Numeri da giocare al Lotto o simili. Sicuramente qualcuno lo farà in Colombia, Paese scaramantico per eccellenza. Si tratta infatti del numero attribuito a un galeotto molto speciale, l’ex presidente della Repubblica Alvaro Uribe, dai primi giorni di agosto associato alle patrie galere e poi inviato agli arresti domiciliari per subornazione di testimoni e frode processuale.
Si tratta di gravi delitti contro l’amministrazione della giustizia che ne nascondono probabilmente di ancora più gravi, legati al sostegno del paramilitarismo e ai crimini contro l’umanità (che in Colombia continuano a compiersi) cui lo stesso Uribe fece ricorso durante il suo mandato presidenziale, nel fallito tentativo di vincere militarmente la pluridecennale guerra contro la guerriglia comunista delle Fuerzas armadas revolucionarias de Colombia.
Ebbi modo di visitare sette volte la Colombia proprio negli anni del mandato di Uribe, che era solito lanciare proclami radiofonici contro le FARC, mentre le truppe si dedicavano a “bonificare” le zone ritenute più propense ad appoggiare la guerriglia, che in Colombia ha antiche tradizioni, nascendo soprattutto dalle aspirazioni di giustizia e benessere dei contadini, sempre bistrattati e violentemente oppressi.
Vi furono, prima dell’avvento di Uribe, vari tentativi di giungere a una soluzione pacifica e negoziata di questo antico conflitto, che naufragarono purtroppo per varie ragioni. Rilanciando la “soluzione finale” contro la guerriglia Uribe puntò, oltre che sull’esercito e sulle forze dell’ordine, su formazioni paramilitari composte da delinquenti comuni spesso legati al narcotraffico.
Il processo che ha portato recentemente al suo arresto nasce proprio dalla denuncia, fatta da due ex paramilitari, della fondazione della loro banda, il Bloque Metro, avvenuta nell’azienda agricola della famiglia Uribe chiamata Guarachaca.
Per difendersi da tale accusa Uribe denunciò a sua volta il deputato comunista, Ivan Cepeda, figlio di un sindacalista ucciso, che aveva chiamato a testimoniare i due ex paramilitari, sostenendo che avesse manipolato le testimonianze, esercitando pressioni indebite sui due.
La Corte suprema, però, appurò che era vero proprio l’opposto. Era stato Uribe a tentare di comprare il silenzio dei due paramilitari. Da qui la decisione di procedere al suo arresto.
Una decisione giusta e importante, che va decisamente controcorrente in un’America Latina dove, su ispirazione di determinati circoli del potere statunitense, si va utilizzando da qualche anno il lawfare, sorta di perversione della giustizia a fini politici, che ha avuto come vittima più illustre il presidente brasiliano Lula, detenuto per inesistenti episodi di corruzione inventati di sana pianta dall’impresa Odebrecht ed avallati da determinati magistrati, quali soprattutto il giudice Moro, poi nominato ministro della giustizia da Bolsonaro e in seguito dimessosi dalla carica.
Quando la giustizia fa il suo dovere, la destra al potere leva ovviamente alte grida, denunciandone la presunta politicizzazione. Così è avvenuto in Colombia, dove a lamentarsi della giustizia “politicizzata” è stato l’attuale presidente Duque, unanimemente ritenuto il delfino di Uribe, che continua ad essere uno dei personaggi politicamente più influenti del Paese.
Non è quindi per nulla casuale che il processo di pace tra FARC e governo, riavviato per l’ennesima volta dopo gli accordi di pace raggiunti all’Avana nell’ottobre del 2016 e successivamente ratificati dal Congresso colombiano, sia in fase di stallo, mentre sono riprese su larga scala le uccisioni di leader popolari ed ex guerriglieri smobilitati.
Uribe, contro il quale pende anche un procedimento di fronte alla Corte penale internazionale, ancora in fase preliminare, costituisce con ogni evidenza un ostacolo grosso come una casa al rinnovamento e alla pacificazione della Colombia. Bisogna quindi augurarsi che resti detenuto a lungo, ma essere altresì consapevoli che le forze fondamentali per dare vita a una nuova Colombia, umana, giusta e sostenibile sono soprattutto quelle sociali, che rappresentano le istanze di un popolo lavoratore multietnico e generoso martoriato dalla fame, dallo sfruttamento, dalla repressione ed ora anche dal COVID.
La richiesta è anche quella di verità e giustizia sui crimini dei paramilitari e del cosiddetto uribismo, compresi quelli compiuti negli ultimi anni, tra le vittime dei quali dobbiamo annoverare anche il nostro connazionale Mario Paciolla, ucciso nell’adempimento del suo dovere di funzionario delle Nazioni Unite e combattente irriducibile per la pace.
Nel frattempo un altro testimone importante – paramilitare, mafioso e narcotrafficante – quale è Salvatore Mancuso, attualmente detenuto negli Stati Uniti, potrebbe rendere importanti dichiarazioni. E’ stato richiesto sia dalla Colombia sia dalla Direzione antimafia italiana. Fare chiarezza sulle responsabilità politiche e penali di Uribe è dunque importante anche per riaprire il discorso sul futuro della Colombia, oggi in preda al COVID e agli omicidi politici e ridotta ad avamposto dell’Impero statunitense in funzione antivenezuelana.
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