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21/08/2020

Mali - La posta in gioco

C’è stato uno strano “colpo di Stato” in Mali all’inizio di questa settimana.

Un “putsch” effettuato senza sparare un colpo e senza che una sola goccia di sangue venisse versata da parte dei militari, che hanno formato un “Comitato Nazionale per la Salvezza del Popolo”(CNSP).

Un dato che segna una forte discontinuità con la feroce repressione che avevano incontrato le ultime imponenti giornate di protesta iniziate il 10 agosto e proseguite per tutto il week end contro il presidente Ibrahim Boubacar Keïta «IBK» – ora dimissionario obtorto collo – di cui nessuno in Mali sembra sentire la mancanza.

Uno scenario repressivo che aveva fatto morti e feriti, quanti il Paese non vedeva dalle manifestazioni del 1991, che avevano portato alla caduta del dittatore Moussa Traoré.

Quest’ultimo era stato “imposto” dalla Francia nel 1968, a soli 8 anni circa dall’indipendenza del Mali, che aveva inizialmente vissuto il regime socialista di Modibo Keïta, con un copione simile a molti giovani stati indipendenti.

L’opposizione, per ciò che concerne le giornate di luglio, parla di 23 morti e più di 150 feriti, “solo” 11 invece secondo l’ormai ex Primo Ministro Boubou Cissé, 14 per l’ONU.

La mattanza di luglio aveva coinvolto anche e soprattutto le truppe d’élite anti-terrorismo – Force speciale antiterroriste (Forsat) – create nel marzo 2016 e addestrate all’interno di uno dei programmi di formazione contro la guerriglia jihadista promosso dalla “comunità internazionale”.

La Forsat aveva sparato sulla folla e proceduto all’arresto, o forse è più giusto dire al sequestro, di differenti figure dell’opposizione.

Equipaggiati militarmente e non “addestrati” alle funzioni di ordine pubblico, questi militari sono stati formati da agenti francesi del Raid, dai militari nord-americani, da ufficiali europei in missione nel quadro dei programmi della UE EUCAP-Sahel e EUTM-Mali.

All’oggi non si conosce la catena di comando responsabile della strage, ma il “doppio standard” della “comunità internazionale” è evidente, considerata la scarsa indignazione “di circostanza” per ciò che era successo a luglio, e la durezza delle reazioni al colpo di Stato, nonostante – tra l’altro – la presa di posizione di Amnesty International che il 5 agosto aveva denunciato la “sanguinosa repressione” di luglio.

Che forze dell’anti-terrorismo formate dall’Occidente sparassero sulla folla e si dessero alla caccia all’uomo per stroncare un movimento contro il Presidente ed il suo entourage non ha inquietato più di tanto le “anime belle” della democrazia alle nostre latitudini, né i professionisti dell’informazione mainstream.

A differenza di una nutrita schiera di rappresentanti della “comunità internazionale”, dall’Unione Europea – in primis la Francia – all’Unione Africana, dall’ONU fino alla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Cedeao) presieduta dal Niger, che condannano l’accaduto, oggi (venerdì 21) gli abitanti di questo martoriato Stato africano si apprestano a festeggiare l’allontanamento di quel presidente a circa due anni dall’inizio del secondo mandato.

“IBK” era stato eletto con un vasto consenso nel 2013, sull’onda di quella che sembrava la “sconfitta” dell’occupazione jihadista nel nord del Paese, grazie all’intervento Francese nel 2012 con l’«Operazione Serval», chiesto dall’allora Presidente Provvisorio Dioncounda Traoré, dopo il fallimentare colpo di stato dell’ufficiale Amadou Haya Sanogo.

La Francia in un comunicato di martedì 18 agosto dal Ministro degli Affari Esteri ha condannato «con la più grande fermezza questo grave avvenimento».

L’Unione Africana mercoledì ha sospeso il Mali dalle sue istanze organizzative e denunciato “il cambiamento istituzionale”. La Costa d’Avorio, che confina con il Paese, non solo ha chiuso le sue frontiere, ma ha interrotto «tutte le relazioni economiche e finanziarie, l’interno flusso finanziario in direzione del territorio del Mali, fino a nuovo ordine», ha dichiarato il suo ministro dell’Economia e delle Finanze.

Una decisione fatta propria da tutta la Cedeao che «decide la chiusura di tutte le frontiere terrestri ed aeree così come l’arresto di tutti i flussi e transazioni economiche, commerciali e finanziarie» tra tutti i Paesi membri ed il Mali.

Un blocco economico in fieri, nonostante il Colonnello Ismaël Wagué del CNSP abbia affermato di voler assicurare “tutti gli accordi passati” e gli impegni militari del Mali, nonché le missioni internazionali nel Paese.

A Macron non è andata proprio giù che venisse defenestrato il proprio “figlio di puttana”, per riprendere una poco elegante espressione di Roosevelt.

La dipartita di “IBK” era infatti la principale richiesta del “Movimento 5 giugno – raggruppamento delle forze patriottiche”, una coalizione ad ampio spettro che per tre mesi era stata la protagonista di vivaci proteste di pizza, all’interno della quali convivono differenti anime e personaggi: da ex membri del governo all’influente imam “rigorista” Mahmoud Dicko, da forze apertamente marxiste a esponenti “patriottici”.

Un processo che l’antropologo di fama mondiale Jean-Loup Amselle, in un suo intervento su “Le Monde” descrive così: «una vera rivoluzione è all’opera in Mali, una rivoluzione che si articola su una alleanza politica tra una tendenza marxista e nazionalista ed un’altra detta «islamica» […] Questa forte opposizione popolare, presente soprattutto a Bamako e in qualche altra grande città, si radica in una popolazione profondamente musulmana […] L’avvenire dirà se questa rivoluzione potrà perseguire e produrre i cambiamenti tanto attesi da una popolazione che, sembra, ha accompagnato con fervore la presa del potere da parte dei militari e la caduta» di IBK, che ne è la conseguenza immediata.

Fin dalle proteste della prima metà di luglio al Colpo di Stato i vari esponenti della “comunità internazionale” – in particolare la Cedeao – non erano riusciti a trovare una mediazione accettabile per l’opposizione, avendo scartato l’ipotesi di un allontanamento del Presidente dalla gamma delle opzioni. Ma questa era di fatto la condizione necessaria, secondo il “M5-RFP”, per potere intavolare un dialogo che sbloccasse la situazione politica, iniziando così una reale transizione e non il mantenimento in forme leggermente mutate dello status quo.

Di fatto non si voleva creare un precedente, piuttosto pericoloso per alcuni Paesi africani – che sono il perno della strategia neo-colonialista francese – di un Presidente allontanato a causa della pressione popolare. Non si voleva dare spazio, tra l’altro, a forze che denunciavano la presenza militare “straniera” e la subordinazione economica, oltre che la strutturale corruzione politica, prefigurando un’agenda non dettata dall’Eliseo e dai suoi alleati nell’area.

Il 13 agosto, il M5-RFP aveva rifiutato un incontro con il Presidente – proposto dal mediatore della Cedeao Goodluck Jonathan, ex presidente nigeriano – fissando come precondizione la fine della “repressione” contro i suoi militanti.

Il comunicato poneva un netto rifiuto fino a che: «i suoi militanti saranno l’oggetto della caccia all’uomo da parte delle forze della repressione del regime e di condanne sbrigative», di fatto ribadendo che, a parte la supposta apertura di IBK ed i balletti diplomatici, nulla era sostanzialmente cambiato.

Di fatto nessuna componente della coalizione aveva ceduto alle sirene di una transizione gestita in stile gattopardesco da Parigi attraverso i suoi fedeli alleati nell’area.

Una parte dell’esercito, per così dire, in questa situazione di impasse si è fatta carico della volontà popolare, e di fatto ha ben presto affermato di “aprire una transizione politica civile” e di volere arrivare il prima possibile alle elezioni, aprendo subitaneamente un dialogo con l’opposizione.

«I militari sono loro stessi dei cittadini. Erano numerosi coloro che sostenevano il M5 e non volevano più IBK», confida un militare in pensione a Rémi Carayol, giornalista di Mediapart che segue da tempo gli sviluppi del Paese.

«Noi organizziamo il più grande assembramento patriottico venerdì, al monumento dell’Indipendenza» epicentro della contestazione a Bamako, «e sull’insieme del territorio nazionale per festeggiare la vittoria del popolo del Mali», ha dichiarato alla stampa Chouguel Maïga, presidente del comitato strategico del M5-RFP.

Un’inequivocabile legittimazione dell’operato dell’unica istituzione che ha voluto cambiare lo stato delle cose e ribadire una sovranità calpestata, nonostante l’ostilità della Comunità Internazionale.

Parlare di “ritorno dello Stato di diritto”, come fa Parigi, è paradossale per un Paese dove al Nord ed al Centro – a parte le città principali – l’Autorità Statale si è liquefatta sulla spinta dell’indipendentismo tuareg (il movimento nazionale per la liberazione dell’Azawad) ai confini con l’Algeria grazie alla Francia, della presenza Jihadista stabilitasi in Mali con la fine della Jamahiriya in Libia nel 2011 – il vero “vaso di Pandora” apertosi nel Sahel che ha spianato la strada ai tagliagole integralisti – e i conflitti intra-comunitari nel centro, tra l’altro fomentati dal governo centrale.

Il Mali è da tempo uno Stato fallito dove l’esercito, continuo bersaglio degli attacchi mortali degli Jihadisti, è generalmente mal equipaggiato e mal pagato, nonostante il flusso di denaro che l'élite si è accaparrata grazie all’inedito flusso di finanziamenti militari: 1230 miliardi franchi CFA (1,9 miliardi di euro), sbloccati nel 2015 per un periodo di 5 anni, al fine di reclutare 10 mila uomini e acquistare nuovi materiali bellici.

Malgrado questo investimento colossale per il “Sahel”, la situazione non ha fatto che deteriorarsi a livello militare, così come la condizione sociale complessiva, cui non sono destinate altrettante risorse.

Ai microfoni di RFI Afrique, il ricercatore indipendente e vero conoscitore dell’esercito del Mali, Marc-André Boisvert, parla di pressione accumulata dal 2012, anno del precedente colpo di Stato Militare, che già testimoniava delle frustrazioni in seno alle forze armate.

Una frustrazione data dalla mancata realizzazione di una paga migliore – nonostante l’aumento del costo della vita – e di un impegno al fronte mai così intenso, con una mortalità accresciuta soprattutto dal 2015, senza che si intraveda una strategia d’uscita all’orizzonte.

Afferma il ricercatore: «per molti soldati, comincia ad essere pesante. Si vede una crisi del morale dell’esercito del Mali che aumenta sempre più ed è un elemento importante», soprattutto tenendo conto che i politici sono visti come coloro che si sono arricchiti con le commesse militari, senza che i soldati godessero del minimo beneficio.

Questo dato non poteva sfuggire ai decision maker europei – in particolare francesi e tedeschi – che hanno preferito comunque mantenere ad ogni costo in sella un Presidente delegittimato e la sua cricca di potere, pensando di perpetuare un ordine che almeno temporalmente si è rotto.

L’offensiva diplomatica lanciata a tutto campo è il frutto di questo coordinamento “senza precedenti” tra i due Paesi, come la definisce Le Monde: “all’oggi, Parigi e Berlino cercano una convergenza su tutti i soggetti-chiave”. Tra cui, aggiungiamo noi, stroncare ogni velleità di dettare un’agenda politica indipendente da parte di un popolo che l’asse franco-tedesco, oltre ai politici nostrani, ritengono faccia parte del proprio “giardino di casa”.

Il Mali, potrebbe essere, “l’anello debole” di questa riconfigurazione neo-coloniale ed una speranza per i popoli di un intero continente.

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