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20/08/2020

Tutto il potere ai mercati, dunque a Draghi

Dietro il discorso di Draghi al meeting di Cielle c’è una realtà che va conosciuta e capita per bene, altrimenti si fanno chiacchiere sulla base di “sentito dire” o, peggio ancora, del “mi piace/non mi piace”.

Molti editorialisti si sono concentrati sull’ennesima “innovazione lessicale” dell’ex governatore di Banca d’Italia e Bce (e anche ex vice-presidente di Goldman Sachs, a voler essere un po’ informati): la distinzione tra “debito buono”, impiegato per investimenti e formazione, e “debito cattivo” finalizzato a “sussidi”.

Sembra un’ovvietà, come molte altre innovazioni lessicali. Ma il contesto finanziario occidentale in cui questa distinzione viene ricordata le conferisce un significato concreto, anche politicamente rilevante: i mercati compreranno di preferenza i titoli di Stato emessi da quei Paesi che faranno debito del primo tipo, e puniranno quelli che sussidiano le fasce deboli della popolazione impoverite o azzerate dalla crisi.

Non è una nostra interpretazione maligna, ma una semplice constatazione che possiamo trovare anche in autorevoli editoriali di testate specializzate in finanza (il sempre preciso Guido Salerno Aletta...).

I termini strutturali del problema sono questi:

a) gli Stati, nell’epoca neoliberista del capitalismo occidentale, sono stati privati del potere di “stampare moneta”, trasformando le banche centrali in istituzioni “indipendenti” dal potere politico. L’Italia in questo è stata all’avanguardia, visto che già nel 1981, il ministro del Tesoro Beniamino Andreatta (il maestro di Prodi e tanti altri), decretò la separazione tra il suo ministero e la Banca d’Italia. Di fatto, quest’ultima non poteva più partecipare alle aste di collocamento dei titoli di Stato, e quindi il nuovo debito pubblico (o il rifinanziamento di quello vecchio) poteva essere finanziato solo dai “mercati”. I quali pretendevano una remunerazione maggiore, facendo scendere il prezzo di quei titoli e aumentando perciò la spesa pubblica in interessi. La motivazione va ricordata: siccome i governi d’allora “spendevano troppo”, si disse che in questo modo sarebbero stati costretti ad essere più “austeri”, a limitare la spesa. Piccola nota: allora il rapporto debito/Pil era intorno al 60%...

b) ma gli Stati, oltre alle normali spese istituzionali (amministrazione pubblica, esercito, polizie, sanità, istruzione, welfare, ecc.), in caso di crisi debbono comunque garantire una rilevante copertura delle perdite generate dal settore privato. È avvenuto nel 2008-2009, sta accadendo ora su scala mondiale. Per fare questo, non potendo “stampare moneta”, debbono indebitarsi chiedendo prestiti ai “mercati”. Ossia ai grandi investitori professionali, come banche d’affari, assicurazioni, fondi di investimento, ecc.

c) la moneta, in caso di crisi, viene creata dal nulla dalle banche centrali (Federal Reserve, Bce, Bank of England, ecc.), ma non può essere girata agli Stati. Solo i grandi “investitori professionali” possono ottenerla, “vendendo” a prezzo intero alle banche centrali i titoli in loro possesso (di Stato o privati, come azioni, prodotti derivati, ecc.) che a causa della crisi non valgono più nulla. Con il quantitive easing delle banche centrali, in altre parole, si “salva il sistema finanziario privato” ossia gli investitori professionali – sostituendo carta straccia con nuova moneta creata dal nulla.

d) con quella moneta “i mercati” comprano il nuovo debito pubblico che gli Stati (o addirittura l’Unione Europea, per la prima volta con il solo Recovery Fund) sono costretti ad emettere per salvare il sistema delle imprese a rischio fallimento.

e) ma il debito fatto dagli Stati dovrà essere ripagato. E poiché gli Stati, in epoca neoliberista, non possono più far conto su un sistema di imprese pubbliche che genera profitti, quel debito dovrà essere “onorato” spremendo le rispettive popolazioni. Cosa che si può fare solo aumentando le tasse, vendendo patrimonio pubblico (imprese, immobili, terreni, monumenti, ecc) e/o tagliando la spesa pubblica “improduttiva”; ossia sanità, istruzione, pensioni, assegni sociali, edilizia pubblica, ecc. È la storia degli ultimi 40 anni...

Dov’è la novità?

Con la pandemia da Covid-19 la scala di intervento richiesta agli Stati diventa tale che non si può più “agire col bisturi” sulla spesa pubblica, tagliando qualcosina qui, un po’ di più lì, rinviando questo o anticipando quello. Ora serve la scure.

Perché tutto il poco che c’è dev’essere dato al sistema delle imprese, per definizione descritto come l’unico che può “creare ricchezza, lavoro, occupazione” (non è vero e proprio la storia dell’economia mista italiana lo dimostra, ma con l’ideologia neoliberista non si discute).

E qui torniamo alla distinzione di Draghi tra debito buono e debito cattivo. La spesa per sostenere il sistema privato è “buona”, quella per i servizi o i “sussidi” alla popolazione è “cattiva”.

A deciderlo non è né una teoria macroeconomica, né un’istituzione politica superiore. Sono soltanto i mercati, che comprano già ora e compreranno titoli degli Stati a seconda di come questi spendono i propri soldi. Quelli che pensano anche in qualche misura (pur minima) alla popolazione saranno “schifati”, dunque sarà lasciato salire lo spread, avranno un voto sempre più basso dalle agenzie di rating (poche, tutte statunitensi e controllate dagli “investitori professionali”). Fino al disastro economico e sociale.

Di fatto, “i mercati” commissariano le politiche dei governi, subordinandoli.

Detta così, però, i colpevoli sarebbero presto individuati anche dalle popolazioni meno avvedute (con dei rappresentanti politici non tutti completamente venduti). Serve una strategia di comunicazione che “distragga” l’attenzione pubblica, dirottandola verso altri nemici.

Sappiamo per esperienza che oltre 30 anni di “politiche per favorire i giovani” hanno creato semplicemente un mercato del lavoro senza più diritti, con salari bassi, pensioni sempre più tardive e assegni da fame; una sanità semi-privatizzata (quando va bene), un’istruzione ridotta a quiz Invalsi, analfabetismo funzionale e ripresa dell’emigrazione, ecc.

I “giovani” degli anni ‘90, quelli che dovevano beneficiare di quelle politiche, stanno ora avvicinandosi alla pensione come al patibolo. E per quelli che sono giovani oggi andrà ancora peggio.

Ma proprio su questo tasto, per quanto logorato, torna a battere uno dei portavoce più autorevoli dei “mercati”, Mario Draghi.

Che vuol dire? Che le risorse esistenti – la spesa pubblica ordinaria – andranno spostate dal welfare ad altri obbiettivi, genericamente definiti “per la crescita e dunque per i giovani”.

Significa che le pensioni in essere dovranno essere ridotte, come avvenuto in Grecia dal 2015 in poi. Che tutto dovrà essere destinato a supportare le imprese (azzerando contributi previdenziali e imposte varie, costruendo infrastrutture che servono solo a chi le mette in piedi con i soldi pubblici, come il Tav in Valsusa o addirittura il “tunnel dello Stretto”, ecc).

Aspettiamoci quindi un ritorno alla grande del “conflitto generazionale”, con i giovani incitati a scagliarsi contro “i privilegi degli anziani” (padri e nonni che li mantengono, spesso, con le loro pensioni e salari decenti strappati a morsi in un’altra epoca).

Questo è chiamato a fare Draghi. Con l’appoggio integrale di tutte le “forze politiche” presenti in Parlamento.

La novità, insomma, sta nel fatto che il capitale finanziario, ossia “i mercati”, pretende il controllo diretto delle istituzioni politiche.

In nome della “democrazia”, naturalmente...

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