di Michele Giorgio – Il Manifesto
Non sono state scelte a
caso le date della visita ufficiale di due giorni, oggi e domani,
di Emmanuel Macron in Libano, la seconda in meno di un mese. «La Francia
non vi abbandonerà» aveva promesso il presidente francese alle migliaia
di libanesi che lo avevano accolto nelle strade di Beirut devastate
dall’esplosione del 4 agosto al porto della capitale. Ed è già di
ritorno.
Atterrerà in Libano nel giorno in cui il capo dello Stato
Michel Aoun dovrebbe conferire l’incarico per la formazione del nuovo
governo. Macron incontrerà anche la cantante 85enne Fairouz, un’icona
nel paese dei cedri e in buona parte del Medio Oriente, per segnalare
che lui, per «salvare il Libano» precipitato nell’abisso della crisi,
ascolta più volentieri il parere dell’artista tanto amata e stimata dalla sua gente che le valutazioni dei rappresentanti delle istituzioni libanesi.
Martedì invece cade il centesimo anniversario in cui la potenza
coloniale francese istituì come Stato sotto il proprio mandato il Grande
Libano anticipando i tempi stabiliti dalla Società delle Nazioni.
Macron non vuole salvare il Libano caricandolo sulle spalle della Francia. Piuttosto pretende
che i capi politici libanesi accettino i suoi “suggerimenti” per la
formazione del governo, la sua roadmap con le riforme da implementare per
ottenere gli aiuti internazionali e che si tengano a distanza dalla
soluzione, politicamente più drastica, proposta da Washington.
Il protagonismo di Parigi è stato evidente venerdì al Consiglio di
sicurezza dell’Onu quando è scesa in campo e ha placato le intenzioni
bellicose dell’Amministrazione Trump e di Israele nei confronti
dell’Unifil facendo votare il rinnovo della missione in Libano del sud
prevedendo una limitata riduzione del numero dei caschi blu (in
maggioranza italiani) e non meglio precisate ispezioni alla ricerca di
armi del movimento sciita Hezbollah.
La roadmap di Macron si fonda sull’«esigenza senza ingerenza».
Esigenza, ha spiegato, «perché il sistema si è autobloccato, le
costrizioni del sistema confessionale e gli altri interessi legati hanno
portato a non avere quasi più rinnovamento e alla quasi impossibilità
di fare riforme». Però non boccia il sistema confessionale su
cui è radicato da sempre il Libano, anzi lo esalta come forma di
convivenza tra le varie componenti religiose della popolazione.
D’altronde come potrebbe dichiararlo decaduto: fu la Francia coloniale a
benedirlo per assicurare maggiori poteri ai cristiani libanesi.
Inoltre, ed è questa la differenza più rilevante tra la roadmap
francese e la soluzione di Washington, Parigi riconosce il peso politico
in Libano di Hezbollah, al quale chiede di fare un mezzo passo
all’indietro, di essere meno presente nel governo e nella
amministrazione del paese.
Agli Usa le mosse di Macron in Libano fanno venire il mal di stomaco. Il
piano americano per il Medio Oriente, oltre all’annullamento dei
diritti dei palestinesi, prevede che sia azzerata l’influenza nella
regione dell’Iran e dei suoi alleati, a cominciare da Hezbollah. E per
raggiungere questo obiettivo usa il pugno di ferro e pesanti sanzioni
economiche (contro Siria e Iran) che colpiscono di riflesso anche il
Libano.
L’ambasciatrice statunitense a Beirut, Dorothy Shea, in un’intervista al quotidiano al Modon,
ha sottolineato che alla Francia «non dispiace la partecipazione di
Hezbollah al governo» aggiungendo che «la proposta francese appartiene
solo ai francesi». Con parole nette, Shea ha affermato che l’obiettivo
su cui si concentra Washington è Hezbollah. Contro Macron fanno la voce grossa
anche i libanesi tifosi degli Stati Uniti.
«Il governo degli Usa deve assumere l’iniziativa... Il presidente
francese potrebbe essere soddisfatto da un governo di unità
nazionale... (che) manterrebbe Hezbollah nelle istituzioni statali», ha
scritto l’analista Hanin Ghaddar su Foreign Policy. E mercoledì, partito Macron, a Beirut atterrerà David Schenker, responsabile per il Medio Oriente del Dipartimento di Stato.
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