di Francisco Soriano
Quando ascoltai per la prima volta Strange Fruit fu alla
radio, durante un lungo viaggio notturno. Quella voce mi avvolse e
rimasi come impigliato nel vortice bianco della spirale di una
conchiglia.
Southern trees bear a strange fruit, / blood on the leaves and
blood at the root, / black body swinging in the Southern breeze, / strange
fruit hanging from the poplar trees: è l’orrore dello strano frutto penzolante, la memoria di una sopraffazione e dell’ingiustizia subita da un popolo intero.
Eleanor Fagan conosciuta come Billie Holiday era di Baltimora e
nasceva il 7 aprile del 1915. Suo padre Clarence era un chitarrista
molto conosciuto nel giro dei musicisti jazz. La madre Sadie Fagan si
guadagnava da vivere come cameriera al servizio delle ricche famiglie
dell’America bianca. I genitori concepirono Eleanor da giovanissimi:
erano gli anni a ridosso della grande depressione del 1929, dei giorni
bui del Ku Klux Klan e della morte incolmabile di uno dei più
grandi pensatori afroamericani avvenuta nel 1915: Booker T. Washington.
Fu nel 1928 che Eleanor lasciò Baltimora per raggiungere la madre a New
York, nel ghetto di Harlem in situazioni di grave disagio sociale. Negli
anni precedenti al suo primo viaggio a New York, Eleanor viveva di
stenti e povertà, con la madre che andava in giro a cercare lavoro come
domestica, altre volte costretta a prostituirsi perché non c’era da
mangiare. Eleanor visse sempre fra drammi familiari durante una infanzia
terribile connotata anche da uno stupro. Ormai divenuta donna visse
soprattutto ad Harlem, un quartiere povero ma caratterizzato da una
notevole vivacità artistica e musicale: un periodo storico
soprannominato Harlem Renaissance. Infatti, Harlem era la sede
del Cotton Club dove, fino al 1931, si esibiva il gigante del Jazz, il
genio del nuovo genere musicale di allora, Duke Ellington. Nel 1920,
Harlem accoglieva nelle sue abitazioni fatiscenti circa duecentomila
neri e un numero cospicuo di cittadini stranieri. Non vi erano servizi
igienici e, visto che i bianchi non volevano case senza bagni, queste
ultime venivano affittate ai neri che, nel tempo, allargarono il
quartiere fino ad arrivare ai confini di Central Park. In
America, nell’idea di ghetto e come spazio marginale per poveri e
immigrati, vi rientrarono molte etnie: c’erano anche le popolazioni latine, come quella composta da portoricani nella Spanish Harlem e da italiani nella parte denominata Italian Harlem.
Harlem era un po’ il ventre vivo di New York, una città nella città
dove risiedevano delinquenti comuni e prostitute, sventurati di diversa
origine, ogni tipo di locale, pittoreschi mercati dove i bianchi
facevano la spesa, proprio come capitava in Europa in alcune grandi
metropoli popolate da diverse etnie. In un’America che cresceva a
dismisura e cominciava la sua storia moderna, i neri hanno rappresentato
impulso e parte rilevante di questa narrazione di progresso. Harlem era
il quartiere dove artisti e intellettuali talentuosi attingevano la
loro creatività proprio dalla condizione sociale, dal disagio e dalla
discriminazione. Idee e soluzioni artistiche erano dunque figlie di
quel melting pot che ha caratterizzato molto spesso il meglio
della storia artistica degli USA. Nasceva dunque quella borghesia nera,
forse insopportabile ai suprematisti bianchi: in parte rappresenterà la
rivincita e il vero affrancamento dall’uomo bianco. Queste
importantissime trasformazioni si fecero sentire anche nel modo di
concepire questa musica, partorita in origine dagli schiavi neri e dalla
loro condizione umana di violenze subite: già negli anni
Venti, Fletcher Henderson, borghese nero che aveva studiato alla Atlantic University di
Atlanta, eseguiva nella sua orchestra brani consoni alla moda
newyorkese rendendo le sue composizioni più complesse e colte,
distaccandosi perentoriamente da quell’idea di jazz fatto solo di
improvvisazione e istinto. Questi artisti suonavano musica scritta ben
arrangiata, facendo da cornice ai grandi leaders come
Armstrong, Coleman Hawkins, Benny Carter e Tommy Ladnier. Non che questi
musicisti avessero chiuso con il loro retaggio, la memoria delle
sofferenze e dei linciaggi che, si badi bene, continuavano a discapito
dei neri, ma finalmente cominciava a capovolgersi lo schema
dell’improvvisazione tout court. Si voleva concepire un sistema
musicale più strutturato che non abiurava alla creatività ma voleva
assicurare più dignità e complessità a un genere musicale che diverrà
parte effettiva della storia di un Paese. Si cercava di superare la
polifonia disordinata di New Orleans, scegliendo un sistema musicale che
avrebbe condotto dritto fino al genio compositivo e orchestrale di Duke
Ellington e l’incommensurabile, quanto ombroso, Billy Strayhorn. Fu un
percorso straordinario che andava di pari passo con le trasformazioni
sociali, veloci e caratterizzanti lo spirito del popolo afroamericano.
Nella musica, l’era swing ne rappresenterà la controprova: fu l’abile
mescolare di culture diverse e linguaggi che rappresentò integrazione e
inclusione di un popolo a cui si deve riconoscere la tragedia di un vero
e proprio Olocausto.
Lo stesso Federico Garcìa Lorca definirà il sobborgo di Harlem come un gran rey prisongiero en un traje de conserje,
che produsse non solo spettacolo ed eterea luminosità, ma propose anche
cultura e jazz. Alla radice di questo fenomeno, il blues ha sempre
rappresentato una condizione spirituale, una risposta a un sistema che
non riconosceva un ruolo e una identità al popolo degli afroamericani.
Una musica che era la pelle di un popolo sofferente: un canto
assolutamente aderente alla realtà e al quotidiano che si lamentava ma,
nello stesso tempo, urlava e si ribellava. Famoso rimane uno dei blues
più antichi ed eloquenti nelle parole, nella condizione degli
afro-americani, cantato da Antony Dawson, nel 1832: Corri negro, corri, la pattuglia arriva... Si
narrava una delle più normali situazioni in cui si trovavano gli
schiavi che fuggivano dai loro padroni e aguzzini rischiando la propria
vita. Le vittime venivano perseguitate in una vera e propria battuta di
caccia all’uomo, ricercati dalle famigerate pattuglie pagate dai padroni
che si catapultavano nei villaggi per punire i neri anche per futili
motivi, bastonandoli e torturandoli al fine di instillare il terrore
necessario per educarli all’ubbidienza.
Il genere blues e, più in
generale il jazz, rappresentano un fenomeno culturale originalissimo e
troppo importante per essere trascurato nello studio della storia degli
USA. Milioni di schiavi hanno raccontato la loro vita registrando le
loro storie in canzoni e musiche incise su dischi e il blues era lo
stato d’animo che rappresentava al meglio la malinconia, il lamento
dello uno sfruttato. Sono di Paul Oliver le descrizioni più essenziali
per spiegare i contenuti e le forme di questa meravigliosa musica: Nel
blues il testo poetico è composto su una struttura di dodici battute;
le parole di ogni verso ne occupano circa due e le battute che restano
libere alla fine sono occupate da improvvisazioni strumentali. Il primo disco di Blues fu di Mamie Smith, Crazy Blues, e
fu così amato che al mercato nero le copie del disco raggiunsero tre
volte il loro prezzo. Le prime cantanti di successo, prima di Billie
Holiday, furono donne: Gertrude “Ma” Rainey ad esempio, fu interprete
strepitosa delle malinconie personali e quelle di un popolo
discriminato. Ebbe una grande allieva, Bessie Smith, amatissima da
Billie Holiday, così importante artisticamente da trarne sempre
ispirazione. Bessie fu ingaggiata come cantante bambina da Will “Pa”
Rainey e da sua moglie Gertrude, gestori del gruppo Rabbit Foot Ministrels, che avevano come repertorio hokum accompagnati
dal banjo, canti da circo e spettacoli carnevaleschi, pezzi sonori
della tradizione, danze e blues. Ebbe così inizio la carriera della più
grande cantante di Blues.
Eleanor, per vivere, fu coinvolta, quasi bambina, nel giro della prostituzione. Harlem pullulava di daughter of joy institution,
le case di tolleranza gestite da bianchi. La carriera della giovane
Holiday cominciò fra i drammi familiari: fame e freddo la facevano da
padrone nella 145° strada, dove abitava in una casa diroccata di Harlem.
Si ritrovò spesso a fare delle commissioni per una vicina che era
appassionata di musica jazz: a casa sua poteva godersi la musica di
Armstrong e Bessie Smith. Eleanor raccontò a Nat Hentoff l’esordio al
canto: Un giorno eravamo così affamate che respiravamo appena. Mi
buttai fuori dalla porta, c’era un freddo da morire e camminai in largo e
lungo entrando in ogni locale in cerca di lavoro. Alla fine, ero così
disperata che mi fermai al “Log Cabin Club” di Jerry Preston. Gli dissi
che volevo da bere. Non avevo un centesimo, ma ordinai un gin. Era il
mio primo drink, non l’avrei riconosciuto da un bicchiere di vino. Lo
bevvi in un sorso.
Fu da quel momento di disperazione assoluta che Eleanor chiese un
lavoro in un locale dei tanti del quartiere spacciandosi per ballerina. Danza allora! Sembrò
sfidarla l’uomo a cui si presentò. Non fu all’altezza, muovendosi
goffamente mentre, terrorizzata dall’insuccesso, si giocò la carta del
canto. Nell’angolo del locale c’era un vecchio che suonava il pianoforte
che cominciò con le battute di Travelin. Quando Eleanor intonò
le prime note, con la sua voce, un silenzio surreale invase quello
spazio e gli avventori che parlavano e bevevano, si girarono e la
guardarono interrogandosi su chi potesse essere. Il pianista era Dick
Wilson: non si scompose e riprese a suonare quel meraviglioso standard,
difficile nell’interpretazione e nella tecnica: Body and Soul. Dirà ancora Holiday nella sua autobiografia: Accidenti,
avresti dovuto vedere quella gente, iniziarono tutti a piangere.
Preston si avvicinò, scosse la testa e disse: Ragazzina, ce l’hai fatta. Ecco come Eleanor cominciò quella strepitosa carriera di cantante jazz la
prima cosa che feci fu prendermi un sandwich che buttai giù in un
boccone. Guadagnai solo quella sera 18 dollari di mance. Uscii di corsa,
comprai un pollo intero e corsi fino a casa. Mamma ed io mangiammo
quella sera e da allora l’abbiamo fatto sempre piuttosto bene.
Eleanor aveva soltanto 15 anni. Da quel momento, dopo essersi esibita
per varie serate, venne notata da un talent scout fra i più potenti del
tempo, John Hammond. Era il 1933 e capì subito che Eleanor aveva classe
e fascino da vendere, la sua voce era irripetibile, ancora oggi infatti
inimitabile. Hammond la mise in contatto con quel mostro sacro del jazz
di allora, con le sue orchestre impeccabili: Benny Goodman che non
perse l’occasione di portarla nei migliori club newyorkesi, incluso
l’esordio all'Apollo Theater dove incontrerà il genio assoluto
del sassofono, suo mentore e forse unico amore in arte della sua vita,
Lester Young. Da quel momento, Lester cominciò a chiamare Eleanor, Lady Day:
un’amicizia e un rapporto di totale simbiosi artistica che durerà fino
alla morte dei due artisti. Lester Young era un gigante del jazz,
insegnò a Billie come modulare sulle note quella voce raffinata
e infantile, al tempo stesso, graffiante e dolorosa nelle sue
interpretazioni drammatiche. Lunghe furono le tournée dove Holiday ebbe
la chance di formarsi; attraversò gli Stati Uniti con Count Basie e con
il clarinettista bianco Artie Shaw. Storiche le sue notti al Café Society, arena per le sfide tra Coleman Hawkins e Lester Young soprannominato da Billie, The Pres. Quando Lester inventava un chorus o
iniziava con una variazione, subito Coleman cercava una nuova soluzione
replicandosi a vicenda per nottate intere. Erano concerti irripetibili,
vere e proprie sedute di studio fra improvvisazioni e scritture di
spartiti complessi. Eccellenti erano i nomi che si alternavano in questi
spazi che, per gli amanti del jazz, erano luoghi miracolosi: Teddy
Wilson, Roy Eldridge, Harry “sweet” Edison. Fu in quel contesto che
Billie scrisse un brano di blues che rimarrà nella storia della musica
afroamericana: Fine and Mellow. Era il 1939. Nel 1941, Billie
sposò Jimmy Monroe e questa unione si rivelò ben presto un dramma,
perché fu con lui che cominciò l’uso delle droghe. Joe Guy, John Lewis e
Louis McKay non furono mariti migliori: la fragilità di Billie era
spesso utilizzata per sfruttare il suo carisma e i suoi guadagni e
tutti, più o meno, fecero uso delle sue risorse facendola addirittura
finire in prigione.
Gli USA di quei tempi erano una nazione in fermento, fra le
imposizioni di un liberismo senza regole, rapace, e le legittime lotte
sociali, soprattutto quelle rivendicazioni egualitarie per le forti
tensioni razziste, frutto di retaggi di un passato che non voleva cedere
il passo a istanze che mettevano in difficoltà dinamiche economiche e
sociali ben consolidate. In questo contesto, nel mondo della cultura e
dell’arte, le rivendicazioni di una nuova generazione di americani e di
quei popoli che erano sopraggiunti in quella terra se non trasportati
precedentemente per schiavizzarli, venivano poste con maggiore intensità
in forme sempre più creative. Quella terra del dream system
rappresentava anche aspetti di orrore, momenti di persecuzione,
dinamiche di diseguaglianza e sfruttamento: proprio nell’anno di nascita
di Billie Holiday, si rifondava nella contea di Fulton, in Georgia, il Ku Klux Klan, messo fuori legge nel 1869, ma ben attivo per molti anni ancora. Furono protagonisti di atroci, barbari e insensati delitti.
La segregazione razziale era una ferita incredibile in uno stato che
voleva essere democratico e liberale ed ergersi a modello mondiale per
tutte le altre comunità. Nel 1943 rimasero famosi i disordini ad Harlem:
passarono molti giorni prima che la polizia riuscisse a sedare gli
animi delle violenze ingiustificate dei bianchi nei confronti degli
afro-americani. I saccheggi e i tumulti si trasmisero come germi a
Columbia, nel Tennessee, ad Athens, in Alabama e Philadelphia, con morti
e feriti. La Corte Suprema proibì, almeno formalmente, la segregazione
sugli autobus. Il presidente Truman dovette formare un Comitato per i Diritti Civili,
dopo le proteste, gli arresti, le convulsioni di un sistema sociale e
politico che non voleva cedere alle condizioni di preminenza sui ceti
più deboli. Passarono ancora degli anni fino a quando, un’altra donna di
nome Rosa Parker, una sera del primo dicembre del 1955 a Montgomery, in
Alabama, rifiutasse di alzarsi dal suo posto per cederlo a un
viaggiatore di pelle bianca, ordine impartitole dal conducente con una
notevole dose di aggressività. Queste regole assurde non erano imposte
solo in Alabama ma in tutto il sud del Paese, anche dopo l’affrancamento
dallo schiavismo avvenuto almeno cent’anni prima di questo evento.
Nello stesso anno, altre cinque donne erano state arrestate per lo
stesso rifiuto e un ragazzo di colore, venne addirittura ucciso. Poca
conoscenza si ha sull’origine del famoso boicottaggio non-violento a
opera dei cittadini afroamericani nei confronti delle linee di autobus:
non fu Martin Luther King a organizzare la protesta: egli ebbe meriti
immensi solo in seguito. Fu il locale capo del sindacato dei facchini
dei wagon-lits, con l’appoggio del Women’s Political Council, all’origine delle rivendicazioni. Fu questo anonimo cittadino
che chiese al reverendo Ralph D. Abernathy di tenere una riunione nella
sua chiesa per dare inizio a un’azione che ebbe un successo storico
senza precedenti. Infatti, in seguito a questo evento venne fondata la MIA, ovvero la Montgomery Improvement Association, che
rivendicava i diritti dei cittadini neri contro ogni forma di
segregazione razziale. Fu a questo punto che Martin Luther King venne
nominato a capo di questa organizzazione. Sia King che Abernathy
chiesero al tribunale competente di pronunciarsi sulla questione della
segregazione sugli autobus e la discriminazione contro i neri, ma il
giurì locale rispose con una vergognosa incriminazione per King e i 114
dirigenti del MIA. Dopo 382 giorni di boicottaggio e altri casi
di donne che si rifiutavano di cedere il proprio posto, la Suprema
Corte degli Stati Uniti decretò nel 1956 l’illegalità della
discriminazione e la conseguente segregazione razziale. Una decina di
giorni dopo questa storica sentenza, King, Abernathy e i dirigenti della
MIA attraversarono la città a bordo degli autobus in prima fila, così
dichiarando: La nostra esperienza e la nostra maturazione sono state
tali che non possiamo ritenerci soddisfatti di una vittoria ottenuta in
tribunale sui nostri fratelli bianchi; dobbiamo agire per
l’avvicinamento di bianchi e neri sulla base della comprensione e di
un’autentica armonia di interessi: noi aspiriamo a una integrazione
fondata sul rispetto reciproco.
Billie Holiday era ormai diventata una stella del firmamento canoro:
quando Billie cominciava le sue performance, gli spettatori andavano in
visibilio. Era bella e affascinante, un corpo meraviglioso con una voce
tenerissima che non aveva eguali. Il suo stile musicale sembrava
avvolgere le melodie con pause, sospiri, sofferenze e melanconie, il
tutto a formare originali sonorità mai ripetibili. Una modalità di
interpretazione invisa alle grandi orchestre ma più congeniale a piccoli
gruppi di quartetti e quintetti che le davano la possibilità di
intervenire anche sulle forti emotività individuali e del pubblico. Era
proprio nell’improvvisazione la forza di Lady Day, nel fatto che ogni
singolo brano già interpretato, conteneva il suo grado di novità e
originalità e mutava a seconda delle sue emozioni e delle sue variabili
interpretative per sembrare completamente un’altra cosa. Con il tempo,
quella voce delicata subirà una notevole mutazione nel timbro, per
l’abuso di alcol e delle droghe, tanto da divenire più rauca e ancor più
drammaticamente lancinante. Ne sono la prova le registrazioni alla fine
della sua carriera in quel lento e silenzioso suicidio che originava da
una sensibilità naturale anche per la sua intransigenza sentimentale. È
nel 1952 che Billie approda alla Verve, la vecchia e storica casa musicale Clef,
del suo pigmalione Norman Granz, dopo la parentesi con Hammond.
Famosissime furono le 12 ore di registrazioni avvenute dal 1945 al 1959,
quelle famose performance al Jazz At The Philarmonic e, il concerto dei concerti, alla Carnegie Hall il 10 novembre del 1956. Storico quanto controverso è lo straordinario Lady in Satin, registrato nel febbraio del 1958 per la casa discografica Columbia.
Le musiche furono arrangiate da Ray Ellis che arricchì di archi, ottoni
e un coro l’intero programma musicale con musicisti del calibro
di J.J.Johnson, Mal Waldron, Milt Hinton, mentre Billie Holiday ormai
prossima alla morte, cantava nella più lancinante disperazione You’ve Changed: Quella scintilla nei tuoi occhi se n’è andata, / mi stai spezzando il cuore, /sei cambiato. Nonostante le polemiche e le critiche al disco, Lady in Satin è stato inserito nella Grammy Hall of Fame nel 2000.
L’autobiografia di Billie Holiday scatenò molte polemiche e non
smentì l’attenzione morbosa dell’opinione pubblica al personaggio. Forse
non potrà essere paragonata alla potente e ideologica autobiografia di
Charles Mingus, Peggio di un Bastardo ma, in ambedue i testi,
si delineano un quadro sociale, professionale e umano del tutto
credibili: racconti che fanno luce su questi enormi protagonisti della
storia della musica afroamericana e sulle condizioni di vita di milioni
di diseredati e neri. La collaborazione di William Dufty nella scrittura
del libro non fu ben accolta, probabilmente perché il personaggio non
aveva una sua autorevole identità né come giornalista né come scrittore.
Il linguaggio del libro sembra essere proprio quello gradito da
Holiday, abbastanza sarcastico e talvolta irriverente con espressioni
colorite. Lo spaccato umano delle difficoltà negli ambienti di casa, le
vere e proprie sevizie della cugina Ida in un contesto familiare dove
Billie aveva ricevuto affetto solo dalla madre e dai nonni paterni, ci
fanno riflettere sulla sofferenza di questa donna. Nel racconto
autobiografico, Billie dice che fu a causa di Alice Dean, prostituta e
gestrice di una elegante casa d’appuntamento che scoprì il jazz. Le
risorse economiche del casino consentivano la proprietà di un grammofono
da cui potevano essere godute le canzoni di Bessie Smith e Louis
Armstrong. Billie ancora bambina andava a pulire gli scalini e qualche
camera da letto sulle note di quei meravigliosi giganti della musica.
Quando la madre finalmente riuscì a sposarsi, fu “solo” uno scaricatore
di porto a portarla in municipio: lui era di buona famiglia,
dice Holiday, nel senso che da un punto di vista economico era in grado
di mantenere una vita dignitosa. La sua famiglia tuttavia, non era
affatto contenta del colore della pelle di mamma Flagan e della piccola
Billie, loro infatti sembravano più chiari. Fu un buon patrigno comunque, ma morì presto, tanto la fortuna e la felicità non potevano durare tanto per due come noi,
ci dice ironicamente Holiday. Le sfortune non arrivavano mai da sole:
proprio in quel periodo, la piccola Billie subì una violenza
sessuale. Nonostante fosse stata lei ad essere vittima di un
quarantenne, aiutato molto probabilmente da una donna sua complice,
Billie fu messa in prigione. Successivamente, la giovane venne
trasferita in un istituto di un ordine religioso cattolico gestito da
suore, una sorta di casa d’accoglienza con un sistema da caserma
militare: le propinavano ogni sorta di violenza, anche psicologica, al
punto che una volta furono capaci di rinchiuderla per tutta la notte in
camera con una bimba morta. Billie aveva una personalità spiccata e per
questo si distinse in una serie di legittime insubordinazioni. Fu
liberata grazie all’intervento di alcuni bianchi benestanti ai quali la
mamma aveva chiesto il piacere di interessarsene. Finalmente fuori da
quella prigione, raggiunse New York, dove la vita era drammaticamente
costosa. Mamma Flagan si dimenava in giornate lunghissime lavorando come
donna di pulizie e forse anche come prostituta occasionale. Billie fu
ospitata dalla cugina Ida che ebbe il tempo di esibire la sua
aggressività nei confronti della giovane, prima di morire
incredibilmente strozzata da un bolo rimastole impigliato alla gola.
Holiday non ebbe molte scelte per tirare a campare in quel periodo della
sua vita trovando lavoro presso case di appuntamento e divenendo, per
la sua bellezza, molto appetibile a sfruttatori e delinquenti arroganti.
Nella narrazione drammatica della sua autobiografia, la cantante
racconta di essere stata spesso violentata da energumeni frequentatori
del casino e, all’occorrenza anche ricattata. Infatti, dovette pagare a
caro prezzo i suoi rifiuti verso questi uomini, subendo denunce e
diversi mesi di prigione. Billie e l’amata madre si ritrovarono a vivere
insieme durante il peggior periodo di crisi economica, tanto ci eravamo abituate, noi, alle crisi,
scrive Billie. Un giorno, disperata perché in arretrato con il
pagamento degli affitti e con il pericolo imminente di uno sfratto ormai
inevitabile, Billie si mise alla ricerca di un lavoro. Le due donne si
sistemarono in un appartamento della trentanovesima strada ad Harlem.
Vissero un po’ in serenità prima che la madre di Billie si ammalasse
molto seriamente. Fu allora che, disperata, Billie giunse al Pod’s & Jerry’s e
si propose come ballerina finendo per cantare. Stava per terminare
l’era del proibizionismo con l’abolizione della legge del 1933 contro
l’alcool, che avrebbe cambiato la vita in quel sottobosco di musica,
cantanti, avventori e ogni genere di persone nei grandi club storici
come il Mexico, lo Yeah Man, il Nest, il Clam House, il Covan e il Morocco. Per Billie la carriera cominciò nel mitico Log Cabin,
dove conobbe Paul Muni e John Hammond, Mildred Bailey, la nota Rocking
Chair Lady, Red Norvo e Benny Goodman. Fu proprio quest’ultimo a
proporre una registrazione alla futura Lady Day, portandola nel suo
studio e facendole provare per la prima volta l’emozione di un
microfono. Billie ha raccontato anche della sua folle paura di
sbagliare, davanti a un gentiluomo e, soprattutto, a un microfono vero.
Incise in quel periodo con l’orchestra del grande Teddy Wilson per una
dozzina di canzoni: percepì trentacinque dollari senza essere a
conoscenza che esistevano i diritti d’autore. Arrivarono i primi
spettacoli all’Hotchka e all’Apollo, dove Billie ottenne una vera e
propria incoronazione al suo stile canoro, emozionando il pubblico in
visibilio dopo aver intonato The man I love e, l’indimenticabile If the moon turns green, di Bernie Hanighen.
Strange Fruit non è semplicemente una canzone: rappresenta
uno dei racconti storici più tragici e realistici degli Stati Uniti di
quegli anni. Strange fruit può essere anche considerata come il
racconto di una immagine, la storia di una fotografia che ritraeva due
uomini di colore linciati e penzolanti a un albero su una folla gioiosa e
addirittura distratta, la storia sociale, umana e politica della
segregazione razziale, della musica e della cultura afroamericana, la
narrazione di un vero e proprio olocausto subito dal popolo nero durante
centinaia di anni. Ѐ la storia di un Paese che è diventato una potenza
economica e politica grazie e soprattutto al contributo degli
afroamericani, al loro sacrificio e alla tenacia di lottare per i propri
diritti.
La fotografia che vede penzolare due poveri sventurati e che fu uno dei motivi della scrittura di Strange Fruit,
ha forse permeato lo spirito antirazzista con una incidenza superiore a
quella che viene di solito considerata. La sua rappresentazione è
l’immagine di una atrocità disarmante e senza eguali. L’immagine ha una
sintassi specifica con il suo contenuto aberrante: balzano ai nostri
occhi i protagonisti, odiosi e disumani che ci proiettano in uno stato
di incredulità e vergogna. Si intravedono uomini e donne festanti come
in un party di fine estate che assistono compiaciuti e sorridenti alla
fine di uno spettacolo. È il 7 agosto del 1930: sconvolge quel
linciaggio e ci chiediamo i nomi dei due afroamericani, per un attimo,
ingrandiamo i loro volti ormai tumefatti, irriconoscibili. Che cosa
avranno fatto? Avevano un avvocato? Fu loro riservata una carcerazione
preventiva sicura? Ebbero la possibilità di difendersi o di proclamare
la loro colpevolezza? Quale fu l’accusa? Ci furono testimoni, e le prove
dei loro presunti crimini? Si chiamavano Thomas Shipp e Abram Smith. Al centro della foto del linciaggio si vedono due donne e un uomo che, dai loro sguardi, sembrano aver individuato Lawrence Beitler, il fotografo che immortalò questi due strani frutti insanguinati, penzolanti ai rami d’una quercia. I poveri stracci sono
due trofei di caccia. Il linciaggio è un omicidio collettivo, è di
tutti e di nessuno. Questa fotografia è la storia di un crimine, dei
crimini. È il racconto di quel tempo, di quelle contee lontane e
impervie come vicoli ciechi, vissute dell’ingiustizia della violenza
contro un popolo che aveva costruito quel Paese nei campi, nelle città,
in ogni dove. È il racconto soprattutto dell’Olocausto del popolo nero
degli Stati Uniti d’America. Purtroppo, i linciaggi vergognosi del KKK
vennero perpetrati a centinaia, senza contare le torture, le
mutilazioni, le vessazioni, le umiliazioni. Dalle stime statistiche che
abbiamo, fra il 1880 e il 1920, vi sono stati almeno due linciaggi a
settimana: le vittime furono anche minori e donne incinte, per i quattro
quinti afro-americani. Il famigerato Ku Klux Klan fu fondato nel 1865
ed era un gruppo nazista e suprematista formato da bianchi che si
ritenevano di razza eletta: incappucciati e vestiti di bianco,
giravano con ronde in formazioni compatte, imperversando nelle varie
contee americane, quelle di un’America retriva, subdola, provinciale,
barbara. Secondo una statistica non ufficiale e, sicuramente parziale,
molti degli omicidi neppure venivano considerati numericamente: pare che
in un arco di tempo che va dal 1889 al 1940, furono linciate circa
3.883 persone. Solo 49 carnefici dei massacri vennero incriminati e 4
condannati da tribunali composti da giudici bianchi. Strange Fruit era
il racconto del linciaggio di Abram Smith e Thomas Smith accusati senza
prove, nella cittadina di Marion, di aver ucciso un bianco per furto e
aver stuprato la fidanzata. In un secondo momento, le indagini esclusero
categoricamente le responsabilità dei due malcapitati, condannati e
barbaramente uccisi da una folla inferocita nello Stato dell’Indiana
che, con mazze, catene, piedi di porco e ogni genere di oggetti
contundenti, attaccarono la Grant County Courthouse, dove erano
detenuti, strappando la porta e prelevando i due malcapitati. Dopo
essee stati bastonati, uccisi e mutilati, furono appesi ad un albero in
bella mostra. L’episodio è narrato in Without Sanctuary: un
libro scritto da James Cameron che, all’epoca dei fatti aveva 16 anni e,
in quel maledetto 7 agosto del 1930, doveva essere la terza vittima del
linciaggio. Riuscì a salvarsi grazie alle grida di una donna che lo
scagionò e alla quale venne fortunatamente dato credito. James Cameron
istituì una fondazione che divenne un Museo per la memoria dell’Olocausto dei
neri d’America. Tuttavia, la storia di questa foto deve la sua
testimonianza soprattutto e grazie ad Abel Meeropol. Egli era un
insegnante di origini russo-ebraiche del Bronx, legato al Partito
Comunista americano, che rimase sconvolto quando gli capitò di vedere la
foto del linciaggio di Abram e Smith. Era il 1937. Meeropol pensò di
scrivere un poema, Bitter fruit, pubblicandolo con lo pseudonimo di Lewis Allan. La pubblicazione avvenne sulla rivista New York Teacher e in un giornale comunista: New Masses. Gli ambienti progressisti gradirono Strange Fruit che
divenne popolare. In origine, Meerpol tentò in tutti i modi di far
arrangiare musicalmente il testo, interessando vari compositori che, per
motivi diversi, non accettarono. Fu proprio la moglie di Meerpol,
esausta dalle rinunce e dai dinieghi, che lo propose in musica. Fu
eseguito per la prima volta, durante la riunione del sindacato degli
insegnanti, a New York.
In successione a questi eventi e nella caparbia convinzione di
riproporre questo testo meraviglioso nella sua cruda drammaticità, la
coppia Meerpol vide in Barney Josephson la persona giusta per sponsorizzare e rendere pubblico Strange Fruit. Josephson era il proprietario del Cafè Society,
famoso nella storia del jazz perché il suo locale fu il primo in
America ad aver abrogato la segregazione razziale. La notizia che dà la
stessa Holiday nella sua autobiografia, cioè che il testo sia stato
scritto di suo pugno e musicato da Sonny White, è da ritenere falsa. La
storia della famiglia Meerpol tuttavia non finisce qui. Meerpol adottò
due figli, Ethel e Julius Rosenberg che, raggiunta la maggiore età,
furono coinvolti in un caso di spy story che sconvolse
l’America ed ebbe un’eco internazionale: furono processati perché
incriminati di aver passato informazioni sulla costruzione della bomba
atomica ai russi. Ambedue subirono la pena capitale e morirono sulla
sedia elettrica. Le sentenze furono eseguite nonostante vi fossero
appelli da tutto il mondo perché ciò non accadesse: furono firmatari
infatti tra i più noti Pablo Picasso, Frida Kahlo, Diego Rivera, Jean
Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Bertolt Brecht, Dashiel Hammett, Papa
Pio XII.
L’immagine di Lady Day e Strange Fruit tutavia, si
mescolano e divengono inscindibili, al punto da non sembrar possibile
che qualcuno possa più eseguire con la stessa passione e dramamticità
questo testo canoro. Nessuno forse avrebbe creduto che sarebbe diventata
col tempo una sorta di manifesto della rivendicazione per l’eguaglianza
razziale. Questa pièce scalò tutte le classifiche e si attestò ai primi
posti delle classifiche musicali nel 1939. Non furono isolate alcune
resistenze a quello che rappresentava questa mirabile canzone. Il Time Magazine, ad esempio, non ne apprezzò i contenuti e sostenne che fosse un testo-propaganda a favore del National Association for the Advancement of Coloured People.
Strange Fruit è ancora oggi a pieno titolo fra i brani standard della
storia della musica e rappresenta la pietra miliare di una rivolta
artistica contro la segregazione razziale: Gli alberi del Sud
producono uno strano frutto, / sangue sulle foglie e sangue alle radici,
/ un corpo nero che ondeggia nella brezza del Sud, / uno strano frutto
che pende dai pioppi. / Una scena pastorale nel valoroso Sud, / gli
occhi sporgenti e la bocca storta, / profumo di magnolia dolce e fresco,
/ e d’improvviso l’odore della carne che brucia. / Qui c’è un frutto
che i corvi possono beccare, / che la pioggia inzuppa, che il vento
sfianca, / che il sole marcisce, che l’albero lascia cadere, / qui c’è
uno strano e amaro raccolto.
Il frutto è la rivendicazione di un diritto che solo i
bianchi non vogliono riconoscere e di cui i neri sentono di
rivendicare: sono americani anche se ancora schiavi, penzolanti ai rami
degli alberi, linciati, oltraggiati, vogliono riappropriarsi del loro
sacrificio, del loro lavoro, della loro nuova terra. Straordinaria è la
metafora del profumo di magnolia, il fiore preferito da Billie che
intreccia sovente tra i suoi capelli nerissimi, dolce e fresco al
cospetto dell’orrido rituale macabro e inumano dei bianchi. L’amaro
raccolto è nel frutto strano che penzola, che marcisce, che si sfianca,
che si inzuppa, il raccolto di una umanità che non potrà mai
autoassolversi. Nel jazz, la contestazione continuò in molteplici forme,
come nel free degli anni ’60, nella New Thing di Ornette Coleman con gli album A collective improvisation, New Thing e tantissimi altri proposti
insieme a una vastissima schiera di leggendari musicisti, come Max
Roach, Miles Davis, Eric Dolphy, Cecil Taylor, Charles Mingus, Alice e
John Coltrane, Archie Shepp, Matana Roberts, Nicole Mitchell e Albert
Ayler. Strange Fruit venne pubblicata su disco nel 1939 e, poco
tempo dopo il suo primo ascolto, divenne una delle canzoni più belle e
conosciute di questo mondo. Era la stessa Billie Holiday ad affermare,
dopo ogni performance, che non esisteva niente altro che potesse venire dopo questa canzone.
Fu un testo che ebbe un impatto incredibile in un’America che faceva i
sit-in contro la guerra e si mobilitava in concerti e poesia. Nasceva il
grande movimento per i diritti civili e, per la prima volta, il jazz
compì un salto di qualità: da un linguaggio metaforico e talvolta
allusivo di protesta, passò all’esplicita denuncia e
rivendicazione. Leonard Feather definì Strange Fruit, interpretata da Billie, la prima invocazione gridata contro il razzismo.
L’indomabile Billie Holiday fu figura storica di una grande levatura
artistica: visse senza dissociare la sua vita privata da quella geniale
carriera musicale e canora. Fu consapevole protagonista delle
rivendicazioni dello spirito afroamericano, del ruolo nel mondo
artistico di un popolo in marcia verso una ineluttabile vittoria per i
diritti civili e sociali. Nel 1954, Billie Holiday giunse in Europa e,
successivamente, continuò ad attraversare in lungo e in largo quella
terra che le aveva dato i natali e che spesso si era dimostrata
matrigna. Nel 1953 apparve in TV per un reality della ABC, The Comeback Stories, dove
si rese protagonista di una storytelling sulle avversità che la vita le
aveva riservato, non disdegnando la partecipazione a concerti fino alla
fine del 1956, con due importantissime apparizioni al Carnegie Hall.
Fra orchestre e piccoli gruppi, Billie riuscì a farsi sentire alle
radio di quell’America che cominciava a conoscere il jazz bianco di Stan
Getz e Gerry Mulligan; poi gli incontri con il geniale Mal Waldron e Jo
Jones. Nel 1959 era ancora in Europa, a Londra, dove Grenada TV mandò
in onda quella che sarà la sua ultima apparizione pubblica. Infatti,
proprio in quei giorni, l’amato Lester Young tornò proprio dal Vecchio Continente negli USA, ormai debilitato dalla malattia: quando Billie seppe dello stato di Pres salì sul primo aereo per New York, ma non fece in tempo a raggiungerlo perchè il Saxophone colossus era già morto. Sarò io la prossima ad andarmene, chiosò Billie, anche lei indebolita dalle droghe e da una vita di stenti.
Dopo quattro mesi dalla morte di Lester Young, il 17 luglio del 1959,
Billie Holiday muore per una tremenda cirrosi, con 70 centesimi in
banca e 750 dollari in tasca: dei suoi lauti guadagni non ne rimaneva
che l’ombra. Un altro destino.
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