Il 19 agosto del 2019, in occasione del festeggiamento del 120° anniversario del Partito socialdemocratico finlandese (SPD), l’allora Ministra dei Trasporti Sanna Marin, avanzò la proposta di una settimana lavorativa di 4 giorni e 24 ore complessive.
“Credo che le persone meritino di trascorrere più tempo con le loro famiglie, i loro cari, gli hobby e altri aspetti della vita, come la cultura. Questo potrebbe essere il prossimo passo per noi nella vita lavorativa” – ha affermato la Ministra (helsinkitimes.fi).
A questa proposta, manco a dirlo, i conservatori del Partito della coalizione nazionale (NCP) hanno risposto che l’estensione dell’orario di lavoro (e non la sua riduzione), in questi ultimi anni si è dimostrata la misura più efficace per promuovere l’aumento dei posti di lavoro.
Secondo i dati resi noti dall’Istituto di ricerca sull’economia finlandese (Etla), dati sbattuti in faccia all’SPD da Arto Satonen dell’NCP, il “patto di competitività”, che ha introdotto un congelamento dei salari per il 2017, ha ridotto i salari dei dipendenti del settore pubblico, trasferito alcuni contributi previdenziali dai datori di lavoro ai dipendenti, e prolungato l’orario di lavoro annuale di 24 ore, senza compensi aggiuntivi, e ha creato 45.000 nuovi posti di lavoro.
Un altro aumento dell’orario di lavoro potrebbe creare tra gli 8.000-16.000 nuovi posti di lavoro entro il 2022.
Lo studio dell’Etla è stato commissionato dalle industrie tecnologiche finlandesi, dalla federazione dell’industria chimica finlandese e dalle industrie forestali finlandesi. I dati prodotti sono trasparenti.
Ma ciò che essi non dicono è che insieme a maggiori quantità di legno e prodotti dell’industria chimica la Finlandia ha esportato in tutta Europa e nel mondo deflazione salariale e disoccupazione, che i dati positivi bilanciano esattamente le perdite registrate da altri Stati in Europa e nel mondo.
Se volete sapere di più sull’esportazione della deflazione salariale da uno Stato all’altro dell’Europa vi consiglio il libro di Pasquale Cicalese, di prossima pubblicazione per le edizioni dell’Antidiplomatico.
In effetti nel 2017, dopo tre anni di recessione e un anno di crescita quasi nulla, il PIL finlandese è cresciuto nel 2016 del 2,8 e nel 2017 addirittura del 3,3%, salvo scendere, nel 2019, all’1,1%, segno che i diretti competitori avevano imparato la lezione e applicato la stessa ricetta finlandese.
In una competizione giocata con queste regole alla fine, a perderci, saranno tutti, lavoratori e imprese. Al contrario, scegliere di competere su una riduzione dell’orario di lavoro è una soluzione che vedrebbe tutti vincenti – o quasi.
Il 25 agosto scorso, Sanna Marin, nel frattempo diventata Prima Ministra e presidente dell’SPD, è tornata all’attacco. Ha confermato che la riduzione dell’orario di lavoro sarà uno degli obiettivi del suo mandato come Presidente dei socialdemocratici.
In un discorso programmatico tenuto lunedì scorso ai suoi compagni di partito ha ribadito che il governo deve creare una visione chiara e una tabella di marcia concreta per procedere verso giornate lavorative più brevi e una migliore vita lavorativa in Finlandia (helsinkitimes.fi).
“La riduzione dell’orario di lavoro”, ha dichiarato, “non è in conflitto con l’aumento dell’occupazione. Bisogna impegnarsi per aumentare la produttività del lavoro”.
Sanna Marin ha anche prodotto una serie di studi e dati che mostrano che la riduzione dell’orario di lavoro può migliorare la produttività, consentendo così ai datori di lavoro di pagare otto ore di salario per sei ore di lavoro.
Infine ha detto che la pandemia ha spinto molta gente a valutare veramente ciò che apprezza e considera significativo nella vita. “La salute, il benessere dei propri cari e l’importanza della vita quotidiana”, ha detto, “sono cose che non stimiamo abbastanza. Quando tutto ciò comincia a essere messo in pericolo, nasce il desiderio di cominciare a guardare alla nostre vite da un nuovo punto di vista”.
Sperando che la Finlandia riesca nel suo obiettivo di ridurre la giornata lavorativa, e diventare un faro per tutta l’Europa, mi sento di fare un piccolo appunto.
Anche in Italia, durante l’emergenza, si è discusso di riduzione dell’orario del lavoro. Spesso questa discussione si è intrecciata col tema dello Smart Working e dell’aumento della produttività (aumento vero o presunto) causato da questa forma inedita di organizzazione del lavoro.
È stato detto che l’aumento della produttività del lavoro non deve assolutamente trasformarsi in disoccupazione, e che l’unico modo per impedirlo è ridurre l’orario di lavoro.
Qui bisogna chiarire che, in prima battuta, la riduzione dell’orario deve essere messa in relazione diretta con l’aumento della produttività. Ma in secondo luogo, va messo in evidenza come una maggiore produttività significa, per le imprese, una minore capacità di valorizzare il capitale.
L’idea che il capitalismo possa funzionare in modo automatico, ovvero senza lavoro, è un’idea farlocca. La riduzione del lavoro è un sintomo del malessere del capitalismo.
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