È abbastanza usuale considerare le opere di transizione come minori per
la carriera di un artista, tanto che solitamente quella che dovrebbe
essere una caratteristica neutra finisce col venire utilizzata con tono
negativo. Eppure non è raro che l'opera di transizione possieda una
varietà di sfumature superiore sia a quelle che la precedono sia a
quelle che la seguono: avendo iniziato lo sgombero del vecchio stile, ma
non essendo ancora compiutamente assestata nel nuovo, finisce con
l'assumere i connotati di entrambi e mostra quindi una completezza
difficile da replicare. Eppure la reputazione negativa è dovuta proprio a
tali componenti, spesso percepiti come contrastanti o poco amalgamati.
Pubblicato nel febbraio del 1981, "Moving Pictures" è il riconosciuto capolavoro dei Rush.
L'album viene da sempre lodato per l'equilibrio, la pulizia sonora, la
qualità produttiva, l'immediatezza della melodie, la capacità di dare
veste pop alla musica dei Rush senza sminuirne le architetture. Il suo
merito più grande è però proprio d'essere un album di transizione. Lo si
può infatti ritenere l'ultimo loro disco legato alla mistura di rock progressivo e hard rock da arena, formula che li rese famosi, oppure il primo della loro fase tecnologica solcata da sonorità new wave e pesanti ingerenze elettroniche.
Se a nessuno piace etichettarlo come lavoro di transizione, perché per
l'appunto parrebbe di volerlo sminuire, la realtà è che non si potrebbe
invece fare complimento migliore a un disco che, grazie a questa
fusione, rappresenta l'intero universo creato dal trio canadese. Un
mondo parallelo dove musica e geometria hanno operato in perfetta
sintesi per quasi vent'anni, prima di ingolfarsi un po' e ripetersi
oltre il necessario.
Con "Permanent Waves", l'anno prima, i Rush
hanno per la prima volta agguantato la zona alta delle classifiche
internazionali. "Moving Pictures" è così il primo album registrato nella
condizione di affermate rockstar (se riempivano le arene già
da qualche anno, è anche vero che il loro nome non era mai andato
all'infuori del circolo degli appassionati prima del leggendario singolo
"Spirit Of The Radio"). La tensione non mancò di farsi sentire, quando
all'innalzarsi dell'ambizione degli arrangiamenti e della sfida alle
nuove tecnologie la band si ritrovò a sforare il tempo a disposizione
per le sessioni. Alla fine, comunque, il vinile raggiunse i negozi senza
particolari ritardi.
Il successo fu immediato e travolgente: numero 3
in Gb, numero 3 negli Usa, numero 2 in Canada e oltre cinque milioni di
copie vendute sul solo mercato anglofono. Pur essendosi tolti molte
altre soddisfazioni, i Rush non avrebbero più ottenuto simili riscontri.
Un disco del genere è del resto di quelli che segnano un'epoca e fanno
sentire la propria eco per decenni.
In cabina di regia, accanto
ai tre membri della band, siede il fedele Terry Brown, che li accompagna
sin dal 1975. L'ingegnoso produttore è fondamentale sia per superare i
limiti tecnici in fase di mixaggio e utilizzo delle nuove tastiere sia
per conferire dinamismo al sound, per esempio intervenendo sul posizionamento e sul filtraggio dei microfoni della batteria.
La scaletta si apre con la radiazione metallica del sintetizzatore
Oberheim Ob-X e una batteria sincopata oltre l'apparente limite del
possibile. Passano cinque secondi prima dell'ingresso vocale di Geddy
Lee, con il suo tono femmineo e acuto, ma sono cinque secondi incisi nel
granito, una delle introduzioni strumentali più caratteristiche della
musica popolare. Una manciata di istanti che basta a "Tom Sawyer" per
cambiare il corso dell'immaginario rock.
Sfilano quindi a gran velocità le roboanti schitarrate di Alex Lifeson, un intermezzo
strumentale in tempi dispari, colpi di batteria neanche fosse un
mitragliatore e una serie di riff ormai classici (su tutti quello di synth a 1' 33", una cui variazione porta poi il brano verso il finale).
La
maestria strumentale dei Rush è tale che spesso, fra il pubblico non
anglofono, si tende a sottovalutare una delle loro componenti più
importanti, le parole. Firmati dal batterista Neil Peart, i testi
mescolano fantascienza, filosofia, visioni adolescenziali e sfoghi
sentimentali, in perfetto equilibrio fra ambizione, profondità e candore
(ingenuità, diranno i più perfidi, non fosse che si tratta di un
elemento molto spesso salutare per la musica rock).
Peart parte da un
poema dell'amico Pye Dubois e ne ottiene un inno all'individualismo, ma
ben distante dalla mera ribellione: "Sebbene la sua mente non sia in
affitto, non criticarlo come fosse arrogante. Il suo riserbo è una mite
difesa, mentre supera i fatti quotidiani". La persona arriva anzi a
definirsi soltanto in rapporto al proprio riflesso negli occhi degli
altri: "Il Tom Sawyer di oggi è pazzo di te, e invade lo spazio, ti
passa avanti".
Sono versi che dipingono con accuratezza i sentimenti
di Peart e il suo conflitto interiore. Da un lato la necessità di un
pensiero indipendente (già affrontata in "Freewill", da "Permanent
Waves"), dall'altro il calore - illusorio o meno che sia - che deriva
dal senso di appartenenza (argomento poi sviscerato in "Subdivisions",
da "Signals").
Il secondo brano è "Red Barchetta", scenario
distopico al contempo ironico e inquietante, ispirato da un racconto di
Richard S. Foster, dove utilizzare vecchie automobili è illegale. Il
protagonista si ritrova braccato quando decide di guidarne una per fare
una scampagnata, ma riesce a tornare sano e salvo a casa. Densi di
azione, gli eventi si riflettono perfettamente nella musica, che cambia a
getto continuo sia per velocità e andamento sia per sonorità. Lifeson
apre e chiude con delicati armonici, per poi alternare riff hard-rock e
secchi colpi di chitarra controsterzo di evidente ispirazione new wave. È
del resto dichiarata la sua stima nei confronti dei Police.
Influenzato invece da Chris Squire degli Yes,
Lee architetta una linea di basso mutante e melodica, mixata in maniera
piuttosto vistosa, e vi distende coltri di sintetizzatori nei momenti
più rilassati. La melodia vocale, più ariosa che mai, dimostra che la
vocazione da arena dei Rush non è stata sopraffatta dalle nuove
tendenze, anzi ne è uscita rinvigorita e giovane, proiettata verso il
futuro.
"YYZ", ispirata da un codice udito dalla band
nell'aeroporto di Toronto, è uno strumentale in tempi dispari, un
rompicapo di incastri ritmici e svolte improvvise. È uno dei rari brani
del gruppo in cui Lifeson non contribuisce alla composizione, tuttavia i
suoi riff metallici e il suo assolo orientaleggiante lo caratterizzano
quanto le coltri sintetiche di Lee e le micro-fratture della batteria di
Peart, sempre più spigolosa.
"Limelight", che potrebbe rappresentare
una versione evoluta del power pop, mostra la voce di Lee pulita e
malinconica, come a voler contrastare la tensione del testo, che
racconta le difficoltà di Peart nella gestione del successo ("In questo
improbabile ruolo, male equipaggiato per recitare, con poco tatto, uno
deve erigere barriere per rimanere intatto"). Nonostante possa sembrare
uno dei pezzi più lineari del disco, è in realtà uno dei più intricati,
alternando e sovrapponendo parti in 4/4, 3/4 e 6/8. Rappresenta uno
degli apici del mimetismo dei Rush e della loro capacità di far apparire
naturali strutture impensabili per la maggior parte delle altre band.
"The
Camera Eye", ad oggi l'ultimo loro brano sopra i dieci minuti di
durata, descrive le strade di New York e Londra e le sensazioni che le
attraversano, affastellando una moltitudine di temi e divagazioni, con
chitarre e sintetizzatori che sfoggiano ricami suggestivi e taglienti
assalti. C'è spazio per degli interventi ritmici di chitarra acustica,
mentre la sezione elettronica arriva per qualche istante a lambire la
musica da videogioco, facendone una delle loro creazioni più ricche a
livello timbrico. L'atmosfera è mediamente rarefatta durante le parti
cantate, mentre si indurisce nei tratti strumentali.
"Witch Hunt"
è l'inno che mette all'indice la paura della diversità, talmente
attuale che potrebbe essere stato scritto oggi. "Dicono che ci sono
stranieri che ci minacciano, i nostri immigrati e infedeli. Dicono che
c'è un'estraneità pericolosa nei nostri cinema e negli scaffali delle
nostre librerie. Coloro che sanno cosa sia meglio per noi devono alzarsi
e salvarci da noi stessi. Rapidi a giudicare, rapidi nella rabbia,
lenti a capire. Ignoranza e pregiudizio e paura camminano mano nella
mano".
Il messaggio viene propulso al passo di marcia, con Lee che si
scatena in un tripudio di tastiere e cori elettronici, mentre Peart
organizza in sottofondo un lavoro percussivo maniacale, ricorrendo a
gong, campane a vento, glockenspiel, conga, cowbell, effetti
elettronici, modificando i pezzi della batteria e in alcuni tratti
incidendo più volte la stessa linea per poi sovrapporre le diverse
versioni.
L'influenza del reggae, che aveva già fatto capolino in
"Permanent Waves", dilaga nella conclusiva "Vital Signs", che del resto
lancia definitivamente lo sguardo al futuro dei Rush e alla loro fase
new wave. Un sequencer accompagna in più tratti il brano con un frenetico gorgoglio di sedici note, mentre la drum machine
nel ponte che va da 0' 45" a 1' 15" è in realtà una normale batteria,
appositamente settata da Brown per ottenere quel suono plastico e
innaturale. Il pensiero dei Rush viene sigillato da Lee, che diafano
declama: "Ognuno ha bisogno di una polarità inversa, ognuno ha
sentimenti contrastanti sulla (propria?) funzione e sulla forma. Ognuno
deve elevarsi dalla norma".
I tre non sono mai stati
particolarmente simpatici ai critici vicini al cantautorato e al rock
classico, ma sono venerati come divinità da quelli di radice prog e
metal. Ci sono voluti più di quarant'anni prima che la rivista Rolling
Stone, nel giugno del 2015, concedesse loro la copertina, incoronandoli
come "geek gods". La loro musica va però ben oltre la rappresentazione
di quella categoria: qualunque sensibilità difforme dagli standard ha in
realtà qualcosa in comune con i Rush, tre ragazzi di provincia che
hanno sognato il successo e, una volta ottenutolo, lo hanno utilizzato
per cantare i sentimenti di chi si sente imprigionato dalla stessa
realtà che loro hanno saputo evadere.
Ecco perché hanno venduto
venticinque milioni di dischi nei soli Stati Uniti, facendo musica più
elaborata di chiunque altro abbia raggiunto simili risultati. Perché
oltre a essere strumentisti superbi sono stati portatori di un
messaggio, di una visione positiva e inclusiva, di cui nel 2016 sembra
ancora esserci bisogno.
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