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31/08/2020

Rete unica, oggi l’ok di Tim a FiberCop, inizia “l’ammucchiata”

Il giorno è dunque arrivato, oggi il cda di Tim con il beneplacito del governo vara il lancio di FiberCop, la società unica per la gestione della banda ultralarga in tutto il territorio nazionale.

Il miraggio della rete unica per la rete secondaria – il cosiddetto ultimo miglio dell’infrastruttura, quello che va dagli armadi sulle strade alle abitazioni – diviene realtà, portando con sé una sequela di società private (oltre a Tim stessa, Tiscali, Fastweb, il fondo statunitense Kkr, e poi Sky, Vodafone, Wind-Tre) che molti dubbi lascia sul ruolo che lo Stato possa andare a ricoprire nella nuova configurazione societaria. Ma andiamo con ordine.

Governo e Tim daccordo su FiberCop

La nascita di FiberCop era stata temporaneamente congelata dal governo all’inizio di agosto, quando con una lettera il ministro dell’economia Roberto Gualtieri e dello sviluppo economico Stefano Patuanelli avevano chiesto di posticipare l’operazione (che prevedeva l’entrata di Kkr e Fastweb nella società) all’ad di Tim Luigi Gubitosi, vista l’importanza del settore per gli interessi nazionali.

Da lì, giorni di intense trattative, con il governo che palesava l’intenzione di giocare un ruolo di peso nella nuova conformazione di un ambito come quello delle telecomunicazioni (tlc) decisivo per lo sviluppo, nonché per la sicurezza, dello stivale.

Fino al lasciapassare per il nuovo assetto nel vertice di giovedì, alla presenza dei pezzi pesanti del governo quali Conte, Gualtieri, Patuanelli, Pisano, Bonafede, Franceschini, Speranza, Orlando e Marattin, insieme all’ad di Cassa depositi e prestiti (Cdp) Fabrizio Palermo, in qualità di big per la parte pubblica dell’operazione.

Qual era il termine della contesa, quali gli attori in campo, e come è andata a finire? Un breve sguardo all’evoluzione degli ultimi anni aiuterà a districarsi meglio nella babilonia di attori che hanno avuto e avranno un ruolo nel futuro dell’internet (e non solo) del paese.

Una privatizzazione fallimentare

Come si sa, quello delle tlc è un capitalo delicatissimo della storia della Seconda repubblica, tristemente noto per essere stata la peggiore privatizzazione della follia neoliberale messa in atto a seguito della firma del Trattato di Maastricht.

La nascita di Telecom Italia e la sua completa privatizzazione, con l’entrata in borsa nella seconda metà degli anni Novanta, portano in dote una serie di gestioni, acquisizioni e passaggi di mano che hanno visto protagonista la “crema” dell'(im)prenditoria italiana, come la famiglia Agnelli, i Benetton, Franco Bernabè, Marco Tronchetti Provera, Generali, Mediobanca, ecc. Un disastro.

Il risultato è stato il cosiddetto “deficit originario”, ossia quello che ha impedito a buona parte del territorio di avere accesso a internet veloce, non essendo profittevole investire negli angoli remoti della penisola, con tutte le conseguenze in termini di diseguaglianze tecnologiche e di opportunità per chi non viveva in prossimità dei centri urbani (che fossero studenti, lavoratori o anche imprenditori).

Tim alla fine finisce in mano alla francese Vivendi (la stessa che vorrebbe impedire a Mediaset di fondare un polo televisivo europeo; per farlo essa stessa, s’intende...), società che detiene il 23% delle quote seguita da Cdp con il 9%. Cassa che tuttavia, nonostante sia la seconda azionista, non esprime nessun membro nel cda...

La nascita di Open Fiber

Per appianare queste diseguaglianze il governo Renzi dava alla luce nel 2015 Open Fiber, concorrente pubblico di Tim partecipata al 50% da Cdp (con evidente conflitto d’interessi con la partecipazione in Tim) e al 50% da Enel, di cui si sarebbero volute sfruttare le infrastrutture (tubi, pozzetti ecc.) per far arrivare la fibra lì dove si registrava il “fallimento del mercato”, ossia proprio quelle “aree bianche” dove a Tim non conveniva investire.

Il mantra della “concorrenza” avrebbe dovuto spingere Tim a non perdere quote di controllo della rete secondaria in favore di Open Fiber, ma né quest’ultima ha mantenuto la promessa di connettere con la fibra il resto del paese (anche se controllate dal Mef, Cdp e Enel sono infatti due S.p.a. – rispondono alla logica di mercato e quindi del profitto – e non possono perciò rendere un “servizio al paese” se questo non è remunerativo per il capitale investito), né Tim ha reagito come preventivato all’entrata del competitor.

La svolta con il Covid

La svolta arriva con il Covid, la necessità conclamata di colmare il gap con il resto del Vecchio continente e la possibilità di sfruttare i miliardi messi in palio dal Recovery Fund per la digitalizzazione del paese, funzionale allo smart working, allo sviluppo dell’industria 4.0, dell’intelligenza artificiale, dell’automazione, nonché – parole di Patuanelli, sabato su il Sole 24 Ore – al «5G e ai data center e server di prossimità», ossia il nocciolo della competizione tecnologica dei prossimi anni.

Un boccone ghiotto, ghiottissimo, perché offre la possibilità di acquisire quote di mercato nella gestione dell’infrastruttura che consente l’accesso a un numero di dati tanto sensibili quanto decisivi per la predizione dei comportamenti degli utenti, che nel modello di sviluppo attuale significano sia possibilità di profitti (anticipare o convogliare le “esigenze” del consumatore), sia capacità di controllo.

Non sorprendeva dunque la volontà del governo di avere una parola nell’assetto della nuova società, così come la lista degli interessati all’investimento, preoccupati tuttavia – questi ultimi – che il nuovo veicolo risultasse di fatto “indipendente” sia dall’ingerenza dello Stato, sia dal controllo di Tim in quanto azionista maggioritario.

Per il primo, il caso Autostrade avrebbe potuto far dormire sonni tranquilli ai vari Kkr, Tiscali ecc., mentre quelli di Alitalia o dell’Ilva sono ben lontani dal rappresentare il ritorno dello Stato nell’economia, come ammesso dall’inquilino del Mise sempre nell’intervista a il Sole.

Ma la levata di scudi dei paladini della “libertà d’impresa”, come Franco Debenedetti, sono comunque funzionali affinché venga seppellito in partenza ogni minimo accenno a un pensiero-altro rispetto a quello neoliberista.

La soluzione trovata nel caldo di agosto prevederebbe perciò l’ok del governo al trasferimento in FiberCop della rete secondaria di Tim, la partecipazione del fondo Kkr Infrastructure e le attività di FlashFiber (la joint-venture tra Tim e Fastweb), con il successivo convogliamento di Open Fiber che permetterebbe a Tiscali la migrazione dei propri clienti sulla rete di FiberCop (ora su Open Fiber) e la possibilità di un eventuale ingresso nell’azionariato di FiberCop stessa.

Per Open Fiber, stando alle ultime, Enel potrebbe cedere fino al 10% delle sue quote a Cdp e il restante al fondo australiano Macquaire, dando alla Cassa (che ricordiamo ha anche il 9% in Tim) un ruolo rilevante nella governance del nuovo veicolo.

Governance pubblica o indipendenza strategica?

Se “la regia statale degli investimenti” è lo slogan con cui il governo ha salutato con favore il possibile accordo, d’altra parte Gualtieri, Patuanelli e lo stesso Palermo tengono a sottolineare «l’indipendenza strategica e operativa della nuova società», ossia a tranquillizzare i mercati che saranno i loro appetiti a indirizzare le scelte d’investimento.

Ma delle due l’una, o si privilegiano i bisogni della popolazione o si staccano le cedole per l’azionista di turno. La storia delle tlc nostrane insegnano questo, tertium non datur. Aldilà della retorica governativa, le parole di apprezzamento al progetto e possibilità di coinvolgimento espresse dagli AD di Sky, Vodafone e Wind-Tre fanno propendere decisamente per la seconda.

E anche se la risposta definitiva si avrà solo alla nomina del cda (quello di Tim non è un precedente incoraggiante), a ora più che la semi-nazionalizzazione di un settore strategico, sembra più un’ammucchiata privatissima con Tim in testa (tanto da far dire al renziano Anzaldi che Tim ha «un po’ troppa influenza su alcuni settori del governo») per la corsa all’oro del XXI secolo, i big data.

Il fondo statunitense Kkr

A questo proposito, un’ultima nota su Kkr. La Kohlberg Kravis Roberts & Co. è un operatore internazionale di private equity che gestisce investimenti per più di 150 miliardi di dollari, dove uno dei fondatori – Henry Kravis – è un “filantropo” repubblicano finanziatore delle campagne elettorali di George W. Bush, John McCain e ultimo Donald Trump.

Inoltre, il presidente del Kkr Global Institute, sezione d’analisi fondata nel 2013, è il Generale ed ex-direttore della Cia David Petraeus. L’istituto ha il compito di studiare le implicazioni macroeconomiche, sociali e geopolitiche degli investimenti della società, in particolare per quelli nelle nuove aree geografiche (Reuters).

Nella feroce competizione interimperialistica odierna, non proprio il partner ideale. Com’era la storia della “regia statale”?

Fonte

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