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di Andrea CrisantiIn Italia durante le ultime due settimane il numero di persone positive al test per il coronavirus è aumentato di giorno in giorno fino a sfiorare questa settimana la soglia di 1.500 casi (clicca qui per tutti i dati e le mappe). Questa ripresa della trasmissione virale che interessa tutto il territorio nazionale sembra sia alimentata da comportamenti di socializzazione diffusi prevalentemente tra i giovani (ma non solo) e da casi di importazione. Il virus si diffonde sfruttando il comportamento sociale dei singoli: più persone si incontrano e più aumenta la probabilità di infettarsi. È successo a chi ha frequentato assiduamente luoghi affollati e discoteche senza adottare precauzioni. Ora abbiamo raggiunto lo stesso numero di casi che leggevamo con apprensione nel bollettino della Protezione civile quando sotto l’onda d’urto di centinaia di morti al giorno è stato decretato il lockdown su scala nazionale. Questa ripresa della trasmissione presenta tuttavia delle differenze rispetto a quanto abbiamo osservato durante i terribili mesi di febbraio, marzo e aprile (è sotto gli occhi di tutti): la maggior parte delle persone infette sono giovani in grande maggioranza asintomatici o con sintomatologia molto lieve. E, cosa confortante, il numero delle persone ricoverate nei reparti Covid e rianimazione aumenta di poche unità al giorno senza mettere sotto pressione il sistema sanitario. La comunità scientifica, i media e tutti gli italiani si chiedono cosa stia succedendo. Autorevoli scienziati argomentano che il virus sia mutato, si sia indebolito e che dunque l’emergenza sia finita. Altri raccomandano prudenza e incoraggiano a non abbassare la guardia e giustificano invece lo stato di emergenza. I numeri dei pazienti ricoverati in rianimazione e le persone che purtroppo ancora muoiono di Covid-19 sono diventati vessilli di opposte fazioni scientifiche e politiche.
L’analisi
Analizzando i dati e le conoscenze che abbiamo acquisito fino a ora ritengo sia possibile fornire una spiegazione equilibrata e coerente della situazione che promuova un dibattito costruttivo sulle misure da adottare tutti insieme per convivere con il virus in attesa di un possibile vaccino. Ripartiamo dal numero dei casi accertati (1.492) nel giorno in cui l’Italia è entrata in lockdown e facciamo uno sforzo di memoria: i reagenti per i tamponi scarseggiavano, i test venivano eseguiti solo su persone ricoverate in ospedale che versavano in gravi condizioni e molti malati rimanevano a casa senza cure e diagnosi. Nessuna traccia allora degli asintomatici la cui presenza e contributo alla trasmissione era negata con vigore da tutte le autorità sanitarie. Tutti ora concordano che quei numeri erano una drammatica sottostima della realtà.
Prima di trarre conclusioni, basate sul confronto tra i numeri dei casi in questi giorni con quelli registrati durante i giorni più bui della pandemia, e affermare che il virus sia mutato o diventato «più buono» (anzi i dati che giungono dal resto del mondo suggeriscono che Covid-19 mantenga tutta la sua pericolosità) dobbiamo quindi cercare di ricostruire quanti erano effettivamente i casi in Italia durante le prime settimane della pandemia. Ci aiuta in questo esercizio l’indagine sierologica condotta recentemente dall’Istat su tutto il territorio nazionale che non ha avuto a mio avviso la risonanza mediatica e scientifica che meritava. Apprendiamo da questa analisi che i casi di Covid-19 in Italia sono stati complessivamente 1 milione e 482 mila, cifra ben superiore al numero di casi accertati (265 mila). Poiché circa il 70% dei casi accertati con tampone è stato registrato nel periodo che va dal 22 febbraio al 3 aprile si può, utilizzando i dati dell’Istat, calcolare che durante quei 40 giorni in Italia ci siano stati circa 1 milione e 40 mila casi di infezione (il 70% di un milione e 482 mila) che corrisponde a 26 mila casi al giorno. Nella fase attuale, consapevoli del fatto che le persone infette possano essere asintomatiche o presentare una sintomatologia lieve, si eseguono test a persone che prima sarebbero state trascurate e quindi i dati sono molto più rappresentativi della reale trasmissione del virus. A questo punto i conti tornano. I casi di questi giorni sono circa dalle 15 alle 20 volte inferiori a quelli delle prime settimane della pandemia, calcolati tenendo conto del contributo degli asintomatici e dei casi lievi. Se moltiplichiamo i numeri di ricoverati in terapia intensiva e i morti giornalieri di questi giorni per 15 ci avviciniamo ai valori di febbraio-marzo. Altro elemento da considerare è che gli anziani hanno adottato comportamenti molto prudenti per evitare la trasmissione e allo stesso tempo le case di riposo sono oggetto di misure molto più rigorose. Anche l’osservazione che l’età media si sia abbassata è un fenomeno apparente non riconducibile alle caratteristiche genetiche e biologiche del virus. I risultati dell’indagine sierologica dell’Istat hanno messo infatti in evidenza come durante la fase acuta dell’epidemia circa il 70% dei casi interessasse persone sotto i 59 anni.
La soglia di rottura
Il ritardo della trasmissione osservata nel nostro Paese rispetto alle nazioni limitrofe è invece con tutta probabilità da attribuire alla rimozione graduale delle misure di distanziamento adottate dall’Italia. Questo ci pone in una situazione di privilegio poiché ci consente di vedere in anticipo cosa potrebbe accadere da noi nelle prossime settimane. Se i casi dovessero aumentare al ritmo osservato potremmo raggiungere nel giro di poche settimane i numeri di Spagna e Francia. La ripresa delle attività lavorative, l’inizio delle scuole, l’importante appuntamento elettorale, nonché l’inizio della stagione autunnale inevitabilmente creeranno interazioni tra persone che il virus utilizzerà per diffondersi. È fondamentale perciò tenere l’attuale equilibrio dei numeri il più basso possibile, perché se si raggiunge la soglia di rottura, con il numero dei casi che eccede la capacità di risposta del sistema sanitario, l’unica opzione disponibile rimane il lockdown che, vista la situazione economica, rimane una scelta estrema. Il punto di rottura dell’equilibrio si può evitare spiegando alle persone con onestà quello che stiamo vivendo e incentivando comportamenti virtuosi. Tuttavia questo non basta.
La proposta
Il grande problema nel contrastare la diffusione del virus è la elevata frequenza di soggetti asintomatici che possono inconsapevolmente trasmettere l’infezione. L’identificazione degli asintomatici è proprio la sfida che abbiamo davanti per evitare che i casi aumentino vertiginosamente fino al punto di rottura. Mi preme qui ricordare che sempre a Vo’ il virus il 27 febbraio aveva già infettato il 5% della popolazione prima di creare casi clinici sintomatici. L’identificazione sistematica degli asintomatici attraverso l’uso massiccio ma mirato di tamponi è stata la chiave del successo del Veneto. In questo momento le regioni tutte assieme possono al massimo raggiungere la capacità di effettuare circa 90 mila tamponi, picco che viene raggiunto occasionalmente e che non è sufficiente a far fronte alla domanda di test che ci sarà. È dunque questa urgenza che mi ha indotto a presentare, su invito di alcuni membri del governo, un piano che conduca a incrementare, fino a quadruplicare su scala nazionale, la capacità di fare tamponi superando le barriere e divisioni regionali che hanno generato una insensata panoplia di iniziative e adozioni tecnologiche che sicuramente generano confusione e in alcuni casi sono controproducenti.
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