di Michele Giorgio – Il Manifesto
I media di Abu Dhabi e Dubai ieri hanno celebrato con orgoglio le foto di Giove e
Saturno inviate dalla sonda emiratina “Hope” che ha percorso i primi 100
km del suo viaggio verso Marte. Presto in ossequio a Mohammed bin
Zayed, principe ereditario e reggente, esalteranno l’acquisto da parte
degli Emirati di caccia di produzione statunitense F-35, i più avanzati
al mondo.
A confermarlo indirettamente è stato ieri il segretario di
stato Usa Mike Pompeo proprio mentre a Gerusalemme si affannava a
spiegare che la vendita ad Abu Dhabi degli F-35 – in possesso solo di
Israele in Medio oriente – non è stata ancora definita e non rientra nel
quadro degli accordi di normalizzazione tra Israele ed Emirati. Ma si
farà. Perché questa è una delle condizioni non scritte più importanti
poste da Mohammed Bin Zayed per il via libera ai rapporti alla
luce del sole con lo Stato ebraico e per dimenticare i diritti dei
palestinesi. Abu Dhabi, forte dell’alleanza con Israele, punta ad essere
la potenza regionale araba a scapito dei cugini-rivali dell’Arabia Saudita. E ha bisogno degli F-35.
Il governo israeliano si era agitato. Netanyahu si è
ritrovato sotto accusa per aver dato la sua tacita approvazione alla
vendita degli aerei ai nuovi alleati nel Golfo – però continua a negarlo
– senza aver prima consultato almeno il ministro della difesa Benny
Gantz. Pompeo si è precipitato a Gerusalemme. Ha detto che gli
Stati Uniti troveranno un modo per bilanciare l’aiuto agli Emirati senza
che ci siano ripercussioni per Israele.
Tel Aviv continuerà a godere, grazie alle armi di Washington – pagate
in buona parte con i soldi del contribuente statunitense – di una netta
superiorità militare nella regione mediorientale. «Gli Stati Uniti
hanno un impegno giuridico» nei confronti di Israele «e continueranno a
rispettarlo», ha ricordato Pompeo facendo riferimento alla legge voluta
dal Congresso che condiziona all’approvazione di Israele le vendite di
armi americane ai paesi arabi (e non solo), anche quelli che sono
alleati e collaborano attivamente con Tel Aviv.
Allo stesso tempo il segretario di stato ha fatto capire che
ci sono anche gli Emirati con cui gli Usa «hanno rapporti in materia di
sicurezza da oltre 20 anni... ai quali – ha spiegato – abbiamo fornito
assistenza tecnica e militare... e continueremo ad accertarci di fornire
loro ciò di cui hanno bisogno per mettere al sicuro e difendere la
propria gente dalla minaccia (iraniana)». In sostanza ci sono
in ballo anche i miliardi di dollari che gli Emirati sono pronti a
spendere per avere gli F-35 e Tel Aviv deve mostrare un po’ di
flessibilità.
Gli Usa ora parlano di nuovi importanti sviluppi diplomatici. «Spero
davvero di vedere altri paesi arabi unirsi a tutto questo», ha detto
Pompeo riferendosi all’accordo Israele-Emirati. «Per gli arabi – ha
detto – è l’occasione di lavorare fianco a fianco, di riconoscere lo
Stato di Israele... e di rafforzare la stabilità in Medio Oriente e
migliorare la vita delle persone».
Washington ora preme sull’Arabia Saudita, vuole una decisione
in tempi stretti. Ma da Riyadh arrivano pochi segnali. Negli ultimi
due-tre anni i Saud erano apparsi i più pronti all’accordo con Israele.
Invece, dopo il passo fatto da Abu Dhabi, Mohammed bin Salman, erede al
trono saudita, ha preso male la love story tra Emirati e Israele
e ha tirato il freno a mano. Come d’incanto si è ricordato dei diritti
dei palestinesi che proprio lui aveva totalmente messo da parte. Quindi
ha fatto sapere che, senza lo Stato palestinese, Riyadh non firmerà
alcun accordo.
Più semplice il caso del Bahrain, una delle tappe del tour di Pompeo,
assieme a Sudan e, appunto, Emirati. Re Hamad, si dice, a Manama
comunicherà a Pompeo la sua decisione definitiva sui tempi della
normalizzazione con Israele. E altrettanto forse farà il Sudan dove si è
recato il capo del Mossad, Yossi Cohen, il vero artefice dell’accordo
tra Emirati e Israele.
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