cesseranno presto di essere oggetto della solidarietà e delle attenzioni retoriche dei leader nazionalisti.

Molti armeni arrabbiati e delusi cercano i responsabili della disfatta nelle alte sfere, gridando al tradimento del premier Pashinyan o dei comandi militari. Il 17 novembre, dopo le violente manifestazioni arrivate fin dentro il parlamento e la residenza del capo del governo, il presidente armeno Armen Sargsyan ha chiesto le dimissioni dell’esecutivo e la convocazioni di elezioni parlamentari anticipate. E intanto, si è dimesso il ministro degli Esteri Zohrab Mnatsakanyan.

Ma, al di là delle eventuali responsabilità dell’attuale classe dirigente nella gestione del conflitto e dei rapporti con le (vere o presunte) potenze alleate, l’Armenia prende atto sgomenta della sua debolezza e del suo isolamento. Sembrano trascorsi secoli da quando le milizie armene vittoriose sull’esercito di Baku resero effettiva l’indipendenza della Repubblica di Artsakh sulla maggior parte del Nagorno-Karabakh e conquistarono diverse province azere circostanti. All’inizio degli anni ’90 furono gli abitanti azeri di quei territori a trasformarsi in sfollati e a cercare rifugio ad est. Da quel momento la storia sembra essersi messa a correre e gli assetti interni e internazionali che avevano determinato la schiacciante vittoria armena sul suo storico rivale sono mutati.

L’Azerbaigian, una piccola potenza

L’ex repubblica sovietica dell’Azerbaigian, uscita con le ossa rotte dal conflitto con Erevan tra il 1991 e il 1994, è diventata una piccola potenza grazie ai generosi proventi del petrolio e del gas. Molta di questa ricchezza il paese l’ha investita in spese militari, facendo incetta di armi, munizioni ed equipaggiamenti di ultima generazione. Negli ultimi dieci anni il presidente Ilham Aliyev ha aumentato le spese per la difesa del 500%, modernizzando l’esercito di Baku e dotandolo di sistemi sofisticati e capaci di colpire a distanza, mentre le truppe armene si sono dovute accontentare spesso di armi obsolete.

A sostenere i preparativi bellici e le ansie di revanche dell’Azerbaigian nei confronti dell’Armenia sono stati soprattutto la Turchia e Israele, ma anche Mosca negli ultimi anni ha venduto più armi a Baku che a Erevan, nel tentativo (forse illusorio) di controbilanciare l’influenza di Ankara sulla repubblica turcofona.

Durante la recente crisi, l’Azerbaigian ha indubbiamente beneficiato della relazione di competizione/concertazione tra Turchia e Russia, impegnate in una complessa trattativa in vari quadranti. Per l’Armenia la tenaglia tra Russia e Turchia si è invece rivelata dolorosa, tanto che nella diaspora è tornato in primo piano il timore di un nuovo Medz Yeghern (termine che indica il genocidio del 1915-16) o comunque di una crollo del progetto nazionale armeno.

La Russia, in difesa

Come da tradizione, tra i due contendenti Mosca ha cercato di tenere una posizione di equilibrio e di tendenziale equidistanza, evitando di sostenere troppo nettamente l’Armenia che pure molti russi considerano una nazione cristiana e sorella, da difendere contro la minaccia turco-musulmana.

Durante il breve ma sanguinoso conflitto, un certo numero di soldati e cittadini russi, e non sempre di origini armene, hanno dato il loro contributo alla difesa della Repubblica di Artsakh. Ma la realpolitik ha consigliato a Putin una posizione più attendista, in nome degli interessi geopolitici della Russia nel Caucaso e non solo.

Dopo l’inizio dei combattimenti, il 27 settembre, Mosca ha evitato di fare la voce grossa. Avrebbe potuto, legata a Erevan da un accordo di assistenza militare nell’ambito del “Trattato di Sicurezza Collettiva”, e possedendo sul territorio armeno due basi militari – a Erebun e Gyumri – che ospitano migliaia di soldati, oltre a caccia, elicotteri e mezzi terrestri. Anche solo mostrando i muscoli, la Russia avrebbe potuto indurre gli azeri – e i loro sponsor turchi – a riconsiderare l’opportunità di un conflitto diretto con Mosca. Che però ha dovuto bilanciare la necessità di conservare (o recuperare) la tradizionale egemonia sull’Armenia con il rischio di rompere con un paese, l’Azerbaigian – con cui intrattiene solidi rapporti commerciali ed energetici – e soprattutto con la Turchia, partner e al tempo stesso competitore in numerosi teatri di conflitto dalla Siria alla Libia.

Troppo alto il rischio di rompere i difficili equilibri raggiunti negli ultimi anni con Ankara, mandando all’aria l’accordo sul TurkStream, la pipeline inaugurata lo scorso 8 gennaio che porta il gas russo in Turchia (8 miliardi di metri cubi l’anno) ma soprattutto nel Mediterraneo e in Europa. Un progetto vitale dopo il boicottaggio del SouthStream e la messa in standby del NorthStream 2, diretto in Germania, entrambi a causa delle sanzioni Usa.

Senza contare che Mosca continua a perseguire un sempre più verosimile sganciamento di Erdogan dall’Alleanza Atlantica e dalla sfera di Washington che ovviamente una rottura con la Turchia metterebbe in discussione. Se fosse intervenuta a favore dell’Armenia sulla base del Trattato di Sicurezza Collettiva, la Russia avrebbe fortemente contrariato altri paesi aderenti al patto militare come il Kazakistan, il Kirghizistan e il Tagikistan – legati alla Turchia da comuni origini etnolinguistiche e a maggioranza musulmana, sui quali Ankara esercita da tempo una crescente influenza, rischiandone lo sganciamento come già avvenuto per l’Uzbekistan e lo stesso Azerbaigian. D’altronde, durante il conflitto tra le due ex repubbliche sovietiche, il Kazakistan e il Kirghizistan hanno esplicitamente espresso il loro sostegno a Baku.

I russi non possono permettersi un sostegno univoco all’Armenia, pena la rinuncia al tentativo di rilanciare la propria egemonia nel Caucaso. D’altronde, il testo che accompagna l’accordo di cessate il fuoco e che porterà a una mutilazione territoriale della Repubblica di Artsakh, ricalca più o meno il cosiddetto “piano Lavrov”, la proposta di soluzione del contenzioso che la Russia ha difeso negli ultimi anni, fondata su un graduale ritiro delle forze armene dai territori azeri attorno al Nagorno-Karabakh conquistati nel conflitto del '91-'94 e sull’invio nella regione di una missione di peace-keeping russa.

Il dispiegamento sulla linea di contatto, in particolare nel corridoio di Lachin – che dovrebbe continuare a congiungere l’Artsakh con la Repubblica Armena, garantendo una fondamentale continuità territoriale tra i due territori – di duemila militari russi incaricati di monitorare il rispetto del cessate il fuoco nei prossimi 5 anni rinnovabili, rappresenta una innegabile vittoria strategica per Mosca che estende così il suo controllo militare nell’area.

La Russia si dimostra fondamentale per la sopravvivenza dell’enclave armena in territorio azero (che rischiava seriamente di scomparire sotto i colpi dei droni, dei caccia e degli elicotteri di Baku) e per la stessa integrità territoriale della altrimenti indifesa Erevan, già garantita dalla presenza delle due basi russe. Il Cremlino ha tollerato l’avanzata azera sul territorio controllato dagli armeni ma è intervenuto per impedire una disfatta totale di questi ultimi quando i combattimenti lambivano ormai Stepanakert, la capitale dell’Artsakh.

Mosca si è confermata risolutiva per la cessazione del conflitto dopo il fallimento delle proposte di mediazione di Francia e Stati Uniti, soppiantando con la propria iniziativa il gruppo di Minsk dell’Osce, incaricato di una gestione multilaterale della crisi.

Le mosse di Mosca vanno lette anche all’interno dello scenario politico armeno come un tentativo di mettere in difficoltà il governo di Nikol Pashinyan e il suo schieramento politico filoccidentale, al potere dal 2018 in seguito alla cosiddetta “Rivoluzione di velluto” che provocò la rimozione di un esecutivo sicuramente più vicino agli interessi russi. Dalla sua ascesa l’ex giornalista ha ridotto al minimo l’integrazione militare e di intelligence con Mosca, ha epurato i comandi militari dagli elementi ritenuti troppo filo-russi, ha sospeso l’adesione di Erevan all’Unione Economica Eurasiatica promossa dalla Russia. Mosca vuole assolutamente evitare che l’Armenia segua le orme della Georgia, finita subito dopo la dissoluzione dell’Urss nell’orbita politica e militare statunitense.

Infine, la forma dell’accordo tripartito – i due contendenti più la Russia – sul cessate il fuoco esclude, anche se solo formalmente, la Turchia. Che però, come vedremo nella seconda parte dell’articolo, segna numerosi punti a suo vantaggio e potrà continuare a soffiare sul fuoco del nazionalismo azero prefigurando e preparando un eventuale secondo tempo del conflitto conclusosi il 9 novembre, diretto a riconquistare tutto il Nagorno-Karabakh, il cui status viene lasciato del tutto in sospeso dal vago accordo di cessate-il-fuoco.

L’innegabile successo diplomatico di Mosca si colloca in un contesto di incertezza ed ambiguità che lascia spazio alle rivendicazioni azere e turche ravvivate dal recente successo militare. Rivendicazioni che rappresentano una grave minaccia per gli armeni dell’Artsakh e per l’Armenia stessa, e che costituiscono un problema non indifferente per gli interessi di Mosca nella regione.

Inoltre, l’impiego da parte delle truppe azere di alcune migliaia di miliziani jihadisti siriani e di altri paesi aviotrasportati nel Caucaso dalla Libia e forse anche dalla Turchia testimonia della spregiudicatezza della strategia turca. Mosca, obbligata in questo frangente a una difficile convivenza/competizione con Ankara, dovrà attuare tutte le contromisure necessarie per evitare di trovarsi un’altra volta minacciata dal fondamentalismo islamico come già accaduto nei decenni scorsi prima in Afghanistan e poi nella propria area d’influenza, in Cecenia e in Daghestan.

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