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28/11/2020

Frau Merkel si era illusa. L’industria tedesca rimane legata alla Cina

di Michelangelo Cocco

È toccato a Liu He – principale consigliere economico di Xi Jinping nonché uno dei leader del Partito comunista cinese con maggiore consuetudine con l’establishment statunitense – lanciare al presidente eletto Joe Biden e all’Europa un segnale di apertura agli scambi e agli investimenti internazionali, dopo che i primi giudizi arrivati dall’estero sul prossimo Piano quinquennale (2021-2025) di Pechino lo avevano bollato come “autarchico”.

Il vicepremier Liu ha chiarito che puntare – come prevede il nuovo Piano – sulla cosiddetta “innovazione autoctona” (zìzhŭ chuàngxīn) non implica che la Cina si isolerà dal resto del mondo. «È impossibile fare tutto da soli e rinunciare alla divisione internazionale del lavoro – ha rilevato Liu in un articolo pubblicato l’altro ieri dal “Quotidiano del popolo” –. La Cina continuerà a perseguire una maggiore e più profonda apaertura economica nel quadro della sua nuova strategia economica».

Ovvero la cosiddetta “doppia circolazione” destinata a favorire nei prossimi anni produzione, circolazione e consumi interni, riducendo la dipendenza sia dall’export (una tendenza in corso da anni, se si considera che, nel 2019, l’interscambio commerciale con l’estero equivaleva al 32% del prodotto interno lordo cinese, esattamente la metà del picco del 64% raggiunto nel 2006) sia, soprattutto, dall’importazione di “componenti chiave” che i colossi hi-tech cinesi tuttora acquistano dalle multinazionali straniere.

La Cina – ha proseguito Liu – continuerà a fornire opportunità per le compagnie internazionali e a importare materie prime e risorse che utilizzerà per dar luogo a nuovi «vantaggi competitivi» a livello internazionale.

“Dopo la crisi finanziaria internazionale del 2008, il mercato globale si è contratto, e l’economia globale è caduta in un persistente declino – ha scritto Liu –. Nei maggiori paesi occidentali hanno prevalso il populismo e l’aumento del protezionismo. La Cina deve incrementare la circolazione interna per rafforzare l’autonomia e la sostenibilità dello sviluppo economico».

Nell’attesa di capire quanto protezionismo ci sarà nella politica economica di Biden e come (nella “Nuova era” di Xi Jinping) intenda davvero impostare il suo rapporto con Pechino l’Europa, che – mettendo a nudo le sue difficoltà nell’elaborazione di una strategia coerente – ha definito «partner, concorrente e rivale sistemico» la Cina, quest’ultima spera di poter presto contare sulla appena siglata Regional Comprehensive Economic Partnership (Rcep) – il maggiore accordo di libero scambio del pianeta che coinvolge dieci paesi dell’Associazione delle nazioni del Sud-est asiatico (Asean) oltre a Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda – e sta considerando di entrare anche nel Comprehensive and Progressive Agreement for Trans-Pacific Partnership (Cptpp).

Entrambi gli accordi configurano gigantesche aree di libero scambio nel Pacifico dalle quali, finora, gli Stati Uniti si sono tenuti fuori.

Aree di libero scambio che (assieme all’appello della cancelliera tedesca Angela Mekel a dar vita a catene del valore europee e alla necessità degli Usa di riportare investimenti e lavoro negli States) prefigurano nel medio periodo un accorciamento delle catene di distribuzione (che da globali diventerebbero regionali), con una quantità più ridotta di componenti importate, un minor numero di paesi coinvolti, più vicini ai mercati di destinazione finale del prodotto.

D’altro canto, il dinamismo e le potenzialità di ulteriore sviluppo della Cina, il suo mercato di 1,4 miliardi di consumatori e le prospettive aperte dalle nuove aree di libero scambio nel Pacifico spingono le compagnie occidentali a restare in Cina, dove continueranno a reclamare più spazi e parità di trattamento rispetto alle aziende locali.

Il sondaggio annuale della Camera di commercio americana a Shanghai condotto nel settembre scorso ha rilevato che il 92% delle aziende affiliate non aveva alcuna intenzione di lasciare il gigante asiatico, nonostante le politiche di Trump.

Mentre le grandi corporation teutoniche – incuranti dell’invito di Merkel a diversificare gli investimenti tedeschi in Asia (disinvestendo dunque dalla Cina) – continuano a scommettere proprio su quest’ultima.

Attualmente metà dell’export della Germania (un’economia totalmente dipendente dalle esportazioni) nel continente asiatico è diretto verso la Cina. Daimler ha annunciato “a sorpresa” che produrrà assieme alla cinese Geely i motori per i suoi nuovi veicoli ibridi. Mentre Volkswagen – che nel terzo trimestre è tornata a macinare utili grazie alla domanda nel gigante asiatico – ha in programma investimenti per 15 miliardi di euro tra il 2020 e il 2024 per fabbricare auto elettriche in Cina.

Il gigante della robotica industriale tedesca Han Automation è pronta a investire decine di miliardi di dollari per l’apertura di impianti in Cina nei prossimi tre anni, per aumentare le vendite in Cina dal 10% al 25%. Stessa strategia per il produttore teutonico di sensori per auto Olaf Kiesewetter.

Per stilare un elenco completo delle compagnie tedesche che negli ultimi mesi hanno annunciato grossi investimenti in Cina servirebbero pagine e pagine...

Inoltre, nei primi nove mesi del 2020 le esportazioni tedesche in Cina hanno superato quelle verso la Francia e, entro la fine dell’anno, potrebbero superare anche quelle negli Stati Uniti, rendendo la Cina il primo Paese destinatario dell’export di Berlino.

Stefan Mair – una delle menti che elaborò il documento della BDI (la Confindustria tedesca) che quasi due anni fa invitò la politica tedesca a disinvestire dalla Cina, si è rimangiato le sue stesse parole: «In termini economici, la Cina è diventata ancora più importante per la Germania rispetto all’inizio del 2020 – ha dichiarato alla Reuters –. È impossibile ignorare la Cina, perché il suo mercato e le sue opportunità di crescita sono semplicemente troppo grandi».

Insomma la crisi pandemica, dalla quale l’economia cinese sta uscendo rafforzata così come – una decina d’anni fa – uscì rafforzata da quella finanziaria globale, contrariamente ai proclami di frau Merkel, ha rimandato il momento in cui verrà reciso il cordone ombelicale che lega la grande industria tedesca a mamma Cina.

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