Il 28 ottobre la Commissione Europea ha pubblicato una proposta di direttiva (qui il testo integrale)
riguardante il miglioramento delle condizioni lavorative ed in
particolare dei livelli salariali dei lavoratori appartenenti agli Stati
Membri. Che però si tratti di una reale e concreta occasione per
invertire la tendenza decennale delle politiche economiche è tutto da
vedere.
Lo scopo della proposta, come affermato all’articolo 1, è quello di favorire l’adozione nei Paesi membri di un salario minimo ‘adeguato’ e
di una diffusa contrattazione collettiva. Tuttavia, a ben vedere,
quand’anche essa fosse recepita, non comporterebbe la fissazione di
alcun salario minimo né una decisa diffusione della contrattazione
collettiva.
L’articolo 5, infatti, oltre a fissare
i criteri di adeguatezza per la determinazione del salario minimo,
sottolinea come essi si riferiscano soltanto ai paesi dove un salario
minimo per legge esiste già. Nessuna legislazione ex-novo,
dunque. Inoltre, vi è solo un vago riferimento alle misure utili a
valutare l’adeguatezza del salario minimo, che dovrebbe essere
commisurato, nei singoli Paesi, al potere di acquisto, al livello e al
tasso di crescita generale dei salari e all’andamento della
produttività. Senza che sia prevista alcuna chiara e definita relazione
tra queste variabili e la dinamica del salario minimo, non resta che la cristallizzazione dell’esistente. È infatti importante notare che queste variabili rappresentano di per
sé dei criteri che concorrono alla fissazione dei salari, con o senza
previsione legislativa: dunque, sembra proprio che, da questo punto
vista, questa direttiva non cambi nulla.
Per quanto riguarda la contrattazione
collettiva, invece, nella vaga promozione che se ne fa, l’obiettivo che
viene consigliato è quello di una copertura di almeno il 70% della forza
lavoro. Tuttavia, se consideriamo i paesi europei, tra cui l’Italia, in
cui non esiste alcuna previsione di legge sulla fissazione di un salario minimo e
che dunque rappresentano il gruppo dei paesi in cui più si dovrebbero
osservare gli effetti di questa direttiva in materia di contrattazione
collettiva, i dati OCSE ci confermano che la copertura della
contrattazione collettiva compre ben oltre il 70% dei lavoratori
dipendenti. Essa è sempre sopra l’80%, Italia compresa, e nel caso
dell’Austria arriva al 98%.
Oltre alle belle e vacue intenzioni,
dunque, buone per qualche titolone di giornale, di efficace in questa
prospettiva non resta nulla: né la fissazione per legge di un salario
minimo realmente dignitoso, né la promozione diffusa della
contrattazione collettiva tra lavoratori e padroni.
Questa proposta di direttiva dunque, non fa che aggiungersi alle misure propagandistiche che tentano, di volta in volta, di propinarci l’idea di Unione che cambia. Nonostante ciò, il direttore generale della Business Europe, la Confindustria Europea, si è affrettato a definirla “una
ricetta per il disastro”. L’intervento è significativo perché sottolinea come, indipendentemente dal contesto nel quasi ci si muove,
ai padroni semplicemente non piace che qualcuno si permetta di parlare
di politiche salariali. Che nemmeno salti in mente di interferire con
la loro arbitrarietà, dunque.
Certo, ci sarebbe stato da sobbalzare
se l’Unione Europea avesse davvero deciso di sposare la causa dei
lavoratori. Essa, infatti, come abbiamo avuto più volte modo di sottolineare, rappresenta la più efficace architettura istituzionale atta a sterilizzare qualsiasi forma di rivendicazione salariale.
Infatti, l’introduzione di un salario
minimo orario significativamente superiore a quello stabilito dai
contratti collettivi nazionali, non quello fantoccio proposto dalla
Commissione Europea, porterebbe ad una redistribuzione del reddito a
favore della classe lavoratrice attraverso un aumento della quota salari
a discapito dei profitti senza intaccare in alcun modo i livelli
occupazionali. Essi, infatti, dipendono dal livello della produzione, che a sua volta è legato al livello della domanda aggregata. Anzi,
l’aumento dei salari, specie quelli più bassi, provocherebbe un aumento
dell’occupazione grazie all’aumento dei consumi (e quindi della domanda
aggregata) che ne conseguirebbe.
L’Unione Europea, tuttavia, per le sue
caratteristiche endemiche ben note sin dalla sua costituzione,
rappresenta uno dei principali responsabili della situazione disastrosa
in cui si trovano oggi i lavoratori. Già a partire dagli anni ’90,
l’Unione Europea ha perseguito con tutte le sue forze l’abbattimento delle protezioni sociali dei lavoratori,
attraverso continue richieste agli Stati Membri di attuare riforme del
mercato del lavoro seguendo quell’idea di “flessibilità” che ha portato
alla precarietà occupazionale nonché alla stagnazione dei salari.
L’ipocrisia, dietro la quale l’Unione Europea nasconde i suoi intenti
più diabolici, si manifesta attraverso una serie di scatole vuote, a
cominciare dal famoso Pilastro Europeo dei Diritti Sociali, ormai
approvato tre anni fa (17 novembre 2017) di cui è figlia la direttiva
oggetto di questo articolo. Nel suddetto Pilastro vengono elencati una
serie di principi guida (venti, per l’esattezza) che fanno riferimento,
tra le altre cose, al mondo del lavoro in termini di parità di genere,
retribuzioni e protezione dei lavoratori. Tuttavia, in termini concreti,
l’Unione Europea è ferma a quelle parole, dato che le proposte avanzate
sono ancora “in fase di negoziazione” con gli Stati Membri. L’assurdo è
che l’assetto economico su cui si fonda l’Unione è fortemente orientato
ad una politica liberista che fa della compressione del costo del lavoro un
elemento imprescindibile e immodificabile. Infatti, il mantra di
Bruxelles è che la crescita economica di un Paese debba avvenire tramite
la competitività sui mercati e dunque sulle esportazioni. Ciò significa
che, anziché sostenere la domanda interna attraverso l’aumento della
capacità di acquisto della classe lavoratrice, diventa imprescindibile
contenere i salari in modo tale da calmierare i prezzi delle merci.
Qualsiasi tentativo di aumentare il livello dei salari da parte di un
governo benintenzionato verrebbe stigmatizzato e ostacolato paventando
conseguenze disastrose sull’occupazione attraverso il feticcio dell’inflazione.
L’assetto economico dell’Unione
Europea è studiato in modo tale da disinnescare qualsiasi eventuale
incremento della dinamica salariale. Abbiamo visto in diverse occasioni
come le grandi imprese sfruttino i veri pilastri dell’Unione, ossia le libertà di circolazione di merci e capitali, per mettere alla frusta i lavoratori e gli stessi governi quando timidamente provano a difenderli. Casi come quelli della Whirlpool a Napoli, o dell’ex-Ilva a Taranto,
testimoniamo come la classe capitalista possa fare la voce grossa senza
che nessuno possa minimamente contrastarla. Questo perché la
possibilità di spostare la produzione al di fuori dei confini nazionali
priva i lavoratori di qualsiasi strumento, non solo di rivendicazione,
ma sempre più spesso della semplice difesa del salario e delle
condizioni lavorative. E, a dirla tutta, anche su questo punto, la
direttiva di cui stiamo discutendo non agisce minimamente. Essa, non
solo non fissa un livello minimo del salario tale da scoraggiare il dumping salariale
tra paesi ma, anche tra i criteri di adeguatezza, non cita alcun
meccanismo che possa potenzialmente disincentivare la competizione
salariale interna all’Unione quale potrebbe essere, ad esempio, la
previsione di aumenti del salario più accentuati nei paesi con più
grandi avanzi commerciali. Ciò per altro sarebbe in aperto contrasto con
le libertà sancite dal Trattato di Maastricht, prima tra tutte la
libertà di movimento dei capitali.
La battaglia per miglioramenti nella retribuzione salariale e per migliori condizioni di lavoro è un tassello fondamentale per
modificare i rapporti di forza a vantaggio della classe lavoratrice ma,
la proposta di direttiva di cui abbiamo trattato, non agevola affatto il
compito e anzi si inserisce perfettamente nel quadro di compatibilità
sancito dai Trattati.
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