Le parole sono importanti. Lo ribadisce Freud nella sua Introduzione alla psicanalisi
quando afferma che “originariamente le parole erano magie e ancor oggi
la parola ha conservato molto del suo antico potere magico”. Del resto,
come è noto, la pratica psicanalitica si fonda essenzialmente sulla
parola. La parola e il linguaggio sono anche inestricabilmente connessi alle dinamiche del potere.
Le parole divengono un indiscutibile strumento di potere, un mezzo per
governare le masse, soprattutto durante le dittature. Al di là delle
contingenze storiche, Michel Foucault ne ha
scandagliato in profondità le pratiche di imposizione e anche di
interdetto, di reticenza. Perché il potere non solo impone le parole in
modo roboante ma anche le vieta, le frena, le interdice. La parola del
folle, ad esempio, secondo lo studioso francese, è stata oggetto di una
lunga pratica di segregazione e interdizione. A partire dal XIX secolo – dice Foucault ne Le parole e le cose – il linguaggio si ripiega su di sé livellandosi ad un puro statuto d’oggetto. Questa oggettivizzazione del linguaggio ne permette la maggiore fruibilità da parte del potere.
Fin
dall’inizio dell’emergenza Covid, le varie dinamiche di potere –
incarnate ora dai social, ora dai più svariati media (dalle televisioni
ai blog), dai virologi e dai politici – hanno imposto un nuovo tipo di
linguaggio fatto di nuove parole o di parole il cui senso è stato
nettamente modificato. Come un gigantesco fenomeno
spettacolare, l’emergenza ha introdotto un nuovo linguaggio legato a una
nuova forma di comunicazione. Giuseppe Genna, nel suo romanzo-fiume sul periodo di emergenza, “Reality. Cosa è successo”, edito recentemente da Rizzoli, afferma che “la
lingua si adatta, forgia la propria insufficienza, ci propone formule
che vengono abusate, si semplifica, parleremo tutti così in pochi
giorni” (il riferimento è a “quarantena”, “paziente 1”,
“positivo”). La semplificazione di cui parla Genna fa parte delle
pratiche di reticenza utilizzate dal potere. Le “formule
abusate”, ripetute come un mantra alla televisione, introducono una
maggiore fruibilità del linguaggio che nasconde in sé delle oscure e
pervasive pratiche di controllo per instaurare paura e sottomissione
negli ascoltatori. Già Pasolini, negli anni Settanta, aveva intuito il carattere di pervasivo controllo insito nelle parole del potere diffuse dai media: se
la lingua dei potenti, secondo lo scrittore, è la “lingua della
menzogna”, “è attraverso lo spirito della televisione che si manifesta
in concreto lo spirito del nuovo potere”.
Le nuove parole introdotte dall’emergenza Covid possono essere suddivise in tre gruppi: 1) parole già esistenti rivestite di un nuovo significato oppure direzionate verso il campo semantico del Covid; 2) parole che assumono un senso metaforico rivestito di retorica nazionalistica; 3) parole straniere o italiane appartenenti a un gergo tecnico.
Al primo gruppo appartengono, ad esempio, “tampone”, “virale”, “sintomatico”, “asintomatico”, “paziente 0”, “paziente 1”, “positivo”, “quarantena”, “autocertificazione”.
Se prima dell’emergenza, alla parola “tampone” o “tamponare”
l’immaginario correva subito a uno strumento medico atto a tamponare una
ferita, a fermare il sangue, ora essa rimanda esclusivamente al tampone
naso-faringeo per controllare la positività al Coronavirus. La parola
“virale” si è spogliata di qualsiasi significato metaforico per assumere
il preciso significato concreto legato alla diffusione del Coronavirus.
A essa, se vogliamo, possiamo ricollegare anche il termine “virologo”,
che designa uno dei personaggi più pervasivi e onnipresenti nei media
(e uno dei maggiori, attuali detentori del potere biopolitico).
Ugualmente, la parola “sintomatico” o “asintomatico” è stata piegata
unicamente al campo semantico del Covid: se si dice “sintomatico” oggi,
non possiamo riferirci ai sintomi di una generica malattia (dalla
depressione alla diarrea) ma specificamente al Coronavirus. Poi ci sono i
famigerati “paziente 0” e “paziente 1”, formule abusate che dal
tecnicismo medico si sono trasformate in termini di uso comune e
popolare. Un discorso a parte merita “positivo”: questa è una parola il cui significato è cambiato radicalmente. Oggi
non possiamo più dire “sono positivo”, oppure “mi sento positivo”, nel
senso che ho un approccio lieto e felice all’esistenza; ci ritroveremmo
circondati di medici in tute anticontagio e sottoposti alla quarantena
d’obbligo. E veniamo quindi a “quarantena”:
parola antica, che rimanda a pratiche ‘classiche’ di contenimento di
malattie infettive e contagiose. Nella Lombardia del Seicento descritta
da Manzoni, la popolazione appestata è sottoposta a quarantena e così
anche nella città di Vincennes del XVII secolo descritta da Foucault in Sorvegliare e punire.
La quarantena veniva applicata anche alle navi: imbarcazioni che
portavano galeotti, schiavi o altri gruppi sociali sospettati di
contagio, venivano sottoposte a quarantena (anche gli immigrati italiani
a New York, a inizio secolo, erano sottoposti a un rigido sistema di
quarantena). La parola “autocertificazione”,
dall’indicare qualsiasi tipo di autodichiarazione svolta in un ufficio
pubblico, è passata ad indicare quel famigerato foglio di carta
necessario per effettuare gli spostamenti.
Al secondo gruppo appartengono parole che assumono un senso metaforico rivestito di roboanti connotazioni nazionalistiche: i medici e gli infermieri sono degli “eroi” che combattono in “trincea” una “guerra”
mentre tutta l’Italia è in guerra contro il virus. Inutile qui stare a
ricordare che le guerre le scatenano i potenti per motivi politici ed
economici e non certo i virus. Sul concetto di “eroe” meglio stendere un
velo pietoso.
Il terzo gruppo comprende parole straniere e appartenenti al gergo tecnico. La parola “lockdown”,
che significa “confinamento”, si è imposta a tal punto nell’uso comune e
nel lessico italiano come sinonimo di “quarantena” che, recentemente,
con un amico esperto di linguistica e di traduzione, si rifletteva sul
fatto che ormai, scrivendola, non è più necessario metterla in corsivo,
come invece si fa con le parole straniere. Ugualmente, il pericoloso
‘untore’ che correva di qua e di là a diffondere il virus, da
“corridore” o “sportivo” si è trasformato in “runner”.
Non
molto tempo fa avevo scritto su Codice Rosso che l’universo della
scuola, nell’emergenza Covid, sta sempre più precipitando nel buco nero
del linguaggio aziendalista e burocratico, in cui predominano i
tecnicismi e i prestiti integrali dall’inglese (Covid, il colpo di grazia per l’aziendalizzazione della scuola. Un’analisi linguistica). Tali
termini fanno parte di quella antilingua di cui parlava Italo Calvino:
dove trionfa l’antilingua, nota lo scrittore, l’italiano viene ucciso.
L’aziendalese e i tecnicismi si stanno diffondendo quindi, oltre che
nella scuola, anche nell’universo linguistico della quotidianità. Un
termine tecnico che è apparso su tutti i media e di cui manco si sapeva
l’esistenza (a parte gli ‘addetti ai lavori’) è poi “triage”: secondo il dizionario, “in un ospedale, è la scelta, tra più pazienti, di quelli maggiormente bisognosi di cure”.
Insomma,
l’emergenza da Covid-19 ha portato con sé anche una vera e propria
emergenza linguistica: parole semplici e abusate a cui viene ribaltato
il significato, parole intrise di roboante retorica nazionalista, parole
che fanno precipitare il nostro universo linguistico verso i tecnicismi
e verso quella antilingua aziendalistica che uccide la nostra vera
lingua. Tutte parole ambigue e intrise di reticenza che, per
mezzo dei media, dei social, dei nostri strumenti digitali, ci penetrano
nel cervello come dagli schermi del Grande Fratello di 1984. Contro
il vuoto, la piattezza, l’ambigua reticenza e la retorica imposte dal
potere, sono necessarie ora più che mai parole piene di fantasia, di
immaginazione, di immaginario resistente che divenga realtà.
Guy van Stratten
Fonte
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